REPORTAGE da Luhansk – L’addestramento dei riservisti russi e dei volontari del Donbass
Luhansk (Donbass)
“Su zu, su zu“ (“tutti giù tutti giù”) – ulula la voce stentorea del sottufficiale mentre la fila di giubbotti anti proiettili ed elmetti rotola a terra vomitando raffiche di kalashnikov contro le linee del nemico. Poi, uno a uno, i fanti si rialzano e tornano ad allungarsi come fila di verdi formiche nella cicatrice grigia della trincea. Non siamo su un nuovo fronte della guerra tra russi e ucraini. Siamo in un pianoro sospeso tra basse colline ad una trentina di chilometri da Lugansk, capoluogo dell’omonima repubblica indipendentista filo-russa.
Davanti a noi si riaddestrano un centinaio di richiamati pronti a raggiungere le prime linee nel nord est della Repubblica. Seicento metri più avanti due carri T-72 B3 rivestiti dalle piastre delle corazzature reattive si rincorrono come draghi squamosi solcando la bruma della pianura.
Di tanto in tanto uno dei due carri s’arresta, brandeggia l’affusto e sputa una fragorosa alitata di fumo e fiamme. Le granate esplodono un chilometro più in là incendiando gli arbusti delle collinette all’orizzonte.
I soldati allineati in questa trincea sono un’infinitesimale frazione dei 300mila richiamati che il Cremlino si prepara ad inserire tra i suoi effettivi, ma sono sicuramente quelli più prossimi a raggiungere i campi di battaglia. “Questi soldati – spiega l’istruttore con il passamontagna calato sul volto che coordina le manovre – hanno già servito nelle nostre forze armate, ma dobbiamo riabituarli al più presto alla battaglia. Anche perché fra poco ci finiranno in mezzo. Per questo cerchiamo di addestrarli a tutti i tipi di scontri, da quelli nella boscaglia e sulla neve a quelli urbani e di trincea.
Ma cerchiamo soprattutto di farli riprendere confidenza con tutte le armi a disposizione, dal semplice kalashnikov ai lancia-granate anticarro”.
Addestramento basico
In verità le attività del campo d’addestramento appaiono estremamente basiche. I richiamati, dopo aver sparato qualche caricatore da postazioni fisse e dai ruderi di vecchie fattorie sparpagliate tra le collinette, si lanciano in una serie di sbalzi lungo i campi.
Il tutto mentre l’istruttore cerca di ricordar loro le procedure per la copertura reciproca durante il cambio di caricatore o l’avanzata in terreno scoperto. Neppure le tecniche anticarro, provate al termine dell’addestramento in trincea, appaiono all’altezza di quello che troveranno sui campi di battaglia dove imperversano i droni e, in campo ucraino, missili sofisticati come gli americani Javelin, Nlaw o T4.
In questo campo d’addestramento l’arma scelta per fronteggiare blindati e tank resta il vecchio, e ormai in larga parte inefficace, Rpg. Un’arretratezza che gli addestratori cercano di minimizzare.
“Le armi servono solo per prender confidenza e imparare a muoversi. Da qui si va direttamente in prima linea per questo dobbiamo impegnarci al meglio. Poi una volta al fronte arriveranno anche armi migliori” – ripete il sottufficiale da sotto il passamontagna.
Immaginare a quale fronte siano destinati queste reclute non è difficile. A poche decine di chilometri da qui passano le linee di Lysichansk e di Kremenoy. Lì i russi, i loro alleati ceceni e delle Repubbliche indipendentiste di Lugansk e Donetsk hanno stabilito una nuova linea di difesa dopo la ritirata da Lyman di fine settembre. Da lì indietreggiare ulteriormente non si può, pena la perdita dei territori conquistati durante l’offensiva d’inizio estate.
Le scelte di Surovikin
Il generale Sergey Surovikin, nuovo comandante in capo delle forze russe in Ucraina, punta proprio su questi uomini per ricacciare indietro gli ucraini e prendersi quel quaranta per cento dei territori della Repubblica di Donetsk ancora sotto controllo di Kiev. Riuscirci significherebbe regalare a Vladimir Putin la posta indispensabile per chiudere un primo capitolo della partita.
Mettendosi in tasca Lugansk, Donetsk, i territori occupati di Melitopol e quanto resta – dopo l’abbandono di Kherson – dei territori a est e sud del fiume Dniepr. Mosca potrebbe rivendicare, se non altro, il conseguimento degli obbiettivi dell’Operazione Speciale.
Una mossa fondamentale sul fronte interno per giustificare il costo del conflitto e proporre un cessate il fuoco seguito da trattative negoziali. Una scelta che Surovikin ha considerato prioritaria rispetto alla difesa di Kherson, il capoluogo dell’omonima regione a nord della Crimea dichiarato territorio russo alla fine di settembre, che Putin si rifiutava inizialmente di abbandonare.
La ritirata, annunciata in Tv mercoledì 9 novembre dal ministro della Difesa Sergey Shoigu e dallo stesso Surovkin, è stata definita avvilente e senza precedenti anche da molti commentatori russi.
“Quella decisione – ha scritto Yuri Kotyonol, un blogger di questioni militari molto seguito su Telegram – è semplicemente scioccante per milioni di persone che credono nella Russia, combattono per la Russia e muoiono per la Russia!”
In verità il realismo strategico di Surovikin ha, alla fine, fatto breccia anche nel Cremlino. Il ritiro da Kherson, spiegato da Shoigu e Surovikin con l’impossibilità di rifornire città e truppe dopo la pioggia di razzi lanciati dagli HOMARS caduta sul principale ponte che la collegava alla riva occidentale del fiume Dniepr appare meno devastante di altre decisioni assunte in questi mesi di guerra.
Dal punto di vista strategico è sicuramente meno avventato dell’addio a Kharkiv dello scorso settembre, quando Mosca abbandonò non solo interi depositi di mezzi e armamenti, ma lasciò alla mercè del nemico anche diversi reparti della Repubblica indipendentista di Lugansk.
Il ripiegamento da Kherson evidenzia inoltre un cambiamento nei rapporti tra Cremlino e i vertici della Difesa. Fin qui la principale preoccupazione dei generali russi, dal capo di stato maggiore Valery Gerasimov in giù, era evitare fastidi a Vladimir Putin riferendogli i problemi di un’armata piagata dalla corruzione e dalle conseguenti malversazioni.
Un malvezzo ridimensionatosi con la nomina del nuovo comandante delle operazioni sempre molto attento – nonostante il soprannome di “generale Armageddon” – ad evitare scelte azzardate. bE in varie occasioni Surovkin avrebbe ricordato al Cremlino, sussurrano fonti della Difesa russa, l’impossibilità di correggere con uno schiocco di dita le nefaste conseguenze degli errori dei suoi predecessori.
Proprio la mobilitazione dei 300mila riservisti – contrassegnata da ritardi e carenze organizzative e dalla desolazione di magazzini e arsenali dove abbondano i residuati d’era sovietica, ma scarseggiano mezzi, equipaggiamenti e armi recenti – han fatto capire al generale che l’arrivo in prima linea di rinforzi efficienti avrebbe richiesto molti mesi.
I dubbi sulla mobilitazione
Le perplessità, i dubbi e le prudenze di Surovikin risultano quanto mai evidenti assistendo all’addestramento dei richiamati. La prima domanda che ci si pone è se questi soldati possano rappresentare un’autentica forza di sfondamento. Nessuno di loro è più molto giovane. Anzi sotto divise e giubbotti anti proiettile s’indovinano le curve arrotondate di chi s’è lasciato alle spalle da tempo le prime venti primavere.
Anche armi, attrezzature e protezioni hanno valicato l’arco del ventennio e contrastano non solo con gli equipaggiamenti esibiti dai reparti ucraini riforniti dalla NATO ma anche con quelli ben più moderni di molti reparti russi schierati in prima linea.
Quindi mobilitati e riservisti difficilmente potranno contribuire ad un efficace controffensiva. Almeno nel breve periodo la maggioranza di loro andrà a ricompattare le seconde e le terze linee o a garantire parziali rimpiazzi alle unità di combattimento provate dalle perdite e dalle battaglie degli ultimi mesi.
La strage di Makiivka
Il tentativo di impiegare questi rincalzi in primissima linea ha già mostrato tutti i suoi drammatici limiti proprio lungo le prime linee della Repubblica del Lugansk. Qui il primo novembre, secondo quanto rivelato dal sito d’inchiesta russo Verstka, è stata trasferita un’unità di 570 tra riservisti e coscritti reduce da appena due settimane di addestramento iniziate il 16 ottobre in un campo vicino alla città di Voronezh, nel sud ovest della Russia.
Subito dopo aver ricevuto l’ordine di scavarsi delle trincee gli oltre 500 riservisti sarebbero stati individuati dai droni nemici e bersagliati per ore dal fuoco dei mortai. “E’ stato un inferno. Un drone ci ha sorvolato e poco dopo è iniziato il fuoco dell’artiglieria che è durato per ore senza mai interrompersi.
Secondo il disperato racconto di Aleksei Agafonov l’intera unità sarebbe stata dispiegata – nonostante la promessa di non venir mandata in prima linea – in una zona del Lugansk non lontano dalla città di Makiivka battuta dai droni ucraini ed esposta al fuoco dei mortai.
Ho visto uomini fatti a pezzi davanti a me. La maggior parte dell’unità non c’è più, siamo stati distrutti” – ha raccontato Aganov in un’intervista spiegando che soltanto 130 soldati dell’unità sarebbero sopravvissuti mentre lui e una dozzina di quest’ultimi avrebbero abbandonato Makiivka per raggiungere le linee tenute da altre unità russe intorno alla cittadina di Svatovo.
I mobilitati delle Repubbliche
Ancora peggiori sono le condizioni della Repubblica di Lugansk impegnati ad addestrarsi in un altro settore del campo. Qui armi e mezzi (cingolati BMP1) sono gli stessi visti all’opera in Afghanistan negli anni 80. A differenza dei riservisti mobilitati russi quelli della repubblica di Lugansk sono tutti volontari. Anche perché la loro età molte volte supera i quaranta anni e, in alcuni casi, persino i cinquanta.
La vera differenza qui la fa la retribuzione. Gli ultimi aumenti decisi dalle repubbliche indipendentiste hanno portato il salario dai 74mila rubli (poco più di 1.000 euro) d’inizio guerra ai ben 200mila rubli attuali, pari a quasi 3.000 euro.
Non a caso molti dei nuovi arruolati hanno abbandonato l’uniforme da minatore indossata fino a qualche settimana fa per vestire la mimetica, più rischiosa ma decisamente più remunerativa.
A fronte di paghe molto alte gli equipaggiamenti restano quelli approssimativi, o assolutamente inadeguati, che caratterizzano alcune unità delle cosiddette repubbliche. Quasi nessuno di questi mobilitati dispone di giubbotti anti-proiettile, in molti casi mancano perfino gli elmetti mentre i kalashnikov sono ancora quelli della vecchia Armata Rossa.
L’addestramento è quello basico delle reclute che imbracciano per la prima volta un fucile d’assalto e imparano a impugnarlo senza caricatore inserito (nella foto sopra).
“Fino a due mesi fa lavoravo in una miniera di carbone – racconta il 36enne Iuri intento a seguire un corso da tiratore carrista – ma quando ho visto che molti miei colleghi correvano ad arruolarsi ho deciso di provarci anch’io. A casa devo pensare ai miei genitori, a mia moglie e ai nostri due figli. Almeno così posso garantire loro qualche soldo e al tempo stesso difendere sia loro, sia la mia patria”.
La prossima offensiva
Insomma nè i mobilitati russi, nè tantomeno quelli reclutati nei territori del Donbass controllati dalle Repubbliche indipendentiste potevano garantire un immediato ribaltamento del fronte, nè tantomeno salvare Kherson, dove peraltro Mosca aveva schierato i suoi migliori reparti di fanteria inclusi forze aerotrasportate e fucilieri di Marina.
Proprio gli scarsi vantaggi garantiti dalla mobilitazione nel breve periodo hanno convinto il comandante Surovikin a scegliere una decisa strategia di tamponamento basata sulla sistematica distruzione a colpi di missili e droni-kamikaze delle strutture strategiche nemiche lasciate fino a quel momento intatte.
Colpendo centrali elettriche, snodi ferroviari e comandi dell’intelligence, Surovikin punta a paralizzare possibili offensive ucraine e a ritardare lo spostamento di nuove armi occidentali. Nel frattempo ha incominciato a muovere i primi 50.000 uomini resi disponibili dalla mobilitazione. E dovendo scegliere se utilizzarli per salvare Kherson o per completare la presa del Donbass non ha esitato a sacrificare un capoluogo ormai impossibile da rifornire e difendere.
Nel frattempo i 50mila mobilitati arrivati garantiranno almeno la stabilità delle retrovie e della logistica nelle zone del Lugansk e del Donetsk. In attesa degli altri 250mila riservisti e di una nuova offensiva russa che ben difficilmente scatterà prima del prossimo febbraio.
Foto di Gian Micalessin
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Gian MicalessinVedi tutti gli articoli
Nato a Trieste nel 1960, è uno dei più noti e apprezzati reporter di guerra italiani. Dal 1983 ha seguito sul campo decine di conflitti inclusi i più recenti in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Ucraina. Reporter e opinionista per Il Giornale e il sito Gli Occhi della Guerra, nella sua carriera ha collaborato con Corriere della Sera, Repubblica, Panorama, Libération, Der Spiegel, El Mundo, L'Express e Far Eastern Economic Review oltre che con le emittenti televisive CBS, NBC, Channel 4, TF1, France 2, NDR, TSI, RaiNews24, RaiUno, Rai 2, Canale 5 e LA7. Per il suo lavoro di reporter di guerra ha ricevuto il Premio Antonio Russo (2003), il Premio giornalistico Cesco Tomaselli (2007) e il Premio Ilaria Alpi (2011).