La guerra nascosta. L’ Afghanistan nel racconto dei militari italiani
(aggiornato il 20 febbraio alle ore 18,30)
L’hanno presentata come una missione umanitaria e di peace-keeping, era una guerra. Una guerra mai dichiarata apertamente, ma in cui le Forze armate italiane hanno avuto 53 morti e 723 feriti. Gli eroismi, le bugie e le ipocrisie dell’intervento in Afghanistan raccontati per la prima volta dalla voce di chi ci ha combattuto.
L’hanno presentata come una missione umanitaria e di peace-keeping, era una guerra. Una guerra mai dichiarata apertamente, ma in cui le Forze armate italiane hanno avuto 53 morti e 723 feriti. Gli eroismi, le bugie e le ipocrisie dell’intervento in Afghanistan raccontati per la prima volta dalla voce di chi ci ha combattuto.
La missione era nata da subito all’insegna dell’ipocrisia: «Siamo intervenuti in difesa di un alleato NATO dopo l’11 settembre», mentirono i politici. L’attacco all’Afghanistan fu invece parte dell’operazione Enduring Freedom, a iniziativa americana, non autorizzata dall’ONU. La NATO subentrò solo più tardi.
Spedendo i primi soldati fuori da Kabul, in zona di combattimenti, nel 2003, il ministro della Difesa dell’epoca dichiarò: «È una missione a rischio, ma le sue finalità sono comunque di peace-keeping». In realtà già da fine 2001 i piloti del gruppo Lupi Grigi decollati dalla portaerei Garibaldi erano impegnati nelle missioni di bombardamento sull’Afghanistan insieme agli aerei americani: ne compirono 278.
Non c’era pace da mantenere laggiù, lo dimostra anche l’esistenza di una unità come la Task Force 45, formata dall’élite delle forze speciali italiane, quotidianamente impegnata in azioni di combattimento, ma la cui esistenza all’inizio non era nemmeno ammessa dal governo.
Numerosi ‘operatori’ della fantomatica TF-45 raccontano nei particolari le operazioni di guerra, portate a termine spesso senza poter contare sul supporto degli aerei italiani. In vent’anni di intervento la guerra ha portato con sé corruzione, ruberie, appetiti economici, tradimenti. E il bilancio è uno solo: la situazione in Afghanistan è peggiorata.
In genere i soldati, quelli italiani come tutti, non parlano del loro lavoro. Ci sono regole ferree, ci sono evidenti ragioni di riservatezza, ci sono motivi di sicurezza che limitano molto il racconto delle operazioni militari. Queste si possono ricostruire in modo soddisfacente solo dopo, quando le preoccupazioni per la sicurezza sono ormai superate. Nel caso dell’intervento in Afghanistan, la raccolta delle testimonianze ha confermato quello che Massimo de Angelis e io, autori del libro LA guerra nascosta – L’Afghanistan nel racconto dei militari italiani” (editore Laterza), già sapevamo: cioè che i contingenti del nostro paese avevano combattuto duramente.
L’impegno nelle missioni all’estero non è mai leggero, ma quello per partecipare alla lotta contro i talebani è stato fra i più duri. E questo stonava in maniera netta con la versione che – da giornalisti – eravamo abituati ad ascoltare nelle parole dei politici. Qualcuno lo chiamava intervento umanitario, qualcun altro parlava esplicitamente di peacekeeping, facendo finta di ignorare che le caratteristiche del peacekeeping sono delineate precisamente dalle Nazioni Unite, e di sicuro non coincidevano con quelle della missione afghana.
Si può discutere a lungo se gli italiani dovevano partecipare alle operazioni in Afghanistan o no, ma non si può certo mettere in discussione quello che da subito era di fronte agli occhi di tutti: in quella terra d’Asia si combatteva, si uccideva, si moriva. Era una guerra, e così doveva essere chiamata. Tutti i governi sono sempre tentati di edulcorare la descrizione delle imprese militari, ma probabilmente i vari governi italiani che si sono succeduti hanno esagerato, cercando di convincere il Paese che l’uso della forza era marginale e i combattimenti solo un incidente di percorso. Una bugia come questa è un insulto alla Carta costituzionale, una presa in giro all’opinione pubblica e al Parlamento, ma anche un’offesa per chi ha combattuto e ancora di più per chi non è tornato. Restituire la voce ai protagonisti significava per noi ristabilire un racconto corretto, con il rispetto dovuto a chi si è sacrificato e a chi, da cittadino, vuole capire meglio l’Italia con le stellette.
Giampaolo Cadalanu
Giampaolo Cadalanu, inviato speciale del quotidiano “la Repubblica”, si occupa da oltre trent’anni di crisi e conflitti in tutto il mondo, dal Medio Oriente ai Balcani, dal Sudan all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina, dallo Sri Lanka al Libano. Come defense correspondent ha seguito i soldati italiani nelle diverse missioni all’estero. Opinionista di Analisi Difesa, gli sono stati conferiti, tra l’altro, il Premio Boerma della FAO e la Colomba d’oro dell’Archivio Disarmo.
Massimo de Angelis è stato per vent’anni inviato speciale e defense correspondent del TG1. Ha realizzato reportage e corrispondenze su mafie, terrorismo e da teatri di crisi e di guerra degli ultimi anni. Ha partecipato al primo corso di sopravvivenza in zone di guerra del ministero della Difesa. Documentarista di progetti umanitari internazionali, nel 2015 gli è stato conferito su proposta di Amnesty International il Premio Italia Diritti Umani. Ha pubblicato il romanzo L’uomo con il turbante, ambientato in Afghanistan (Rubbettino 2019).
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Autore: Massimo De Angelis, Giampaolo Cadalanu
Editore: Laterza
Collana:I Robinson. Letture
Anno edizione: 2023ù
Prezzo: Euro 19
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