Cina. La super potenza dai piedi d’argilla?
Il grande gioco si sposta in Oriente? Quale rapporto tra Cina ed Europa? E in fondo, la Cina è veramente la superpotenza egemone che vuol far credere di essere?
Il volume realizzato da diversi autori come è consuetudine dei Quaderni di Domus Europa, analizza le politiche economiche, politiche, culturali della Cina. Le sue alleanze strategiche e le sue reali mire espansionistiche.
Sommario
- Introduzione, pag. 5
- Serse Cardellini, Zhǐ shàng tán bīng. Parlare di soldati sulla carta, pag. 15 Giuseppe Russo, Qiushi. Alla ricerca della verità, pag. 23
- Alessandro Voglino, L’aquila, il dragone, l’orso. Il nuovo disequilibrio e il ritorno degli Imperi, pag. 33
- Marco Ghisetti, La Cina, volano del multipolarismo, pag. 45
- Domenico Molino, Guerra e pace. L’Architettura di Sicurezza Europea nella Sfida Globale, pag. 57
- Antonciro Cozzi, La politica energetica cinese, pag. 83
- Davide Fini, La strana coppia sino-russa. I ribelli della globalizzazione, pag. 101
- Matteo Fulgenzi, Dalla Crimea alla Chimera: come le sanzioni occidentali hanno sancito il connubio tra il Dragone cinese e l’Orso russo, pag. 119
- Hanieh Tarkian, Il patto di partenariato venticinquennale tra Cina e Iran: un passo verso alleanze strategiche per superare l’unipolarismo degli Stati Uniti, pag. 167
- Luca Lezzi, La penetrazione cinese in America latina tra soft power e Nuova Via della Seta, pag. 179 Indice dei Nomi e dei Concetti, pag. 189
Introduzione
L’ingannevole fragilità dell’Impero di Mezzo. Scriviamo questa breve introduzione proprio nel giorno in cui la speaker dem statunitense Nancy Pelosi, fra le ovazioni dei giornalisti embedded di tutto l’occidente, è sbarcata a Taiwan , sfidando prima lo scarsissimo entusiasmo dei leaders e della Primo Ministro di Taipei Tsai Ing-wen, e poi i rituali proclami di Pechino; con corroborante originalità la plateale e gratuita provocazione americana, debitamente annunciata con giorni d’anticipo per esser certi che nessuno potesse ignorarla, è stata ricoperta da abbondanti dosi di una tipica glassa d’oltreoceano, al sapore di “sostegno alla democrazia”.
Dopo l’Ucraina, il Kossovo ed il mordi-e-fuggi afghano col morto, l’apertura in pochi giorni di un quarto fronte di tensione internazionale con la Cina, ci conforta nel poter constatare come gli sforzi per il “sostegno alla democrazia” da parte del deep state che deborda dietro alla vacillante presidenza di Joe Biden proseguiranno imperterriti quantomeno fino alle elezioni di medio termine, tempo fino al quale anche l’Europa continuerà a figurare come non pervenuta. Più attenta la Russia, col Ministero degli Esteri di Mosca che ha così commentato il fatto: «gli Stati Uniti si sono più volte impegnati in provocazioni, oggi Washington lo farà in diretta»: insomma, com’è ben noto, the show must go on.
Come il titolo medesimo di questo sesto numero de I Quaderni di Domus Europa dichiara, è oramai un luogo comune il definire la Cina una (quantomeno) apprendista superpotenza “coi piedi di argilla”; ma a ciò Lao Tzu saprebbe commentare più o meno così: «rigido e duro è il modo della morte, morbido e flessibile è il modo della vita; perciò, se un esercito è forte, viene distrutto; se un albero è forte, viene tagliato. Ciò che è forte e rigido è posto in basso, ciò che è debole e flessibile è posto in alto».
Ha quindi senz’altro ragione Serse Cardellini quando in queste stesse pagine nota come il primo limite che rende estremamente difficile un confronto non superficiale fra la Cina contemporanea e quell’ircocervo tanto supponente quanto in crisi sistemica chiamato “occidente” stia nell’incapacità del secondo di concepire visioni del mondo e rappresentazioni della realtà differenti dal proprio terrapiattismo post-illuminista e liquido-liberale.
E il continente Cina permane di fatto lontano dall’”occidente”, a dispetto del suo attraversamento feroce delle ideologie coloniali del XX secolo… Perché, ripetendo volontariamente una banalità dimenticata dalla maggior parte dei “commentatori” ed “esperti” che dopo Iran, Iraq, Afghanistan, Armenia, Georgia, Ucraina e Russia stanno ora spostando l’intenso lume della loro vacua tuttologia sul Celeste Impero, senza ritornare a comprendere cosa abbia significato e significhi non per il governo cinese attuale ma per la Cina il rapporto storico con l’”occidente” noi europei ci condanniamo a non comprendere nulla; o peggio, a non comprendere nulla secondo lo stile statunitense, quindi un nulla al quadrato.
E per la cultura cinese questo rapporto possiede ancor oggi un nome tanto esplicito quanto senza ritorno: “il secolo delle umiliazioni” (cinese 百年国耻); e non stupisce l’ignoranza diffusa che in argomento affligge, nei vasti confini dell’impero americano, l’inclito e il volgo. Quindi da ciò pazientemente ripartiamo: questa storia inizia nel pieno di quello che già cent’anni fa Leon Daudet bollò come “lo stupido XIX secolo”: fu infatti nel 1839 che la modernità bussò burbanzosa alla porta del Celeste Impero.
Era il tempo del verdeggiare tumultuoso del delirio d’onnipotenza anglosassone, nuovo impero del progresso e del 7 commercio, in cui i governi – possiamo ricordare un passaggio di Karl Marx dal Manifesto del 1848, quindi pochissimi anni dopo? – erano con piena coscienza ed avvertito consenso meri “comitati d’affari” delle prime proto-multinazionali, come la Compagnia delle Indie Orientali d’Inghilterra. In Europa era il tempo in cui Londra organizzava alacremente conventicole riformate, logge massoniche, società segrete mazziniane, rivolte e congiure per cambiare la carta geografica del continente e rimodellarla ad uso e consumo dei propri bilanci e domini.
In Italia era il tempo in cui dopo il fallimento giacobino e napoleonico veniva silentemente concepito quel disastro “a foglia di carciofo” che passerà nelle veline di fine secolo come il c.d. “risorgimento”. A Roma intanto felicemente regnava Papa Gregorio XVI, monaco benedettino camaldolese. In questo tempo la Cina, regnante la dinastia Qing (1644-1912) è ancora centrata su sé stessa, secondo la Tradizione taoista e confuciana. Non ritiene di aver bisogno di altri, né delle loro merci o credenze. I propri confini sono i confini del Mondo, e fuori vi sono solo barbari.
Il Centro della propria capitale, Pechino, è il Centro del Mondo, e qui risiede l’Imperatore. L’Imperatore non ha alcun bisogno di governare (e infatti non lo fa), ma si limita a sorreggere cerimonialmente il Cielo e la Terra.
Da un punto di vista occidentale la Cina è quindi estremamente decadente: non fa guerre di conquista, quindi significa che è pronta per essere conquistata; è avvolta da strati di una cultura arcaica, rarefatta ed incomprensibile, quindi pronta da essere amorevolmente ricondotta alle leggi universali del Progresso e della Civiltà (le proprie, ovviamente); si estende su un territorio immenso, la cui civiltà millenaria ha costellato di ricchezze al tempo non misurabili; costituisce quindi una plateale provocazione non per un decorativo e retorico “spirito faustiano dell’occidente” ma per la sua avidità costitutiva.
Ed è con un cospicuo residuo di ipocrisia borghese che si continua ancor oggi a chiamare comunemente l’aggressione occidentale all’Impero di Mezzo con la scivolosa perifrasi di “guerra dell’oppio”; in realtà fu la guerra della modernità contro un mondo colpevole di voler continuare ad esserne estraneo, la prima di una lunga serie che plasmerà la storia dell’Asia contemporanea. A dire il vero di “guerre dell’oppio” ve ne furono ben due, in quanto il paziente cinese si permetteva pure di recalcitrare di fronte all’inarrestabile cammino della modernità.
La prima durò circa tre anni, dal 1839 al 1842, e venne scatenata unilateralmente dalla Gran Bretagna il 3 novembre 1839 in quanto la Cina dal 1796 pretendeva (incredibile dictu) di impedire il contrabbando massiccio di oppio nel proprio territorio, oppio coltivato nel Bengala e venduto dalla Compagnia delle Indie Orientali inglese: di ciò si parla – e va rimarcato – quando nella storiografia occidentale ci si imbatte in formule vaghe e melliflue, ulteriori esempi di menzogna per omissione, come “obbligare il Celeste Impero ad aprirsi commercialmente, legalmente, finanziariamente”: la Cina doveva acquistare senza fiatare la droga prodotta in India e spacciata in tutta l’Asia dalla Compagnia inglese, e continuare a marcire in obbediente silenzio.
La prima guerra dell’oppio terminò con due “trattati imposti” (così andrebbero definiti, anche se in occidente va ancor oggi per la maggiore la traduzione decorata di porporina “trattati ineguali”), quelli di Nanchino (cin. 南京条约) del 19 agosto 1842 e di Humen (cin. 虎门条约) dell’8 ottobre 1843, che trasformarono la Cina meridionale in una colonia inglese de facto: i cinesi dovettero accettare forzosamente la cessione di cinque porti (Amov, Canton, Fuzhou, Ningbo, Shanghai) al “commercio internazionale” (leggasi: alla Compagnia delle Indie Orientali, che vi si arrogò anche il diritto di extraterritorialità), con tariffe doganali “concordate”, ossia imposte unilateralmente dall’Inghilterra alla miseranda quota del 5%; ed inoltre dovette cedere il territorio insulare di Hong Kong alla corona inglese e pagare all’aggressore una “indennità”, ovvero le spese stesse dell’invasione.
Al grande banchetto delle carni del Celeste Impero tosto si aggiunsero altri illustri commensali occidentali: due anni dopo, nel 1844, la Francia impose ad una Cina ancora prostrata la sottoscrizione del Trattato di Hangpu (cin. 黃埔条约), e gli Stati Uniti d’America il Trattato di Wangxia5 (cin. 中美望夏条约), il cui contenuto ricalcava i Trattati imposti dagli inglesi, in nome di una concezione occidentale delle “pari opportunità” destinata ad un luminoso avvenire. Essendo profondamente umana la constatazione che l’appetito vien mangiando, nello spazio di 15 anni questa prima penetrazione in Cina aprì alle tre potenze occidentali gli occhi sui possibili, immensi profitti derivanti da ulteriori saccheggi dell’immenso territorio centro settentrionale dell’Impero di Mezzo: pertanto nel 1854 Francia, Inghilterra e Stati Uniti chiesero ad alta voce al governo cinese quella che ancor oggi viene ipocritamente definita in occidente una “revisione dei trattati”, e che in Cina apparve immediatamente come un’insidia unilaterale e minacciosa cui il sovrano Qing e il governo cinese cercarono inizialmente di opporre una resistenza passiva; due anni dopo, messo in un angolo, l’Impero di Mezzo fu costretto a dichiarare apertamente il proprio rifiuto di “ridiscutere” i “Trattati ineguali” del 1842-44, ed immediata scattò la nuova aggressione militare, da tempo adeguatamente pianificata e preparata da parte delle truppe anglo-franco-statunitensi.
Il 23 ottobre 1856, prendendo a pretesto il fatto che le autorità cinesi avevano arrestato per contrabbando di oppio l’equipaggio di una nave pirata inglese, la Arrow, dietro esplicita richiesta del Governatore inglese di Hong Kong, John Bowring, la flotta inglese comandata dall’ammiraglio Michael Seymour bombardò a titolo di rappresaglia il porto “aperto” e la città di Canton, che venne occupata dalle truppe dei tre Stati occidentali il 29 dicembre dello stesso anno.
Questo secondo conflitto si trascinò più a lungo, per quasi quattro anni, sia a causa delle enormi dimensioni dell’Impero di Mezzo che imponevano agli invasori l’utilizzo di masse di truppa al tempo non disponibili, sia a causa dei reiterati tentativi del governo cinese di resistere anche militarmente alle aggressioni; il 31 maggio 1858 gli anglo-francesi occuparono il porto di Tientsin, imponendo alla Cina un nuovo “Trattato ineguale” in cui venivano consegnati agli occidentali altri otto porti con diritto di extraterritorialità (Che fu, Chinkiang, Hankow, Kiukiang, Kingchow, Niuchuang, Swatow, Nanchino).
Dopo un tentativo di reazione da parte cinese nella primavera-estate del 1859 che culminò il 24 giugno col bombardamento delle truppe anglo-francesi alla foce del fiume Pei Ho, il 1°agosto 1860 un corpo di spedizione anglo-francese forte di 260 navi e 20.000 soldati iniziò a marciare verso l’interno della Cina; dopo alcuni fortunati assedi a fortezze cinesi, il 9 settembre 1860 iniziò l’avanzata su Pechino.
Infranti rapidamente alcuni di tentativi cinesi di fermare l’avanzata dell’armata occidentale, immensamente superiore in tecnologia bellica (18 settembre, battaglia di Chiang Tsia Wan; 21 settembre, battaglia di Pali Kao in cui si ebbero 3.000 vittime cinesi e solo 51 caduti occidentali), l’8 ottobre 1860 iniziò l’assedio alla città di Pechino, inaugurato col saccheggio di uno dei più fulgidi tesori della cultura cinese, lo Yiheyuan (cin. 頤和園), o Residenza estiva della Famiglia imperiale, che per non essere catturata si ritirava verso settentrione; dopo due giorni di saccheggio il comandante dell’armata occidentale, Lord Elgin, comandò di bruciare il palazzo e di bombardare Pechino, oramai praticamente inerme.
Dopo tre giorni di bombardamenti il 13 ottobre la città capitolò, e il 24 ottobre 1860 il governo cinese dovette sottoscrivere un altro “trattato ineguale”, la cd. Convenzione di Pechino, che obbligava la Cina al pagamento di una enorme indennità di guerra, alla consegna agli occidentali di altri dieci porti fra cui Tientsin, alla libera circolazione di mercanti e missionari stranieri in Cina, a esenzioni doganali, all’apertura di legazioni diplomatiche a Pechino, al libero accesso delle imbarcazioni occidentali nella rete fluviale cinese e, dulcis in fundo, alla legalizzazione dell’oppio e del suo commercio in tutto il territorio cinese, business sempre saldamente in mano alla Compagnia delle Indie Orientali britannica.
Immediatamente i medesimi “accordi” vennero estesi agli Stati Uniti d’America e – nuovo ingresso sulla scena – alla Russia, che con l’occasione obbligò il governo cinese a cedergli l’immenso territorio attorno al fiume Ussuri (oggi calcolato in circa 200.000 km2).
Né il banchetto occidentale terminò qui: sul corpo ancora semi-vivo della Cina accorsero solerti tutti gli altri comprimari d’occidente, desiderosi anch’essi di un “posto a tavola”: nel 1861 le stesse “concessioni” vennero estese alla Prussia, nel 1863 a Olanda e Danimarca; nel 1864 alla Spagna, nel 1865 al Belgio e nel 1866 persino il Regno d’Italia si vide riconoscere il proprio strapuntino al grande banchetto, anche se per decenni (fino al 1902) non seppe in realtà che farsene.
Come ben sa chi conosca appena un poco della storia della Cina contemporanea, non si potrebbero poi comprendere al di fuori di un contesto di reazione diffusa al selvaggio colonialismo predatorio occidentale fatti come la “Ribellione dei Taiping” (1851-1864), la successiva e più nota “Rivolta dei Boxer” (1898-1900), la rivoluzione nazionale Xinhai (cin. 辛亥革命) guidata da Sun Yat Sen nel 1911… e persino l’adesione del Man Chu Kuo al progetto di “Sfera di Co- 12 Prosperità della Grande Asia Orientale” (giapp. 大東亞共榮圈, Dai Tōa Kyōeiken) ad egemonia giapponese nel 1937.
Né si deve dimenticare quanto il tristissimo destino del Celeste Impero influenzò profondamente le scelte politiche e strategiche di un’altra grande civiltà estremo-orientale che dovette anch’essa assaggiare il calore dell’invito occidentale ad aprirsi al “libero mercato”, e che preso atto dell’esempio cinese seppe tuttavia costruirsi una strada ben diversa: il Giappone della Restaurazione Meiji (1853-1868).
Dal 1839 iniziò quindi quello che la cultura storica cinese continua ancor oggi a definire il “secolo delle umiliazioni”, definizione che continua ad accomunare impostazioni storiografiche cinesi di assai diversa ispirazione ideologica e politica. In realtà questa concezione è diventata parte integrante della cultura popolare cinese al di là delle attuali contrapposizioni politiche; basti considerare il peso numerico e culturale che hanno da più di 50 anni le infinite produzioni cinematografiche cinesi frettolosamente liquidate come “film di arti marziali” (da Bruce Lee ad oggi) che in verità ripropongono con una frequenza didascalica lo schema della riscossa cinese contro gli invasori occidentali, cui vengono sovente assimilati anche i giapponesi, attraverso la vendetta marziale, esempio palmare della riscossa della cultura tradizionale cinese.
E desta ancor oggi non poco sconcerto il tentativo della storiografia occidentale di liquidare il concetto di “secolo delle umiliazioni” come una mera interpretazione “nazionalista”, dando a questo aggettivo un’immediata ed implicita valenza sminuente, propagandistica e forzata. Tanto “nazionalista” va considerata questa definizione che essa entrò immediatamente nel lessico politico della Rivoluzione comunista di Mao Tse Tung, che si intestò ufficialmente il merito della conclusione del “secolo delle umiliazioni” con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (1949) e l’espulsione delle potenze straniere dal territorio nazionale.
Di più: di questa memoria, il Partito comunista cinese (Pcc) ha fatto tesoro fondando su di essa la propria legittimazione a governare il paese. Il Pcc si presenta da sempre, infatti, come l’unica forza capace di garantire il riscatto nazionale contro gli oppressori stranieri, restituendo indipendenza, dignità e forza al paese.
Di qui la memoria del 1949 come momento conclusivo del travaglio nazionale e inizio della rinascita del paese: «La fondazione della Repubblica popolare pose fine alle divisioni, all’umiliazione nazionale e alle sofferenze del popolo». Questo tema ci consente quindi di alludere – solamente, per brevità – alla complessità del rapporto fra eredità culturale nazionale ed eredità politica maoista nella Cina contemporanea: come fa notare Erik Ringmar, un profilo “nazionalista” dentro al Pcc è andato sempre più emergendo nel corso degli anni Ottanta del XX secolo, in misura direttamente proporzionale al declino dell’ideologia marxista.
Un esempio di questa metamorfosi, graduale e ancora in fieri, è rappresentato in maniera plastica dalla “riscoperta” delle rovine del Palazzo d’Estate a nord-ovest di Pechino, emerse dall’oblio proprio in quella fase ed erette a simbolo dell’umiliazione nazionale subita dalla violenza distruttrice dell’occidente.
Il peso del ricordo del “secolo delle umiliazioni” è oggi ancora ben vivo in Cina, e il tema politico che ne emerge è quello di “rafforzare il paese e impedire nuove umiliazioni”, attraverso la costruzione di relazioni internazionali paritarie e fondate sul reciproco rispetto; mentre gli analisti non embedded hanno solo l’imbarazzo della scelta nell’inanellare citazioni da questo punto di vista estremamente significative.
Un solo esempio: «Un articolo del Renmin Ribao, il quotidiano ufficiale del Pcc – presentato da Peter Hays Greysin uno studio sullo scoppio delle proteste in Cina dopo il bombardamento da parte della Nato dell’ambasciata della Rpc a Belgrado –si esprime chiaramente alriguardo: “Questo è il 1999, non il 1899. Questo non è il momento in cui le potenze occidentali possono saccheggiare come credono il palazzo imperiale o distruggere il Palazzo d’Estate, o impadronirsi di Hong Kong e Macao. La Cina oggi è una Cina che si è alzata in piedi, è una Cina che ha sconfitto i fascisti giapponesi, è una Cina che ha dimostrato di essere forte e vittoriosa sugli Stati Uniti sul campo di battaglia coreano. Il popolo cinese non può più essere intimidito”» (cit. in E. Fardella, “Umiliazione coloniale e nazionalismo in Cina”)
In quest’ottica è facile constatare come proprio in quest’ultime settimane il caso Taiwan e il ruolo smaccatamente imperiale degli Stati Uniti d’America confermino agli occhi cinesi come la “riunificazione nazionale” continui come sempre a trovare ostacoli nelle interferenze occidentali.
Nelle immense latitudini storico-culturali e geopolitiche dell’Impero di Mezzo, nel suo peculiare equilibrio fra identità e futuro, questo sesto numero de I Quaderni di Domus Europa spera quindi di essere buon viatico, ed utile compagno di viaggio che sa guardare la realtà da diversi punti di vista, liberamente.
La Cina. La super potenza dai piedi d’argilla?
Autori Vari
Collana I Quaderni di Domus Europa
Editore Il Cerchio
Pagine 194
Pubblicazione 2022
ISBN 9788884746559
Euro 18
Il Cerchio Srl [email protected]
RedazioneVedi tutti gli articoli
La redazione di Analisi Difesa cura la selezione di notizie provenienti da agenzie, media e uffici stampa.