Il Mare d’Azov nella dinamica geostrategica russa
Esteso per meno di 39.000 chilometri quadrati, pressappoco quanto la Svizzera, il Mare d’Azov ha una valenza strategica primordiale per la Russia.
E’ un bacino solo apparentemente chiuso. Nei fatti, è un’interfaccia mobile fra l’immensa valle del Don, che attraversa per quasi 2.000 chilometri la Russia occidentale, e il mar Nero, via d’accesso al Mediterraneo e ai mari caldi, obiettivo russo sempiterno, dai tempi di Pietro il Grande in poi. La storia racconta che il Mare d’Azov fa parte da secoli della sfera d’influenza russa ed è per questo motivo che Mosca darà battaglia per conservarne il controllo, garantendosi profondità strategica a partire dalla testa di ponte di Kherson, l’antemurale della Crimea e di questo Mare.
L’area è un ganglio economico vitale, vi fluiscono da sempre le «vie del grano», passate di mano in mano fin dai tempi antichi. Le hanno controllate prima i greci, poi i romani, quindi i bizantini e i genovesi, senza dimenticare i veneziani e gli ottomani. Ma da tre secoli, regina delle vie cerealicole è la Russia, che si è assicurata il predominio sul bacino
dopo la sesta guerra contro la Turchia (1768-1774) che, se vogliamo, è anche una vittoria storica del mondo cristiano su quello islamico. Come se non bastasse, dalla fine del 19° secolo è dal Mar d’Azov che transita parte della produzione carbonifera e siderurgica del Donbass, altro obiettivo imprescindibile della guerra russa in Ucraina. In questo specchio d’acqua si trovano anche abbondanza di pesce e riserve di idrocarburi.
Tutti elementi che nutrono la strategia militare russa, tesa a consolidare fin dalle prime battute della guerra in corso il controllo del litorale settentrionale del Mare d’Azov, con le battaglie principali (e vittoriose) di Mariupol, Berdiansk e Melitopol.
Un legame indissolubile con la Crimea
Militarmente, il bacino azoviano è inscindibile dalla Crimea, la cui posizione sporgente di 200 km, protesa verso il centro del mar Nero, facilita il controllo della regione. Due motivi spiegano il continuum fra il Mare d’Azov e la Crimea: in primis, le facilità logistiche offerte dal Don permettono ai russi di concentrare nel bacino le forze necessarie all’attacco o alla difesa dell’istmo crimeano, visto che la via terrestre fra la Russia e la Crimea, se mai sarà consolidata, attraversa una steppa scarsa in uomini e in risorse.
Non per caso, poco prima della guerra, nell’aprile 2021, la Flottiglia del Caspio aveva mobilitato una decina delle sue unità per esercitazioni congiunte con la Flotta del Mar Nero, inviandole attraverso il canale Volga-Don. La tipologia delle navi interessate non è mai stata precisata, anche se si è parlato di cannoniere e di mezzi leggeri da sbarco.
La flottiglia ha in dotazione 7 mezzi anfibi, sei dei quali della classe Serna, dal peso massimo di un centinaio di t, e uno della classe Shark. Cinque sono le cannoniere, 4 delle quali del tipo Shmel (nella foto sopra), da 70 t di stazza e armate con un cannone da 76 mm, tre mitragliatrici, un lanciarazzi BM-14 e capacità di posare mine.
Con lo scoppio della guerra, la Flottiglia del Caspio è assurta a riserva operativa della Flotta del Mar Nero.
Un po’ di storia
La sua quasi ermeticità fa del bacino azoviano un bastione difensivo dell’Est della Crimea. Lo si vide già durante l’assedio di Sebastopoli del 1854-1855, episodio emblematico della lotta fra la potenza marittima anglo-francese e la potenza continentale russa. Se la grande base navale russa del mar Nero, non completamente accerchiata, resistette per quasi un anno, fu perché poté essere rifornita costantemente e perché due terzi dei flussi transitavano dal mare d’Azov.
I franco-britannici (insieme agli italiani del generale Lamarmora) furono costretti a inviare 58 navi e 3 divisioni per averne ragione, forzando lo stretto di Kerch e distruggendo i depositi logistici del mare d’Azov.
Era maggio e Sebastopoli cadde a settembre. Durante la Seconda guerra mondiale, le potenze dell’Asse invasero la Crimea, conquistando la riva settentrionale del mare d’Azov nell’autunno 1941.
Rimasti padroni della riva orientale e della flottiglia del bacino, i sovietici contrattaccarono, sbarcando a Kerch a dicembre, ma furono respinti nel maggio 1942. Alla fine di quell’anno, i tedeschi controllavano tutto il bacino, ma le controffensive nei mesi seguenti permisero a Mosca di riconquistare le rive orientali e settentrionali. Una vittoria che fu il preludio alla ricostituzione di una flottiglia e alla riconquista della Crimea, avvenuta fra il novembre 1943 e l’aprile 1944.
La storia non fa che confermarlo: Mare d’Azov e Crimea simul stabunt aut simul cadent, o si reggono insieme o cadono insieme. E la Crimea è irrinunciabile per le ambizioni marittime e di potenza russe. Non è anodino ricordare che il capo della flottiglia del mare d’Azov, il contrammiraglio Gorshkov, comandò in seguito la Flotta del Mar Nero (1951-1955) e poi l’insieme della marina sovietica dal 1956 al 1985.
Un concatenarsi di vicende che spiega bene la logica multiscalare incrementale in base alla quale il controllo del mare d’Azov, un obiettivo russo locale, favorisce quello della Crimea, che è un obiettivo regionale, e conferisce al suo possessore una posizione centrale nel Mar Nero, a livello metaregionale, da cui deriva l’accesso al Mediterraneo, obiettivo globale, perché da qui i russi hanno una porta d’ingresso spalancata verso l’«oceano mondiale», indiano e atlantico.
L’importanza del Mare d’Azov in questa sorta di escalation geopolitica fu ulteriormente rafforzata dalla decisione sovietica di ripristinare le linee di navigazione interna.
Dopo l’apertura nel 1952 del canale Don-Volga, il Mare d’Azov è divenuto un perno del «sistema dei cinque mari», perché è il nostro che collega il Mar Nero al Caspio, entrambi collegati al Baltico e al Mar Bianco.
L’area è oggi fitta di canali e di vie navigabili. Dal Mar Nero, le navi che risalgono a nord utilizzano il tragitto Mare d’Azov, Rostov sul Don, canale Don-Volga, Astrakhan e infine Mar Caspio.
Il sistema delle vie navigabili interne russe è oggi capillare, con una rete di 101.700 km, 35.000 dei quali con un tirante d’aria e un tirante d’acqua garantiti. Altri 16.000 km innervano le vie artificiali. Da qui transita l’1,15% del volume delle merci trasportate in Russia. Non troppo, perché, dopo il crollo dell’URSS, c’è stato un calo di traffico. Nel 1989, 580 milioni di tonnellate di merci risalivano attraverso la rete dei canal.
Oggi siamo a poco più di 120 milioni. Ma l’URSS era un impero economicamente più florido della Russia odierna. La legislazione di allora era anche più munifica, perché puntava a garantire su tutto il sistema navigabile un tirante d’acqua di almeno 4 metri, oggi non raggiunto in molti tratti della rete, nemmeno lungo l’intero corso del Don, soggetto all’influsso dei venti. D’inverno c’è poi da mettere in conto il ghiaccio.
Nonostante tutto, Mosca punta nuovamente a trarre profitto dal transito di merci attraverso i suoi canali: secondo stime del marzo scorso questa via di trasporto potrebbe garantire introiti pari a 1,5 miliardi di dollari l’anno, che potrebbero essere messi a profitto anche per la manutenzione e il miglioramento della rete.
Quando cesserà il conflitto in Ucraina e la Cina rilancerà il corridoio eurasiatico diretto in Europa, Mosca potrebbe far valere sul tavolo le immense possibilità di trasporto offerte dal suo territorio. E il Mare d’Azov sarà la porta girevole del tutto.
Già dal 2017, azeri, iraniani e kazaki si servono del tragitto Mar Nero, Mar d’Azov e Mar Caspio per movimentare navi e merci. Fino al 2010, le navi straniere erano rarissimamente autorizzate a sfruttare le vie d’acqua interne alla Russia. Ma, dal 2012, la legislazione russa si è fatta un po’ più permissiva. Sul piano commerciale, russi, azeri e iraniani hanno trovato pure un accordo per un corridoio commerciale Nord-Sud, fatto di ferrovie e strade, supportate per il trasporto mercantile dalle vie navigabili interne russe.
Si tratta, nel contesto di crisi attuale, di una boccata d’ossigeno per le finanze russe. Inoltre, l’intesa tripartita è un segnale politico lanciato da Mosca a Teheran, due potenze euroasiatiche che si spalleggiano a vicenda anche militarmente e che cercano un modus vivendi nel difficile negoziato sul tema del nucleare militare persiano coi 4+1. Mosca blandisce Teheran, ne ottiene supporto nella guerra attuale e fa una concessione economica: la cooperazione commerciale russo-iraniana potrà d’ora innanzi basarsi anche su canali prima inaccessibili, perché controllati gelosamente dalla Russia.
L’accordo è strategicamente rilevante anche per Teheran: in caso di blocco navale dei porti iraniani, l’interfaccia Mar Caspio-Mar d’Azov, offrirebbe all’Iran una profondità strategica non trascurabile e una linea di approvvigionamento via Russia.
In tempi di pace, la rotta, attraverso i canali e i fiumi russi, permetterebbe alle navi iraniane un tragitto sicuro e al riparo da sguardi indiscreti, rispetto a quanto avviene via Suez, fermi restando i limiti fisici in termini di navigabilità. C’è tutto un fiorire di progetti, che spiegano in parte l’ostinazione russa a conservare il predominio sull’area.
Altri interessi
Il complesso Mar Nero-Mar d’Azov è inoltre ricco di giacimenti di idrocarburi offshore, in gran parte ancora inesplorati. L’80% delle riserve ucraine accertate di gas, pari a 1,1 trilioni di metri cubi, con stime che arrivano a 6,4 trilioni, e il 90% della sua produzione di gas sono concentrate nel bacino del Dnepr-Donetsk e un buon 6% nel sud, dove la produzione avviene sia onshore che offshore, nei fondali poco profondi del Mar d’Azov e del Mar Nero.
Poco prima dell’annessione della Crimea, Kiev aveva fondato la società Chernomorneftegaz, incaricata di sfruttare i pozzi di gas e di petrolio della penisola e dei mari circostanti. Dopo il ‘blitz’ degli spetsnaz del Komandovanie sil spetsial’nalnykh operatsii (KSSO) russo, il 29 novembre 2014, la società, basata in Crimea è stata nazionalizzata e ghermita da Mosca, che si è anche accaparrata tutte le sue installazioni.
Il potenziale gasifero dell’area potrebbe essere dietro le mire russe e potrebbe aver risvegliato l’appetito insaziabile del Cremlino per i giacimenti di idrocarburi, visto che buona parte dell’export russo e delle leve della sua politica estera si basano sui commerci di materie prime.
All’interesse geopolitico e geoeconomico si somma il valore simbolico di una regione da sempre legata alla Russia: i principali porti del Mare d’Azov, Mariupol e Berdiansk sono stati fondati dai russi nel 1779 e nel 1827, similmente a Sebastopoli nel 1784 e, più a ovest, lungo il Mar Nero, Kherson nel 1778 e Odessa nel 1794. Sul piano etnico, i russi sono da sempre maggioritari sulla costa occidentale e orientale del bacino e sono fortemente presenti sul litorale settentrionale.
Ecco perché per Mosca l’intera regione ha anche un valore identitario. Ma il dramma vuole che lo stesso valga anche per gli ucraini, perché la Russia si appoggiò in gran parte sui cosacchi per conquistare prima il Mare d’Azov e poi la Crimea, sotto il regno di Caterina la Grande.
La geostrategia dell’area
La geostrategia spiega ancora meglio l’importanza del bacino per Mosca: «la Russia è ubicata in una posizione sfavorevole per quanto riguarda l’accesso alla ricchezza», scriveva Alfred Thayer Mahan nel 1900 nell’opera The Problem of Asia, perché il suo confinamento continentale non le permette di beneficiare e di accedere al grande commercio marittimo; «è dunque naturale e logico che sia insoddisfatta e l’insoddisfazione prende facilmente la forma dell’aggressione».
La pulsione verso i mari caldi si estrinseca in direzione di due obiettivi: verso il golfo Persico, via l’Iran, e verso il Mediterraneo, via mar Nero o Asia minore, perché sono qui «le linee di minor resistenza fisica ed etnica». Harold Mackinder rafforzò il quadro, delineandolo nel suo saggio The Geographical Pivot of History.
Nel 1904, il grande stratega espose la sua tesi celebre secondo la quale l’Eurasia si divide in due grandi insiemi: l’Heartland, ovvero le terre i cui corsi d’acqua sboccano nel Mar Glaciale Artico o nel Caspio, facendone uno spazio puramente continentale, tagliato fuori dalla rete dei mari navigabili, e il cosiddetto «crescente marginale» delle terre situate fra l’Heartland e questi mari, poi ribattezzato da Spykman Rimland.
Il Mar Nero appartiene al «crescente marginale», ma è così prossimo all’Heartland che diventa un crocevia conteso fra la potenza marittima in cerca di mercati continentali e la potenza continentale alla ricerca di sbocchi marittimi. All’epoca di Mahan e Mackinder, le due potenze rivali erano incarnate dal Regno Unito e dalla Russia, ma sia l’ufficiale statunitense, sia il geografo britannico suggerivano ormai che gli americani sarebbero presto subentrati all’Inghilterra nella rivalità con la Russia.
Sono tutti incroci di potenze che ritroviamo su fronti opposti nella guerra attuale. Una rivalità accentuata dal tempo della guerra fredda, ai cui esordi gli Stati Uniti patrocinarono l’adesione della Turchia alla NATO (1952) con l’obiettivo di sorvegliare il sud del Mar Nero.
Con l’indipendenza dell’Ucraina, il 1° dicembre 1991, e il dissolvimento dell’URSS, due stati sovrani si trovarono a spartirsi il mare d’Azov, fin da subito motivo di tensione. La coabitazione traballò già nel 2003, quando i russi dislocarono unilateralmente delle guardie di frontiera sull’isola di Tuzla, nello stretto di Kerch, e collegarono l’isola al litorale orientale. La crisi rientrò e la dichiarazione congiunta del 24 dicembre 2003 ripristinò la soluzione sovietica del mare interno posseduto congiuntamente.
L’anno dopo, la Romania e la Bulgaria entrarono nella NATO: il versante occidentale del Mar Nero si trovò e si trova tuttora “annesso” al mondo atlantico, come accaduto per il versante meridionale nel 1952.
L’adesione dell’Ucraina e della Georgia alla NATO, evocata fin dal 2008 dal presidente americano Gorge W Bush, avrebbe finito per trasformare il bacino in un lago quasi interamente controllato dall’Occidente: prospettiva che Parigi e Berlino giudicarono non percorribile nei confronti di Mosca. La tensione cominciava a salire.
L’annessione della Crimea da parte della Russia ne era l’indizio ulteriore. Il mare d’Azov si trovò allora diviso in tre zone: le acque settentrionali erano controllate dall’Ucraina, quelle orientali dalla Russia e le acque occidentali, dipendenti dalla Crimea, erano rivendicate sia da Mosca, che occupava la penisola, sia da Kiev che non ne riconosceva l’annessione.
Tuttavia solo la Russia aveva i mezzi militari per supportare le sue rivendicazioni, non solo grazie alla flotta, ma anche grazie alla disponibilità nel Mar Nero di due grandi basi navali che inquadrano a distanza lo stretto di Kerch: Sebastopoli a Ovest e Novorossisk a Est.
Sul piano commerciale, la bilancia pendeva ancora a favore dell’Ucraina, che possedeva gli unici due porti in acque relativamente profonde distanti fra loro 80 chilometri: Berdiansk e soprattutto Mariupol, ormai sotto controllo russo dal 27 febbraio 2022 e dal 20 aprile seguente, se si eccettua la resa dei resistenti dell’acciaieria Azovstal, avvenuta solo il 20 maggio.
Il primo porto è stato subito trasformato dai russi in uno scalo logistico militare, con una spola di una decina di navi fra i porti della Crimea e le unità della 150a divisione motorizzata, impegnate con l’810a brigata di fanteria navale, le forze cecene della guardia nazionale e le milizie separatiste del Donbass nel lungo assedio di Mariupol, con forniture di armi, munizioni e viveri.
Qui sono stati subito avviati i lavori per sminare e liberare il porto dalle navi ucraine affondate. A pensarci sono stati gli specialisti russi e delle forze della Repubblica popolare di Donetsk che hanno bonificato le acque dalle mine e sollevato dai fondali le navi colpite durante i combattimenti, inclusa la nave militare Lubki e la motonave Mokryak, riportate immediatamente a galla.
Il ponte dei dissidi
Alcuni anni prima, nel 2015, mentre imperversava già la guerra nel Donbass, Putin decise la costruzione di un ponte sullo stretto di Kerch, fra la Crimea e la costa orientale del mare d’Azov.
Lo stretto, ampio 35 chilometri, separa la Penisola di Crimea da quella di Taman, nel Krai di Krasnodar e collega il Mare d’Azov al Mar Nero.
Il suo transito è reso complicato dalla presenza di fondali bassi, che hanno richiesto la costruzione del canale Kerch-Yenikale interno allo stesso stretto, a garanzia del passaggio di navi con tirante d’acqua che non superi gli 8 m e una lunghezza massima di 215 m, purché le unità siano assistite da un pilota.
L’idea del ponte non era nuova: ci avevano pensato anche i tedeschi, nell’aprile 1943, per poi rinunciarci cinque mesi dopo, davanti alla controffensiva sovietica.
L’URSS riavviò i lavori nell’estate 1944, ma, alla fine dell’inverno seguente, i ghiacci alla deriva distrussero l’opera. Nel 2010, il presidente ucraino filorusso Ianukovitch e l’omologo russo Medvedev rilanciarono il progetto.
L’annessione della Crimea funse da catalizzatore, perché a Mosca, un ponte autostradale e ferroviario apparve come il mezzo migliore per aggirare un eventuale blocco terrestre della penisola da parte dell’Ucraina. Un’ipotesi che si verificò parzialmente a fine 2015.
L’opera sarebbe presto divenuta il simbolo della riannessione della Crimea. Ultimo, ma non meno importante, la sua altezza fu concepita per renderlo non percorribile dalle navi che superavano i 35 metri di tirante d’aria, proprio quelle che servivano Mariupol e Berdiansk, visto che i porti russi non avevano profondità tali da poter accogliere grossi cargo.
Il ponte (protagonista del recente attentato attribuito a sabotatori ucraini) fu inaugurato da Putin il 15 maggio 2018, ma i due porti ucraini erano stati già tagliati fuori dai commerci, a causa del semiblocco russo anteriore all’ultimazione dei lavori: dal 2015 al 2017, il traffico di Mariupol era calato del 27% e quello di Berdiansk del 47%.
I due porti non erano ancora completamente isolati perché raggiungibili per via terrestre e ferroviaria. Ma Mariupol era ormai colpita nella sua vitalità, perché era l’hub attraverso il quale la siderurgia ucraina esportava i suoi acciai e l’agricoltura i suoi cereali, importando al tempo stesso il carbone, dopo che buona parte del Donbass non era più accessibile alle sue industrie.
Tensioni crescenti nell’area
Il 23 settembre 2018, una nave da comando e un rimorchiatore ucraini entrarono nel Mare d’Azov nonostante le manovre intimidatorie russe. Raggiunsero Berdiansk, dove già si trovavano due piccole cannoniere. Il presidente ucraino Poroshenko aveva dichiarato poco prima che il porto sarebbe diventato una base navale.
Il 25 novembre successivo, il rimorchiatore A-947 Yany Kapu e il tanker U-753 Gorlovka della marina ucraina si videro rifiutare dai russi il transito nello Stretto di Kerch.
Nella notte, il pattugliatore PSKR Izumrud dei guardacoste russi, assegnati al controllo delle navi e dipendenti dai servizi segreti dell’FSB, intercettarono due piccole cannoniere ucraine della classe Gyurza-M dirette verso lo stretto di Kerch, cui si aggiunse anche la Yanu Kapu. Ne seguì uno scontro a fuoco, in seguito al quale i russi sequestrarono la flottiglia ucraina e i 23 membri di equipaggio. In seguito i tre battelli furono restituiti all’Ucraina.
Ma la tensione era ormai alle stelle. I russi avevano chiarito indirettamente che il Mare d’Azov doveva essere un affare esclusivo del Cremlino. La sua importanza crescente era legata anche a un evento avvenuto a 1.000 km di distanza, tre anni prima, come osserva acutamente il professor Motte.
Il 7 ottobre 2015 tre corvette lanciamissili Projekt 21631 della flottiglia del mar Caspio, il Grad Sviyazhsk, l’Uglich e il Velikiy Ustryug, insieme alla fregata Projekt 11611k Daghestan avevano lanciato una salva di 26 missili da crociera Kalibr-NK contro le basi dello Stato Islamico in Siria, 1500 chilometri più lontano, dopo aver sorvolato l’Iran e l’Iraq.
Si era trattato di una piccola rivoluzione geostrategica per la Russia, perché nell’ottica mahaniana e mackinderiana, il Caspio, ubicato in pieno Heartland, non aveva avuto fino ad allora nessuna valenza militare.
Grazie ai Kalibr invece, piccole navi che incrociavano nel bacino, chiuso, avevano annullato o per lo meno ridimensionato la cesura fra l’Heartland e il Rimland, potendo colpire obiettivi situati fino al Golfo Persico.
Con un raggio di 1.500-2.500 km, i Kalibr-NK lanciati dal Mar Nero coprono anche tutto il Mediterraneo Orientale. Sono stati impiegati sistematicamente pure durante la guerra in corso in Ucraina, sia dalle Buyan-M, sia dalle fregate Grigorovich e anche dai 4 sommergibili Improved Kilo che incrociano nel mar Nero, andando a colpire obiettivi terrestri con una precisione inferiore a tre metri alla massima gittata. Quello che era vero per la flottiglia del Caspio sarebbe valso anche per il Mare d’Azov, ormai lago russo e nuova piattaforma di lancio dei missili Kalibr.
Il potenziamento della flottiglia del Caspio e la fruibilità del Mare d’Azov
Il piano d’armamento 2018-2025 prevede nuove corvette del progetto 21631 Buyan-M per la flottiglia del Caspio. Oltre alle 8 Buyan-M già in linea sono infatti in costruzione altre tre di queste corvette, nell’ambito di un contratto del ministero della Difesa russo risalente al 7 settembre 2016: parliamo del Grad e del Naro-Fominsk che saranno consegnate entro quest’anno, e dello Stavropol, che raggiungerà la flottiglia entro fine 2023.
I lavori sono effettuati al cantiere navale Zelenodosk. Le dimensioni di queste navi ne permettono la navigazione nei canali interni: la lunghezza dello scafo è di 75 m, il loro tirante d’acqua è di 2 m e la stazza di 949 t. La propulsione usa il ciclo CODAD e la velocità raggiunge i 26 nodi. A 12 nodi il raggio d’azione è di 2.300 miglia. L’equipaggio è di 52 uomini.
L’armamento principale è imperniato su un cannone A-190-01 da 100 mm, cui si abbinano 2 CIWS da 30 mm AK-630-M2, mentre lo Starvopol monterà un CIWS Pantsir-M. Le unità dispongono di otto moduli UKSK per il lancio verticale di missili Kalibr o Oniks, più 8 missili superficie-aria Komar, lanciagranate DP-65, e 2 mitragliatrici da 14,5 mm del tipo KPV.
Come nel Mar Nero, queste navi hanno il compito di sferrare operazioni di interdizione d’area. Inoltre potrebbero essere incaricate di proteggere le infrastrutture energetiche del bacino. Mancando flotte seriamente concorrenti nel mar Caspio (e nel mare d’Azov), il potenziamento della flottiglia punta soprattutto a tenere sotto tiro teatri lontani, come l’Asia Centrale, l’Afghanistan e il Mediterraneo orientale, oltre che il Medioriente, ferma restando l’autorizzazione di sorvolo del suo spazio aereo da parte dell’Iran.
I commentatori russi non risparmiano gli encomi: il Mar Caspio è votato a diventare un bacino missilistico, una piattaforma di lancio per i missili da crociera, per proiettare quel che resterà della potenza russa dopo le vicende belliche ucraine a partire da navi ben protette dalla massa continentale euroasiatica.
La stessa missione, incentrata sull’impiego missilistico, si ritrova nella Flotta del Mar Nero. E, come abbiamo visto, i due bacini sono complementari grazie al Mare d’Azov. Qui si ritrova un cardine della strategia navale continentale della Russia, che potremmo riassumere così: poter colpire nei mari caldi senza esservi fisicamente presenti.
Il canale Volga-Don e il mare d’Azov moltiplicano, in caso di necessità, l’ubiquità delle navi che sono dispiegate fra il bacino pontico e il mar Caspio. Un’agilità fondamentale per la marina russa in cui l’insieme descritto ha la funzione principe di sigillare il fianco meridionale russo, da sempre direttrice di invasioni, e di proiettare la linea di difesa fino allo spazio mediorientale.
Proprio il Canale Volga-Don è stato al centro di un summit fondamentale, avvenuto a fine marzo, fra rappresentanti della società russa che ne cura la gestione e le controparti cinesi della compagnia CCCC Dredging Group.
Le due aziende avrebbero trovato un accordo di principio sulla possibile partecipazione cinese ai lavori di ampliamento dell’arteria, che dovrebbe essere dragata per aumentare la capacità di transito. Lavori economicamente impegnativi per la sola Russia, che potrebbe contare sul sostegno finanziario di Pechino per un affare che rientra a pieno titolo fra le priorità di sicurezza nazionale.
Considerazioni
La possibile apertura di una base navale ucraina a Berdiansk, con l’aiuto angloamericano, ha forse fatto temere alla Russia l’installazione nell’area di sistemi anti-accesso, che avrebbero potuto minacciarne il predominio sul mar d’Azov, condizionandone la strategia navale continentale?
E’ un’ipotesi. Kiev puntava pure a creare nel mare d’Azov una divisione di vedette del progetto 58155. Per i russi era inaccettabile. Mosca sospettava inoltre che gli ucraini stessero pianificando un’operazione di sabotaggio contro il ponte di Kerch. Sono tutti fattori da considerare fra gli elementi scatenanti l’invasione dell’Ucraina.
Fin dalle prime battute del conflitto, Mosca ha imposto un blocco navale della zona, esteso poi de facto fino a giugno a tutto il versante ucraino del Mar Nero. I comandi russi hanno sospeso i diritti di transito alle navi commerciali in entrata nel mare d’Azov. Gran parte del commercio del grano e di altri prodotti agricoli è stato interdetto, compromettendo l’economia ucraina, che dipende dall’export per il 41% delle sue entrate economiche.
Il blocco ha inoltre precluso la via marittima alle forniture militari occidentali per Kiev, limitando la rapidità e il volume degli aiuti diretti in prima linea.
C’è però un’alternativa al blocco, specie se l’Ucraina riuscirà a conservare integre le sue capacità di sea denial, imponendo un continuo attrito agli assetti navali russi, fino al punto da render loro insostenibile proseguire nel blocco, tanto più che ora, in base alla Convenzione di Montreux, gli stretti turchi sono chiusi e la Marina Russa non ha la possibilità di rimpiazzare le perdite navali con le unità delle flotte del Baltico, del mare del Nord e del Pacifico.
Il sea denial ucraino
Nelle prime dieci settimane di guerra, gli ucraini hanno affondato o danneggiato tutta una serie di unità russe della flotta del mar Nero. I droni TB2, equipaggiati con munizioni MAM-L, e i team anticarro ucraini hanno decimato la flotta di motovedette Raptor del Projekt 03160. La Flotta del Mar Nero ne allineava 8 prima della guerra, ora non gliene rimarrebbero che tre. Una era stata danneggiata e, poi affondata, presso Mariupol ai primi di marzo.
Le restanti sono finite nel mirino dei TB2 fra aprile e maggio, intorno all’isola dei Serpenti. Ma gli ucraini hanno inflitto perdite anche alla flotta anfibia russa. Un missile Tochka ha centrato la LST Saratov nel porto di Berdiansk (nella foto sotto), il 24 marzo.
Le fiamme, sprigionatesi a bordo dell’unità, hanno danneggiato altre due LST, ormeggiate poco distanti. Un altro mezzo da sbarco, del tipo Serna, Projekt 11770, è stato colpito e affondato il 14 maggio da un missile MAM-L, esploso da un TB2, mentre trasportava dalla Crimea all’Isola dei Serpenti un sistema di difesa aerea Tor.
Gli affondamenti a raffica avrebbero convinto i comandi russi che tentare un assalto anfibio su Odessa sarebbe stato un suicido per le unità anfibie superstiti, che sarebbero all’incirca nove. Uno sbarco reso ancora più complicato in seguito alla perdita dell’incrociatore Moskva (nella foto sotto), affondato il 14 aprile per le conseguenze dell’impatto di due missili antinave Neptun, che ha privato la Flotta del Mar Nero del principale scudo antiaereo.
I SAM S-300F a medio e lungo raggio del Moskva potevano teoricamente ingaggiare con i 64 missili 5V55RM obiettivi a distanze di 90 km e fino a un’altitudine di 30 km, più del doppio di quanto possano ora fare i sistemi di difesa aerea delle tre fregate Admiral Grigorovich, imperniati sul sistema Shtil-1 con 24 cellule verticali 3690 per missili 9M317M, derivati dai Buk.
Per la difesa ravvicinata le Grigorovich dispongono anche di due torrette AK-630M. Questo sistema è imperniato sui cannoni AO-18K a 6 tubi da 30 mm, che offrono una cadenza di tiro di 5.000 colpi al minuto e un raggio d’azione stimato in 4 chilometri. Insufficienti a proteggere un’operazione complessa come quella su Odessa.
Ci hai poi pensato il corso della guerra a rendere impraticabile l’idea: da più di un mese, i russi non hanno l’iniziativa, non dettano più la tempistica delle operazioni militari, eccezion fatta per lo sforzo in direzione di Bakhmut. Negli altri settori paiono ormai sulla difensiva. Intorno alla metà di agosto, hanno subito duri colpi anche in Crimea, a 250-300 chilometri di distanza dalla linea del fronte.
Quale la causa? Probabile un mix di nuovi missili ucraini, americani o indigeni, e di sabotatori, come confermerebbero funzionari ucraini e fonti del ministero russo della Difesa. Gli uomini del battaglione Shaman sono specialisti in incursioni, guerra di guerriglia e sabotaggi. Hanno informatori e partigiani in tutta la Crimea.
Il movimento cresce, ma non ha niente a che vedere con qualcosa di strutturato. Manca di mezzi a sufficienza. Forse la rete si sente ancora fragile. Teme un destino simile a quello dei partigiani ceceni di un tempo?
Per ora si limita a sferrare colpi di mano, ad uccidere i collaboratori dei russi, a distribuire manifesti propagandistici e a raccogliere intelligence. Ha contatti con lo Stato maggiore, capace di preservare i legami con parte dei territori occupati. Sta di fatto che siamo di fronte a una guerra piratesca, condotta dietro le quinte. Si spiegherebbero così i raid del 9 agosto contro la base aerea di Saki (nella foto sopra) e le esplosioni avvenute il 15 fra Danzkoi, Mayskoye e Sinferopoli, campi base russi in Crimea.
All’alba del 16, i resistenti filo-Kiev avevano sabotato perfino una centrale di alimentazione ferroviaria regionale. Obiettivo: colpire la logistica russa, che dal ponte di Kerch spedisce mezzi e truppe verso la testa di ponte di Kherson.
La rete ferroviaria della penisola crimeana è però a trazione elettrica solo in minima parte. Sta di fatto che i raid in Crimea sono proseguiti anche a settembre, quando il palazzo del quartier generale della flotta del Mar Nero, a Sebastopoli, è stato colpito da droni ucraini.
Un fatto che avrebbe indotto lo Stato maggiore russo a spostare i sottomarini Improved Kilo più a est, nella base di Novorossibirsk, sulla costa russa del Mar Nero.
Fino a poco tempo fa i quattro battelli impiegati nelle operazioni militari, solevano sostare in Crimea per ricaricare i tubi lanciamissili da crociera. Uno era sempre in missione, mentre gli altri tre erano spesso visibili in porto.
Non è però certo che il trasloco a Novorossibirsk sia dettato solo dall’immanenza della minaccia ucraina. I battelli 636.3 erano dispiegati in operazioni ininterrottamente da 6 mesi. Vederli tornare alla base madre, che non è Sebastopoli, non sorprende, almeno a prima vista, a meno che ora non sostino a Novorossibirsk molto a lungo.
Il che denoterebbe un cambio di paradigma e sarebbe sintomatico delle inquietudini russe. Molti analisti occidentali stanno però peccando di eccessivo entusiasmo di fronte ai primi successi della controffensiva ucraina.
Forse è bene tenere conto che le carenze mostrate finora dai russi in questa guerra non devono trarre in inganno. E’ improbabile che l’armata russa ceda facilmente quanto finora conquistato. Probabilmente opterà per una tattica di difesa a oltranza, con l’obiettivo di preservare tutte le acquisizioni territoriali, tanto a est quanto a sud, come confermano la mobilitazione parziale dei riservisti e i referendum d’annessione nei quattro oblast di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhia. In attesa di un negoziato o dei rinforzi mobilitati necessari a riprendere l’offensiva.
Foto: Ministero Difesa Russo, Gazprom, Maxar e Ministero Difesa Ucraino
Francesco PalmasVedi tutti gli articoli
Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.