Xi Jinping va a Mosca puntando alla leadership mondiale

 

 

Xi Jinping è andato a Mosca dove è stato accolto con tutti gli onori. La visita è importante e trascende il problema ucraino. Verosimilmente il presidente cinese, forte della sua rielezione all’unanimità per un terzo mandato, intende soprattutto fissare i parametri di riferimento per la futura collaborazione sino-russa.  E vuole farlo in un momento in cui i rapporti di forza sono decisamente sbilanciati a favore di Pechino.

L’obiettivo geopolitico cinese è anche guadagnare ulteriori consensi da parte dei paesi che in Asia, Africa e America Latina appaiono sempre più restii ad accettare i frequenti diktat statunitensi riguardanti come gestire le proprie relazioni estere e commerciali. Diktat motivati, a detta d Washington, da gravi violazioni del diritto internazionale o dei diritti umani che tali paesi spesso ritengono (a torto o ragione) che li interessino ben poco.

Anche il recente accordo raggiunto con la mediazione del Dragone tra due nemici storici, divisi da motivazioni sia geopolitiche che confessionali, come Iran e Arabia Saudita, sembra confermare la crescita di influenza globale di Pechino ai danni di Washington, anche in regioni inaspettate come il Medio Oriente.

Cina e Russia sono due potenze con mentalità imperiale, una mentalità che sopravvive anche alla perdita geografica dell’impero. Due potenze che non si sono mai amate (d’altronde gli imperi possono essere alleati per interesse, mai per amore) ma che sono complementari per molti aspetti e che, senza pestarsi troppo i piedi l’un l’altra, hanno di fatto acquisito il controllo di gran parte del continente africano.

Ciò che oggi sembra unirli è più che altro un comune nemico. Un nemico a livello sia geopolitico sia ideologico: gli USA e la “missione” tutta statunitense di esportare i così detti “valori occidentali”. Anche se non vi fossero tutti gli altri interessi economici e geopolitici che oggi legano Pechino e Mosca, manterrebbe pur sempre validità il vecchio detto “il nemico del mio nemico è mio amico”.

In questo quadro, è chiaro che ove la Cina riuscisse a imporsi come credibile negoziatore nell’ambito della crisi ucraina gli USA lo percepirebbero come una “invasione di campo” da parte del loro principale competitor mondiale e una loro sconfitta politica. Ne abbiamo già scritto su questa testata (Perché il piano cinese per l’Ucraina non piace all’Occidente – Analisi Difesa)

Tutto ciò premesso, dovrebbe far riflettere la dichiarazione di Blinken che ove la proposta di Xi Jinping prevedesse un “cessate il fuoco”, senza un preventivo ritiro russo dai territori occupati, “gli USA non sarebbero disposti ad accettarla”. Tale affermazione conferma chiaramente almeno due cose.

In primis, che le decisioni in merito a ciò che sia o meno accettabile per gli ucraini debbano essere assunte non a Kiev, bensì a Washington, da gente al sicuro e al caldo, che non ha i propri figli o i propri mariti in trincea e sotto le bombe.

È un fatto noto a tutti e anche noi lo avevamo scritto in tempi non sospetti (In Ucraina si combattono tre guerre parallele – Analisi Difesa). Peraltro, occorre rilevare come questa lettura contrasti con la narrativa “politically correct” che quello in atto sia “esclusivamente” un conflitto tra Russia e Ucraina e che gli USA si limitino a fornire un aiuto disinteressato all’aggredito senza tentare di condizionarne le scelte. Si tratta, però, di un aspetto formale e non in realtà sostanziale, perché si limita a confermare che, per quanto sul campo muoiano solo russi e ucraini, a livello strategico il conflitto è tra la Russia e gli USA (e i loro alleati) e che tale conflitto si inserisce in una competizione geopolitica ben più ampia tra USA e Cina, competizione il cui baricentro probabilmente non è sulle rive del Dnepr ma nelle acque ben più perigliose dell’Indo Pacifico.

L’altra rivelazione (anche questa, in realtà, un segreto di Pulcinella) è che gli USA vogliono la continuazione non solo del “conflitto”, inteso quale situazione non necessariamente guerreggiata in cui non vi sia un accordo di pace, ma anche dei “combattimenti”, ovvero in questa fase vogliono la continuazione del conflitto guerreggiato.

Infatti, a meno di una “resa senza condizioni” (che in prospettiva non pare si possa imporre a Putin, né ad alcuna potenza nucleare) per poter avviare una trattativa seria che porti ad accordi di pace, occorre preliminarmente giungere a un “cessate il fuoco”.

Successivamente si potranno negoziare eventuali restituzioni territoriali nel quadro delle trattative per giungere a tali accordi di pace. Certamente i negoziati non sarebbero facili, potrebbero richiedere anni e terrebbero conto della situazione sul terreno, ovvero della posizione delle forze al momento del cessate il fuoco, ma la storia ci insegna che quello è un punto di partenza e spesso non è l’elemento dirimente.

E’ verosimile che, anche senza alcun veto statunitense, in questa fase Pechino non riuscirebbe a portare Mosca e Kiev ad un cessate il fuoco e ad avviare un negoziato serio.

Peraltro, il rifiuto aprioristico USA di ascoltare eventuali proposte di Pechino e di farle prendere in considerazione da Kiev, rischiano di far apparire Xi Jinping come colui che tenta di mediare e l’amministrazione Biden come quella che, indifferente alle sofferenze del popolo ucraino, vuole che la guerra continui sino ad una improbabile vittoria militare di Kiev.

In sostanza, tale atteggiamento statunitense rischia di fare un grosso regalo in termini di immagine a Xi Jinping, consentendo a Pechino di attribuire ai “falchi” di Washington tutte le colpe del fallimento della loro “Posizione Cinese in merito alla composizione politica della crisi ucraina”.

Una tale situazione, paradossalmente, potrebbe tornare a vantaggio di Pechino nella sua campagna tendente ad imporre in Asia, Africa e America Latina l’immagine della Cina come superpotenza emergente e tesa a risolvere le crisi nei confronti di un colosso americano guerrafondaio e invadente.

Un passo importante per costruire quel “nuovo ordine mondiale” che trascenda dai cosiddetti “valori occidentali” e che vorrebbe vedere Usa ed Europa marginalizzati. In questo contesto lo stop dell’attuale amministrazione di Washington alla proposta di Pechino rischia di fare il gioco di Cina e Russia.

Foto: Presidenza Russa, TASS e Ria Novosti

 

 

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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