La presenza americana in Africa
Il generale Stephen Townsend, fino a ieri alla testa dello US Africa Command (guidato da 24 ore dal generale dello US Marine Corps Michael E Langley), il 26 luglio ha espresso la sua posizione sul dispiegamento di truppe statunitensi in Africa e sulle attuali minacce alla sicurezza in tutto il continente.
Parlando durante una conferenza stampa dal quartier generale di AFRICOM a Stoccarda, in Germania, alla vigilia della scadenza del suo ma dato, Townsend ha affermato che “il presidente [Biden] ha recentemente autorizzato il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti a ripristinare una piccola e persistente presenza militare statunitense in Somalia. Siamo nelle fasi iniziali di questo sforzo. La nostra missione in Somalia non è cambiata. Le nostre forze continueranno ad equipaggiare, addestrare, consigliare e assistere i nostri partner somali per degradare al-Shabaab, braccio di al-Qaeda”.
Townsend ha riconosciuto che “l’Africa si trova a un crocevia globale e il suo ambiente di sicurezza è complesso, ricco di opportunità e sfide allo stesso modo. La disinformazione è un problema, nella regione, nel far fraintendere il modo in cui gli Stati Uniti collaborano con i paesi africani”.
L’America intende continuare ad aiutare Gibuti, Kenya e i partner regionali statunitensi a rafforzare le forze di sicurezza somale e la missione dell’UA, la Missione di transizione africana in Somalia (ATMIS), per combattere e degradare al-Shabaab.
“In Nord Africa, siamo interessati a proteggere il fianco meridionale della NATO e ad aiutare i nostri partner a monitorare e interrompere le organizzazioni di estremisti violenti che potrebbero tentare di risollevarsi in Libia e Tunisia”, ha rivelato.
In Africa occidentale “Al-Qaeda è presente, principalmente sotto forma di un gruppo noto come JNIM, e sono probabilmente il gruppo più grande e letale dell’Africa occidentale, ma hanno anche i loro concorrenti terroristici dell’o Stato Islamico con due gruppi principali: ISIS-Sahara e ISIS-Africa Occidentale.
ISIS-Africa Occidentale è presente prevalentemente nella regione del Lago Ciad. C’è un altro gruppo lì, Boko Haram, che era molto in prima pagina qualche anno fa e pare in competizione con ISIS-Africa Ooccidentale che sembra sia ora la forza dominante in quella regione. Boko Haram esiste ancora, ma penso che stiano resistendo.
Molti dei loro membri si sono arresi o hanno cambiato schieramento per unirsi all’ISIS-Africa Occidentale che è in forte espansione in Nigeria, in Mali e Burkina Faso, dove il JNIM sta quasi investendo la capitale Ouagadougou e sta iniziando ora le operazioni nelle regioni settentrionali di confine”.
Townsend ha detto che questi sviluppi dovrebbero essere di “grande preoccupazione” per il resto del mondo. Gli Stati Uniti forniscono supporto ai partner africani, in particolare alla G4 Sahel Joint Force, ex G5 Sahel Force da cui il Mali si è ritirato. “I nostri finanziamenti a questi paesi forniscono attrezzature, formazione e supporto per consentire loro di diventare più efficaci nella loro lotta contro i gruppi di estremisti violenti”.
“Alla luce della continua espansione dei terroristi, dei cambi irregolari di governo nella regione, dell’arrivo di gruppi “maligni” come il gruppo mercenario russo Wagner e della ricalibrazione da parte di altri partner come la Francia e altri”, ha detto il generale, “Anche gli Stati Uniti stanno ricalibrando l’approccio cercando di trovare un modo per diventare più efficaci in futuro”.
Il 16 maggio scorso, subito dopo le elezioni presidenziali somale, l’Amministrazione Biden ha dato il via libera al ritorno dee militari statunitensi nel paese del Corno d’Africa. La decisione era nell’aria da inizio mese, ma per darne l’ufficialità non si attendeva che la fine del processo elettorale locale.
Il ritorno statunitense arriva in un momento critico per la Somalia. I qaedisti di al-Shabaab continuano ad operare in buona parte del paese nonostante i raid delle forze speciali somale, inquadrate nei reparti d’elite Danab: i militari somali sono stati finora incapaci di riprendere il controllo di gran parte del sud.
Siamo al punto in cui la Somalia odierna assomiglia ancora a una gigantesca forma di gruviera, con piccole isole di stabilità nei centri urbani, circondate da un mare in tempesta, instabile e insicuro. Gli al-Shabaab godono di consenso fra ampie fette della popolazione e sono abili nel rilanciare il loro messaggio nazionalista e jihadista con un uso meticoloso della comunicazione strategica e dei social media. A inizio maggio, hanno sferrato uno dei loro maggiori attacchi degli ultimi anni contro un avamposto dei soldati dell’Unione Africana, ubicato ad el-Baraf, nella regione del medio Shabelle.
La base era presidiata da truppe burundesi. Sarebbero morti tre soldati, secondo il bilancio ufficiale, ma le vittime sarebbero molte di più, esito drammatico di un raid che ha ricordato le pagine più oscure della lotta al Daesh fra Iraq e Siria, con l’impiego di un grosso veicolo bomba guidato da un kamikaze.
Un monito per Mogadiscio, cui i terroristi lanciano una sfida rinnovata, che dimostra la loro capacità immutata di contendere al governo e alle truppe straniere il controllo di intere fette di territorio.
Il tutto avviene in un momento decisivo per la Somalia. Il neoeletto presidente Hassan Sheikh, al suo secondo mandato, dovrà gestire la transizione dall’AMISOM all’ATMIS, la nuova missione dell’Unione Africana, lanciata il primo aprile scorso con il voto unanime del Consiglio di Sicurezza risoluzione 2628.
Il problema è che l’ATMIS passerà da ruoli combat a un mero supporto e ha solo un mandato biennale. A termine dovrà infatti consegnare le chiavi della sicurezza alle forze armate locali. Nel 2024, non ci saranno più i caschi blu e c’è da chiedersi se l’esercito e la polizia somali saranno all’altezza della sfida. L’ATMIS ha già visto ridursi il suo margine di manovra, perché ha un volume di forze autorizzato di 19.626 soldati, con un minimo di 1.040 poliziotti. Numeri inferiori a quelli dell’AMISOM e destinati a contrarsi ulteriormente dal 1° gennaio prossimo, quando la forza dei peacekeepers sarà decurtata di altre 2.000 unità.
Staremo a vedere se i somali reggeranno. Per ora sappiamo che, durante il suo primo mandato, anteriore alla parentesi Farmajo, Sheikh aveva intessuto solidi legami con i partner occidentali e regionali. Ora spera di farli fruttare per compensare con il loro aiuto la perdita dei peacekepers.
E’ verosimile che l’Amministrazione Biden abbia voluto mandare un messaggio in tal senso, ripristinando l’operazione in Somalia appena un giorno dopo l’elezione di Sheikh. Già nel gennaio 2021, i consiglieri militari statunitensi avevano tentato di dissuadere Donald Trump dal ritirare il contingente statunitense.
I 700 soldati americani svolgevano una missione di controterrorismo leggera, addestrando le truppe locali, accompagnandole in operazioni mirate e raccogliendo informazioni d’intelligence per i raid dei droni.
Da gennaio 2021 ad oggi, gli americani si sono pertanto limitati ad addestrare le controparti somale nei paesi vicini, dopo il riposizionamento avvenuto con l’operazione Octave Quartz. La formazione della Lightning Brigade somala non si è però mai interrotta. Continuerà almeno fino al 2027. Le forze speciali Danab saliranno da 1.400 a 3.000 effettivi, grazie agli istruttori americani.
Parliamo di unità cruciali, ormai operative in quattro stati della Somalia e capaci di condurre nell’ultimo trimestre del 2020 l’80% di tutte le operazioni delle forze armate nazionali contro al-Shabaab. Nonostante, il ritiro temporaneo, gli americani non hanno mai smesso di tenere nel mirino i qaedisti e la costola somala dell’ISIS, operante soprattutto nel Puntland. Nel 2021, pur crollati dai 44 dell’anno precedente, i raid aerei contro al-Shabab sono stati 11. Negli anni precedenti, erano stati 63 (2019), 47 (2018) e 35 (2017).
Da quando si è insediato Joe Biden i droni americani hanno colpito solo cinque volte, due quest’anno. Un crollo verticale, forse dovuto alla mancanza di intelligence diretta sul campo. Nonostante tutto c’è stata una continuità nella lotta. Il ritorno in forze in Somalia sarà però limitato a meno di 500 uomini e c’è da chiedersi se quei numeri saranno sufficienti ad invertire il corso della guerra.
Durante il primo mandato, 700 uomini non sono riusciti a impedire che i jihadisti ampliassero la loro impronta territoriale. Ora, con meno effettivi di prima, le previsioni sono pessimistiche. Se gli americani si accontenteranno di riprendere i raid contro la leadership di al-Shabaab allora l’impatto sarà minimo.
Se invece l’amministrazione Biden investirà risorse e attenzioni sulla guerra in Somalia, stigmatizzando gli al-Shabaab come una minaccia critica e sforzandosi di degradarla, allora la ripresa delle operazioni di controterrorismo potrebbe far pendere la bilancia verso le truppe e il governo somali. Ma occorrerà una visione strategica e non raid occasionali, forieri al più di qualche perdita fra la leadership jihadista.
Le notizie sono a tratti contraddittorie. Documenti dell’anno scorso, rivelano che gli americani hanno ridimensionato le ambizioni antiterroristiche in Africa: non punterebbero più a degradare la minaccia, ma si accontenterebbero ormai di contenerla, tanto l’idra jihadista è diventata capillare. Lo rivela un report al Congresso dell’Ispettore generale del Pentagono.
Sta di fatto che l’AFRICOM beneficerà quest’anno di fondi aggiuntivi per continuare la guerra al terrorismo. Il Congresso gli ha infatti assegnato 38,5 milioni di dollari supplementari rispetto ai 239 milioni chiesti dal Pentagono. E per portare a termine la missione, il Comando dispone di tutta una serie di infrastrutture su scala continentale.
La tela di Washington in Africa
Secondo dati dell’AFRICOM ottenuti dal sito investigativo The Intercept, gli americani occupano su base più o meno permanente tra 29 e 34 siti africani, con un totale di 6.000-7.000 uomini fra militari, civili in forza al dipartimento della Difesa e contractors.
Questi ultimi lavorano nei settori della formazione, a profitto delle forze armate locali, nel campo del trasporto aereo e in quello dell’intelligence. Due sono i Forward Operating Site (FOS) presidiati da Washington in Africa: uno è quello di Gibuti e l’altro sorge appena fuori dal continente, sull’isola britannica di Ascension il cui aeroporto venne utilizzato come hub logistico dura te le operazioni di riconquista delle Isole Falkland nella primavera del 1982.
A questi si aggiungono 12 Cooperative Security Locations (CSL). Tutte sono ubicate fra Dakar e Mombasa, con un sito cruciale come Agadez in Niger. Per essere più precisi, le CSL sorgono anche in Senegal, in Ghana, in Gabon, in Uganda, in Burkina Faso, in Marocco, in Kenya, a Gibuti, in Algeria, in Namibia, a San Tomé, nello Zambia, in Tunisia e fino a poco fa in Libia e in Mali.
I documenti dell’AFRICOM sono opachi in merito. L’ex comandante del Comando per l’Africa, generale Rodriguez, parlava delle CSL in termini riduttivi: «non c’è niente, solo qualche casamatta piena di materiale. Sono siti austeri».
Il generale li descriveva come semplici depositi pieni di equipaggiamenti, sulla falsariga degli stock RECAMP di un tempo. La verità è un po’ diversa. Tutte le CSL devono infatti disporre di facilità precise, vale a dire depositi di 1.000 metri quadrati, uffici di 325 metri quadri, avere piste capaci di movimentare giorno e notte cargo C-17, ospitare parcheggi per 2 aerei cargo e per un altro velivolo, stoccare riserve di carburante, fra cui del Jet-A1 sufficiente per 3 giorni, avere alloggi per 200 militari e permettere l’accesso a siti di locazione di veicoli.
I porti devono disporre di una banchina capace di accogliere una nave di 289 metri. L’insieme dei siti, strategicamente collocato, non deve distare più di quattro ore di volo da qualunque punto caldo del continente.
Uno sguardo alle basi
Dal 2020, l’AFRICOM è impegnato in una lotta sotterranea per espandere la rete di punti d’appoggio e di facilità logistiche sul continente, articolate in tre scacchieri d’intervento prioritari: Corno D’Africa, con Gibuti, il Kenya e la Somalia in testa; poi il Sahel, con siti ubicati in Burkina Faso, in Camerun, in Ciad e in Niger.
Venti Contingency Locations (CL) sono oggi situate nella zona centrale africana. Occupate sporadicamente, le CL permettono alle forze speciali americane di disporre di piccole basi avanzate. Per un avere un ordine di idee, nel 2014, il Pentagono non aveva che due FOS, 7 CSL e 18 CL. La crescita è notevole, a dispetto dell’abusato slogan dell’impronta leggera. Ma andiamo con ordine. In Africa Orientale, l’AFRICOM dispone dell’hub aeroportuale di Simba a Manda Bay, in Kenya. Vi decollano almeno due F-15 per operazioni puntuali in Yemen e in Somalia.
Gli americani progettano di rinnovare l’infrastruttura, con un investimento di 34 milioni di dollari, per ampliarla abbastanza da accogliere 325 uomini. Oltre a Manda Bay, una seconda Cooperative Security Location è ubicata a Mombasa, mentre due siti di contingenza sorgono a Lakipia, sede di una base dell’Aviazione keniana, e nell’aerodromo di Wajir, che i militari dell’US Navy hanno ampliato e perfezionato a inizio del decennio scorso. Documenti interni pubblicati dal Mail&Guardian rivelano l’esistenza di 12 progetti per ulteriori punti d’appoggio fra il Kenya, Gibuti e il Niger, per un costo di 330 milioni di dollari.
Gran parte dei lavori riguarderanno Camp Lemonnier, a Gibuti, ex base della Legione Straniera Francese e unico Forward Operating Site dell’AFRICOM sul continente africano. La base ospita il quartier generale della Combined Joint Task Force-Horn of Africa e circa 4.000 uomini. È rafforzata, 10 km più a sud-ovest, dall’aerodromo di Chabelley. Da qui operano i droni MQ-9 Reaper, forse dodici, impiegati in missione sia in Somalia sia in Yemen.
Gli americani continueranno a usare l’aerodromo almeno fino al maggio 2024 e godono di un’opzione per estenderne l’usufrutto per un altro decennio. Hanno rimaneggiato il sito. Vi hanno costruito dei posti di combattimento o defensive fighting position, edificati dai militari dell’870th Air Expeditionary Squadron. Lo squadron ha svolto tutte le operazioni di genio civile. Ha messo su delle piastre AM-2, che servono da struttura per gli edifici di ricovero, di manutenzione e di alimentazione. A Chabelley sono di casa pure i contractors di KBR.
Ritornati in Somalia, gli americani potrebbero dirottare fondi e attenzioni anche sulle basi non permanenti di Chisimaio, Mogadiscio, Baidoa, Bosaaso, Baledogle e Galkayo. Gli spostamenti e le visite ufficiali degli alti comandi dell’AFRICOM indicano che la regione è al centro di tutti gli interessi. Il generale Stephen Townsend, che a breve dovrebbe cedere le redini dell’AFRICOM al tenente generale dei Marines, Michael E. Langley, è stato in Somalia, in Kenya e a Gibuti a più riprese, anche di recente.
Nel dicembre 2020, ha promesso alle autorità keniane aiuto nel processo di professionalizzazione delle forze armate nazionali, in prima linea nella lotta al terrorismo, una piaga anche per alcune aree del Nord Africa e del Sahel.
La danza delle basi dal Nord Africa al Sahel
Nell’area, una base di droni altamente strategica è ubicata nella base aerea Sidi Ahmed, in Tunisia, sede di una contingency location dell’AFRICOM. E sempre in Tunisia sono in uso all’AFRICOM anche le infrastrutture di Biserta, su base non permanente. Fino a poco tempo fa, gli americani usavano pure l’aerodromo di al-Wigh, un sito nel Sahara libico al confine con il Niger, il Ciad e l’Algeria, mentre siti non permanenti erano segnalati dall’AFRICOM perfino a Tripoli e a Misurata, oggi abbandonati.
Più a sud, la presenza militare statunitense è ben documentata. Mentre scriviamo, il Comando statunitense per le forze speciali (USSOCOM) mantiene in Niger almeno un centinaio di operatori, cui si affiancano altri 600 regolari dell’USAF, del genio e agenti della CIA.
Dopo l’imboscata di Tongo Tongo, costata la vita a 4 incursori dei Berretti Verdi e gravi ferite ad altri due operatori, il Pentagono ha aperto un’inchiesta che ha fatto luce sulla presenza americana nel paese, ripartita fra i siti di Ouallam e Arlit. Qui le forze speciali americane hanno basi operative avanzate dal 2017, per dare la caccia ai terroristi dello Stato Islamico nel Grande Sahara.
Il triangolo è completato dalla FOB di Maradi, occupata dal 2016 da uomini del 3° Special Forces Group, cui si somma la FOB 101 per operazioni speciali, interconnessa all’aeroporto internazionale Diori Haman. A Ouallam, le forze speciali americane addestrano e armano una compagnia dell’antiterrorismo nigerino e da questa base muovono spesso in sinergia operativa con altri reparti nigerini.
Ma c’è dell’altro. Un documento del 2017, rivelava la stipula di un contratto per 4.400 galloni al mese di benzina diesel e per 6.000 galloni di carburante per aereo da consegnare ogni 90 giorni, destinati a una quarta installazione militare: Dirkou.
Il 9 settembre 2018, il New York Times rivelò tra le altre cose che la CIA utilizzava le infrastrutture aeroportuali di questo piccolo aeroporto. Dirkou è centrale. Situato a sud di Madama, sede di un vecchio forte della Legione Straniera, è posto a 570 km da Agadez.
La CIA userebbe la copertura della presenza ufficiale dell’USAF nella base. L’Agenzia d’Intelligence ha opposto un secco no comment all’informazione, ma secondo un reporter del NYT i voli avverrebbero di notte e la presenza di droni è stata confermata da fonti locali. La base sarebbe stata potenziata tra fine 2019 e inizio 2021. Immagini satellitari rivelano un ampliamento della pista di volo, allungata di circa il doppio rispetto al passato, e un incremento delle misure a presidio.
La mossa potrebbe indicare che l’aerodromo si appresta ad accogliere cargo militari e velivoli pilotati. Ma non sono ancora spuntate immagini di hangar capaci di ospitarli.
Le fotografie satellitari disponibili rivelano solo la presenza di un MQ-9 Reaper e di un velivolo che sembrerebbe essere un U-28A. L’amministrazione Biden ha però imbrigliato la CIA, limitandone gli attacchi antiterroristici e vincolandoli all’approvazione della Casa Bianca, almeno per quei teatri operativi in cui non siano presenti sul campo militari statunitensi, come il sud della Libia e la regione della triplice frontiera.
Il quadrante è tenuto nel mirino anche dalla base aerea 201 di Agadez, nel nord del paese. Da qui i voli sono cominciati nel 2019. Usata congiuntamente dalle forze americane e nigerine, la base 201 ospita droni Reaper armati, cargo C-17 e aerei da trasporto tattico C-130J Super Hercules, che operano dalla zona del sedime sotto controllo esclusivo dell’USAF. Agadez è oggi un grande hub, intorno al quale gravitano gli altri quattro siti nigerini che abbiamo visto essere in uso ai Berretti Verdi e alle forze speciali americane.
Non meno cruciale era la presenza americana nel vicino Mali, dove si trovavano due contingency locations, a Gao e nella capitale Bamako, ora semi-interdette dopo il nuovo corso della giunta di Assimi Goita. Nel 2014, erano circolate sul web immagini di un velivolo U-28, fotografato a Gao, a testimonianza delle operazioni di Intelligence Surveillance e Reconnaissance americane nel Sahel.
Il velivolo apparteneva al 319° Special Operations Squadron di Hurlburt Field. Probabilmente, l’aereo faceva la spola con il Burkina Faso, perché è da lì che i Pilatus decollano per missioni ISR sul Sahel. A meno che non ci sia un legame diretto con Gibuti. A Ouagadougou, capitale del Burkina Faso e quartier generale della Task Force Sabre, che riunisce 500 commando francesi, i PC-12 americani volano almeno da fine 2013.
Dalle foto disponibili, si distinguono alcuni equipaggiamenti di cui sono dotati: tutto a sinistra, sopra la carlinga, c’è un’antenna del tipo UHF/Satcom/GPS S65-8282-136 e, dietro, un sistema d’antenna per le comunicazioni satellitari. Alcuni di questi velivoli appartengono alla società Lowcountry Trading II LLC di Newport.
Si tratta di una società che mantiene un profilo discreto, senza sito web, con indirizzi postali in Virginia, nel Delaware e nel Maryland. Non figura fra i subcontraenti del Pentagono. Sarebbe quindi un contractor discreto, che mette a disposizione del DoD le piattaforme aerotrasportate per le missioni ISR, imprescindibili in Africa.
Secondo Elie Tenenbaum, ricercatore dell’IFRI, nel 2020 e 2021, l’AFRICOM ha garantito il 40% del trasporto strategico e del rifornimento in volo di tutta l’operazione francese Barkhane, e ne ha coperto il 50% dei bisogni ISR. Una missione cui hanno contribuito anche le piattaforme rischierate in due siti di contingenza in Ciad.
La prima Contingency Locations è ubicata nella capitale N’Djamena, da cui hanno operato fino al 2018 i droni MQ-1 Predator, poi rimpiazzati dagli MQ-9 Reaper. Qui vi sarebbe inoltre il quartier generale di uno Special Operations Command and Control Element, un comando d’elite di livello battaglione. Il sito investigativo The Intercept avanza l’ipotesi che l’altra Contingency Location sorga a Faya Largeau, dove bazzicano pure i francesi, con una base operativa avanzata.
Dal Sahel all’Africa Occidentale
Più a sud, in Nigeria, è ripresa dal 2020 la collaborazione d’intelligence con le forze armate locali. Una ventina di consiglieri statunitensi operano in seno al Joint Intelligence Fusion Center dell’Agenzia d’intelligence militare nigeriana. Più massiccia è la presenza in Camerun, dove gli americani occupano due siti. Il primo è la Cooperative Location di Garoua, ubicata a poco più di 30 km dal confine nigeriano. Vi decollano almeno quattro droni MQ-1C Gray Eagle, armati con missili Hellfire o bombe Viper Strike. A Garoua è distaccata anche la Task Force Darby dell’US Army, che supporta le forze camerunensi nella lotta contro i terroristi di Boko Haram.
La seconda Contingency Location sorge a Douala, ma gli americani avrebbero avamposti pure a Maroua e nella vicina base ‘Salak’, usata sia da personale delle forze armate statunitensi, sia da contractors per missioni di addestramento e voli ISR con droni. Ancora più a sud, nel vicino Gabon, una Cooperative Security Location esiste a Libreville.
Ma ci sarebbero piani per farne un posto di comando avanzato, così da facilitare l’afflusso di un maggior numero di uomini in caso di necessità. C’è da proteggere gli asset diplomatici americani, vista l’instabilità della vicina Repubblica Democratica del Congo e i tentativi di colpo di stato in Gabon, andati a vuoto appena due anni fa.
La CSL è stata attivata nel 2015 da un’unità di marines della Special-Purpose Marine Air-Ground Task Force Crisis Response Africa.
Arrivati dalla base spagnola di Moron, 200 militari appoggiati da quattro convertiplani Osprey e due KC-130J da rifornimento hanno manovrato in Gabon per testare le capacità di proiezione americane in Africa occidentale. Generalmente, la CSL di Libreville è tenuta da una ventina di marines, che gestiscono la logistica necessaria alla proiezione delle truppe in arrivo e dei loro vettori. Sulla costa atlantica africana, nel Golfo di Guinea, sorge inoltre la CSL dell’aeroporto internazionale Kokota di Accra, cuore del network logistico militare americano in Africa Occidentale.
Il Ghana sta acquistando rilevanza per la lotta alla pirateria, per i contributi al peacekeeping e per la prevenzione del terrorismo. Mai colpito da un attacco jihadista, il Ghana si sente oggi minacciato. L’estremismo violento avanza, spesso bersagliando obiettivi situati a meno di 10 chilometri dalla frontiera con il Burkina Faso.
Ci sono già stati attacchi in Costa d’Avorio e pure il Togo ha dichiarato lo stato d’emergenza nel nord. A febbraio 2021, per la prima volta, il generale Townsend si è recato in visita in Ghana, per approfondire i legami con le forze armate locali, nell’ambito dell’Iniziativa di Accra, che supporta la condivisione regionale di intelligence e le operazioni di sicurezza transfrontaliere fra i paesi litoranei dell’Africa occidentale, il Benin, il Burkina Faso, la Costa d’Avorio e il Togo, e le controparti del Sahel.
Gli americani forniranno consulenza, ma anche le Forze francesi schierate in Senegal (Éléments Français au Sénégal) stanno iniziando addestramenti congiunti, completando la formazione dispensata da altri partner stranieri presenti in Ghana, fra cui Israele e la Gran Bretagna.
Il margine di manovra più ampio se lo sono però assicurati gli americani. Nel maggio del 2018, il Pentagono ha firmato un accordo sullo stato delle forze in Ghana, che concede ai militari e ai contractor statunitensi libero accesso a una miriade di infrastrutture, l’uso esclusivo di alcuni siti e libertà d’impiego della rete viaria asservita. I militari americani godranno dell’immunità diplomatica quanto al porto delle armi e non potranno essere perseguiti dalla giustizia ghanese.
L’accordo apre la strada alla costruzione di una vera e propria base militare, destinata ad espandersi negli anni a venire. Sembra che gli americani abbiano pagato 20 milioni di dollari per strappare l’intesa. Staremo a vedere.
Gli americani hanno una proiezione discreta anche in Senegal, dove occupano un piccolo compound nella base aerea Capitano Andalla Cissé, a Dakar e possono usare le infrastrutture della nazione ospitante pure a Theis. Un accordo simile, detto della host nation facilities, regola poi l’accesso al sito di Singo, in Uganda.
Qui, la CSL di Entebbe è stata a lungo un’importante base aerea per le forze americane in Africa, servendo da hub per i voli di sorveglianza e intelligence dei PC-12. Entebbe è stato il fulcro dell’operazione Oaken Steel, nel luglio 2016, che ha permesso la rapida proiezione di truppe americane per evacuare il personale statunitense, circondato all’ambasciata di Juba, capitale del Sud Sudan.
I programmi di aiuto e di partenariato
Da questa rapida panoramica si evince che l’impronta statunitense in Africa sarà pure leggera, ma è anche molto capillare e si affianca a una rete complessa di misure e di programmi di partenariato.
La stragrande maggioranza dell’assistenza di sicurezza americana al Continente nero è fatta di aiuti militari. Nell’ultimo decennio quasi due miliardi di dollari sono stati spesi per sostenere la lotta contro i terroristi di al-Shabaab in Somalia. Una somma a cui va aggiunto il supporto ai paesi vicini, in primis Kenya, Gibuti e, prima della guerra civile, Etiopia, per un totale di 40-60 milioni dollari l’anno, da almeno 8 anni.
Sta aumentando pure l’assistenza al governo nigeriano e ai paesi limitrofi per contenere la duplice minaccia di Boko Haram e dell’ISWAP. E cresce al tempo stesso l’aiuto ai paesi del Sahel. Ma per capire meglio, bisogna addentrarsi nei meandri dei programmi che dipendono dal dipartimento di Stato e di quelli, sempre più numerosi, gestiti direttamente dal Pentagono.
Fra i primi, ce ne sono tre molto importanti, a partire dall’International Military Education and Training Program (IMET), che assicura una formazione accademica dispensata nelle scuole militari americane, con l’obiettivo di approfondire i rapporti bilaterali e di trasmettere alle élite militari i saperi e le tradizioni del sistema statunitense. Il secondo programma è il Foreign Military Sales (FMS), che riguarda soprattutto gli acquisti di armamenti, di servizi e di addestramenti congiunti.
Infine c’è il Foreign Military Financing (FMF), che ha la stessa finalità del FMS ma che è finanziato con un meccanismo di sovvenzioni o di grants, spendibili in contratti con industriali statunitensi. Entrambi i programmi ‘finanziari’ sono capitanati dall’Agenzia del Pentagono per la cooperazione di sicurezza o DSCA (Defense Security Cooperation Agency) e gestiti dagli uffici dell’AFRICOM nelle ambasciate dei paesi coinvolti, tramite gli Offices of Security Cooperation. A dispetto di tutto ciò, a mettere i soldi è il dipartimento di Stato, che assicura la tutela a livello politico. Per il via libera finale occorre poi un voto del Congresso.
Il programma FMF è il maggior catalizzatore di aiuti militari americani. Fra i primi dieci beneficiari negli ultimi 8 anni, vi sono tre paesi africani: Gibuti, l’Etiopia e l’Uganda. Ma anche il Ciad, il Camerun e la Mauritania sono grossi beneficiari. La quota africana del FMF si è aggirata ultimamente in un terzo circa della quota totale del ‘fondo’.
L’IMET viaggia su cifre molto più contenute, perché non tira in ballo nessun equipaggiamento. Gli africani, sommati, si ritagliano una cifra di 12 milioni annui circa. Un’altra parte maggioritaria dell’aiuto americano fluisce attraverso il bilancio PKO (Peacekeeping Operations), da non confondersi con il contributo americano al dipartimento delle Nazioni Unite che si occupa di operazioni di
mantenimento della pace. Con questo fondo, aumentato enormemente negli ultimi 21 anni, tanto da esser balzato dai 150 milioni di dollari del 2000 ai 500 circa attuali, si finanzia la formazione delle forze armate dei paesi partner.
Alimentato dal dipartimento di Stato, il budget PKO va soprattutto a beneficio dei paesi dell’Africa sub-sahariana, con somme che variano dai 200 ai 400 milioni di dollari l’anno. È grazie ad esso che si è potuta finanziare la riforma, ancora incompleta, dei settori della sicurezza in Liberia, in Sud Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo e in Somalia. In totale, gli americani hanno investito 330 milioni in Sud Sudan fra il 2005 e il 2013, 200 milioni e passa in Liberia negli ultimi tredici anni, più di 120 milioni nello stesso lasso di tempo nella RDC e oltre 220 milioni in Somalia.
Il PKO funge al tempo stesso da linea di credito principale per i programmi di contrasto al terrorismo amministrati dal dipartimento di Stato, in primis la Trans-Sahara Counterterrorism Partnership (TSCTP), che concerne il Sahel, e la Partnership for Regional East Africa Counterterrorism (PREACT), che riguarda i paesi dell’Africa orientale, con un budget rispettivo di 20 milioni di dollari circa annui e di 10 milioni.
Non meno importante è il programma Global Peace Operations Initiative (GPOI), che va avanti dal 2005 ed ha inglobato il precedente programma ACOTA (African Contingency Operations Training and Assistance). Il GPOI sarebbe dovuto durare appena un quinquennio, dotato di un bilancio di 660 milioni di dollari. Esteso, punta ad addestrare più di 250mila soldati aggiuntivi, oltre ai 100.000 militari africani già formati dal 2005.
E’ utilissimo, visto che l’80% dei caschi blu dispiegati nel mondo sono concentrati in Africa e che una delle maggiori operazioni di stabilizzazione è l’ATMIS in Somalia, con peacekeepers in massima parte equipaggiati ed addestrati dagli Stati Uniti, oltre che supportati finanziariamente dall’UE.
Tradotto in soldoni, fra i dieci principali contributori di forze dell’ONU, metà sono paesi africani. A loro e a tutti gli altri paesi continentali amici è rivolto l’Africa Military Education Program, che punta a professionalizzare le forze armate locali.
I programmi in mano al Pentagono
Oltre a queste forme di cooperazione strutturate, gestite dal dipartimento di Stato, ci sono i programmi pilotati dal Pentagono, soprattutto in fatto di lotta al terrorismo. Dal 2005, il Congresso autorizza ogni anno il Pentagono a svolgere i suoi programmi, assegnandogli fondi crescenti, soprattutto per l’Africa.
Il budget più noto va sotto la sezione 1206 del bilancio della difesa, ed è chiamato Global Train and Equip Program, codificato nella legge di autorizzazione della Difesa del 2015 con il titolo 10USC 2282. Altre sezioni, 1207, 1203 e 1208 sono seguite per circoscrivere parte degli sforzi all’Africa orientale e allo Yemen. I soldi stanziati sono cresciuti di anno in anno, specie per l’Africa sub-sahariana, superando gli 800 milioni di dollari negli ultimi 13 anni.
I principali beneficiari sono il Kenya e l’Uganda, che hanno ricevuto fino ad oggi più di 100 milioni di dollari ciascuno. Ma anche la Mauritania, il Niger, il Burundi e Gibuti si piazzano bene.
Dal 2014, il dipartimento di Stato e il Pentagono portano avanti pure l’iniziativa congiunta ribattezzata Global Security Contingency Fund, un progetto pilota destinato alla lotta contro Boko Haram e in seguito ampliato anche all’ISWAP, con un bilancio in crescita e 40 milioni di dollari allocati in tutto per supportare le forze armate nigeriane, camerunensi, ciadiane e nigerine, che gravitano nell’area del bacino del lago Ciad.
Programmi antecedenti continuano a finanziare la lotta al terrorismo su scala continentale: per l’Africa sub-sahariana sono stati stanziati da 12 a 38 milioni l’anno negli ultimi 8 anni. Ma la misura riguarda più di 20 paesi. Ci sono poi fondi ad hoc che coprono la lotta antiterrorismo delle forze speciali, coperti dalla sezione 1208, ma le cui informazioni sono purtroppo segrete.
La linea creditizia principale per il contrasto al terrorismo è sempre il fondo globale per promuovere partenariati specifici, noto come Counter Terrorism Partnership Fund. L’iniziativa trae le sue origini dal discorso di Barack Obama all’Accademia di West Point, nel maggio 2014.
In seguito, si è decisa di finanziarla con fondi attinti dal bilancio per le operazioni del Pentagono, o Overseas Contingencies Operations. Gestito in sinergia con il dipartimento di Stato, il programma stanzia in media più di 400 milioni di dollari per l’Africa, ripartiti fra gli scacchieri dell’Africa orientale, del bacino del lago Ciad e dell’Africa nord-occidentale.
Una parte è diretta anche agli alleati, in primis alla Francia, qualificata come «partner cruciale che conduce missioni di controterrorismo nel continente». Sempre l’amministrazione Obama ha lanciato tre nuovi programmi, annunciandoli al vertice USA-Africa di Washington dell’agosto 2014. Tutti riguardano iniziative multinazionali per il ripristino o il mantenimento della pace.
Il primo programma va sotto il nome di Security Governance Initiative e coinvolge Ghana, Kenya, Niger, Nigeria e Tunisia, con il fine di migliorarne la governance nel settore della sicurezza e potenziarne le capacità nel fronteggiare le minacce.
Ha visto i fondi salire da 65 milioni di dollari l’anno a 83 milioni annui circa. Altri cinque paesi africani beneficiano inoltre dell’African Peacekeeping Rapid Response Partnership. Si tratta nell’ordine del Senegal, del Ghana, del Ruanda, della Tanzania e dell’Uganda. Prima della guerra civile nel nord, rientrava nel programma anche l’Etiopia. I 5+1 sono gli ‘eletti’, reputati avere forze armate di livello sufficiente a integrare le missioni delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana. Fino al 2019, il budget destinato al programma si aggirava sui 110 milioni di dollari l’anno.
Conclusioni
La presenza americana in Africa è come un Giano Bifronte. Da un lato, mostra il volto capace di una rete efficiente di punti d’appoggio fra loro coordinati, gestiti con una catena di comando lineare e funzionale. Dall’altro, si presenta con una moltitudine di programmi difficili da sistematizzare, fonte di troppi inconvenienti.
Si registrano infatti difficoltà di assorbimento delle risorse finanziarie da parte dei governi africani, spesso coinvolti in distrazioni di fondi e scandali di corruzione. C’è poi discontinuità nei piani di aiuto, soprattutto per le norme del Congresso americano, in primis le leggi Lehay, che impongono molte condizionalità nel rispetto dei diritti umani per il versamento reale delle somme stanziate.
Gli aiuti ai paesi partner e alle loro forze armate sono talvolta un boomerang anche per gli americani. Rischiano in certi casi di rafforzare regimi autoritari e repressivi, che si giovano del supporto di Washington per consolidare il proprio potere e reprimere l’opposizione politica, sotto il mantello luccicante della lotta al terrorismo. Le derive keniane ed etiopi ne sono un esempio, al punto che il 17 settembre scorso il presidente Joe Biden ha dovuto firmare un ordine esecutivo per autorizzare il Congresso ad adottare sanzioni contro il regime di Addis Abeba e le sue degenerazioni nel Tigray.
La collaborazione militare è stata ormai sospesa e gli aiuti finanziari sono cessati. È la storia di un fallimento americano in Africa, dopo le critiche piovute negli anni scorsi per i programmi di formazione, convenzionali e speciali, dispensati alle forze armate maliane. Un altro paese perduto. Se l’obiettivo americano in Africa è cercare di contenere l’avanzata cinese e il ritorno russo, occorrerà ripensare molti programmi e tornare ad investire anche commercialmente nel Continente Nero.
Fra il 2010 e il 2020, l’interscambio commerciale fra gli USA e l’Africa è crollato da 113 miliardi di dollari del primo anno a soli 44 del secondo. Gli investimenti diretti americani nel continente sono declinati dal picco di 69 miliardi di dollari del 2014 a 46 miliardi nel 2020.
Il confronto con la Cina è impietoso. Negli ultimi vent’anni, Pechino ha firmato più di 1.100 contratti di investimento per un ammontare di 153 miliardi, concentrati in tre settori: trasporti, minerali ed energia. L’interscambio cinese con l’Africa vale poco meno di 200 miliardi, il quintuplo di quello americano.
Anche i francesi fanno meglio degli statunitensi con un po’ meno di 60 miliardi. Turchi (più di 25 miliardi) e russi (20 miliardi) sono in rapida ascesa. Per riconquistare l’Africa non bastano le basi e i programmi di addestramento. Gli americani sono avvisati: tendono ad inquadrare il continente solo dal punto di vista delle crisi e dell’instabilità, fanno primeggiare la security sul resto, come testimoniano le mega-esercitazioni multilaterali tenute dall’AFRICOM nel continente.
Ve ne sono almeno sei ogni anno, fra cui quelle della serie African Lion, Cutlass Express, Flintlox, Justified Accord, Obangame Express e Phoenix Express. Mentre scriviamo e fino al 30 giugno saranno in corso le manovre African Lion fra Marocco, Tunisia, Ghana e Senegal, con contingenti di molti paesi occidentali, fra cui l’Italia.
La fase dinamica è iniziata lunedì 20. Mobilita 7.500 soldati. Parte di loro è transitata dalla nostra penisola, via Aviano e Livorno, diretta ad Agadir. Ma parlare solo di basi e di manovre è riduttivo. L’Africa di oggi è un continente di prospettive potenziali, opportunità e innovazioni in nuce.
L’African Continental Free Trade Agreement è ormai la maggiore area di libero scambio mondiale, con 1,3 miliardi di consumatori e un PIL combinato di 3,4 trilioni di dollari. Entro i prossimi 15 anni, più della metà della nuova forza lavoro mondiale proverrà dall’Africa subsahariana. A fine decennio, l’Africa conterà un quinto della popolazione mondiale, con un’età mediana di 19 anni, la più giovane del pianeta.
Mentre i cinesi hanno imbastito quattro vertici con l’Africa negli ultimi 20 anni e i russi stanno per celebrare a inizio 2023 il loro secondo summit intercontinentale nel giro di quattro anni, gli americani non hanno nulla di tutto ciò. Hanno tenuto finora un unico vertice e non rimedieranno che a fine anno, con un summit organizzato in extremis.
Nella stessa ottica va inquadrato il viaggio di Anthony Blinken in Sudafrica, RDC e in Ruanda, iniziato il 7 agosto. Per gli USA è stata l’occasione per annunciare una nuova strategia per l’Africa, in funzione antirussa e anticinese. Un nuovo documento strategico, reso noto l’8 agosto, per una più stretta cooperazione con i Paesi dell’Africa subsahariana per respingere l’influenza di Cina e Russia nella regione. Per la Casa Bianca, la “US Strategy Toward Sub-Saharan Africa rappresenta una riformulazione dell’importanza dell’Africa per gli interessi di sicurezza nazionale degli Usa”.
Washington intende fare di più per promuovere società aperte anche per contrastare “le attività dannose di Cina, Russia e altri attori stranieri”. Sul fronte democrazia e sicurezza, il documento strategico precisa che Washington lavorerà con alleati e partner nella regione per “arginare la recente tendenza di autoritarismo” e golpe militari.
Un’altra priorità è la lotta alla pandemia di coronavirus con le conseguenze economiche e sociali. “Queste sfide – si legge – sono state aggravate da problemi della catena di approvvigionamento e insicurezza alimentare derivanti dalla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”.
L’iniziativa sembra però costituire una mossa tardiva mentre perfino Giappone, UE, Turchia, India e Regno Unito tengono summit annuali per approfondire i rapporti commerciali e i legami con il continente.
I loro leader sono spesso in Africa. Macron vi è stato in visita ufficiale 12 volte, Erdogan 30 volte. L’ultimo viaggio americano di altissimo profilo risale a sette anni fa, alla visita di Obama in Kenya e in Etiopia. Troppo poco per incidere. Se vogliono davvero essere una potenza globale, gli americani devono fare uno sforzo ulteriore. L’Africa non aspetterà a lungo.
Foto US Africa Command
Francesco PalmasVedi tutti gli articoli
Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.