Riflessioni sulla politica marittima nazionale nell’Indo-Pacifico
di Marzio Pratellesi (CESMAR)
Con riferimento al ruolo, prospettato da Il Fatto Quotidiano, che il Gruppo Portaerei Cavour potrebbe rivestire in un deployment nell’Indo- Pacifico, sono opportune alcune precisazioni, con l’intento di affrontare, con rigore scientifico, la complessa tematica della politica navale e della strategia marittima nazionale in questo teatro operativo.
In primis, è opportuno contestualizzare la posizione dell’Italia a livello internazionale e, in particolare, la funzione dello strumento navale nazionale. Del resto, nello scacchiere mondiale l’Italia è – per definizione – una «Media potenza con interessi economici globali». Nondimeno, al sostantivo “potenza” si accompagna sovente l’epiteto “marittima”, proprio al fine di esaltare l’identità mediterranea e il viscerale legame con la marittimità.
Qualsivoglia potenza marittima, a prescindere dal suo peso geopolitico, deve poter contare su una flotta, sia in un momento fisiologico, per sviluppare gli interessi nazionali, sia patologico, per prevenire e contrastare quei fattori esogeni che possono danneggiare i primi. La Marina Militare, in ossequio a questo postulato, è presente in tutti quei bacini marittimi – tra cui l’Indopacifico – in cui emergono interessi nazionali, secondo un modus operandi multilaterale, attagliato all’esigenza e vocato al dialogo. La presenza navale possiede ovviamente una geometria variabile in funzione delle esigenze geopolitiche e della tipologia di teatro operativo.
Una seconda premessa, di carattere dottrinale, concerne la definizione di “gunboat diplomacy”[1], termine impropriamente associato al ruolo del Gruppo Portaerei italiano nell’Estremo Oriente. Tale espressione, riconducibile a livello semantico all’epoca dell’Imperialismo, costituisce un sottoinsieme del più vasto concetto di “naval diplomacy”.
Quest’ultimo, insieme al “military role” ed al “constabulary role”, costituisce, secondo K. Booth, il trittico delle funzioni del potere navale[2]. Se nel XIX secolo la diplomazia navale aveva esclusivamente una funzione coercitiva[3], oggi possiede diverse sfaccettature che, accomunate dal multilateralismo, spaziano dal capacity building, alla cooperazione economica fino al supporto umanitario. Proprio in questi ultimi ambiti si afferma la diplomazia navale nazionale, la quale, poggiandosi sulla vocazione expeditionary del suo gruppo portaerei, è in grado di raggiungere vaste aree del globo.
Ogni forza aeronavale possiede uno specifico bilanciamento dei tre elementi illustrati da Booth – militare, di polizia e in sostegno alla popolazione (diplomatico) – nell’intento di conseguire gli obiettivi geopolitici propri e della comunità internazionale. In tal senso, la Marina Militare, rispecchiando dal punto di vista militare l’ordinamento nazionale, possiede un baricentro spostato verso le “Maritime Security Operations” e la “diplomazia navale”. Nel ruolo “constabulary”, la Marina Militare si è dimostrata un provider internazionale nel campo della sicurezza marittima, realizzando efficaci operazioni di contrasto alla pirateria e ai traffici illeciti, fenomeni, peraltro, particolarmente diffusi nel Mare Cinese Meridionale e nello Stretto di Malacca.
Per quanto concerne la diplomazia navale, le missioni umanitarie rappresentano uno degli strumenti impiegati dalla Marina Militare per salvaguardare i diritti e i valori costituzionalmente riconosciuti e promossi dalla comunità internazionale. Si possono menzionare numerosi esempi, molti dei quali occorsi proprio nell’Indopacifico. Si pensi all’ingresso del cacciatorpediniere Ardito nel porto di Shangai nel 1979, in piena Guerra Fredda. Oppure alle Military Operations Other than War, rappresentate dal soccorso ai Boat-People vietnamiti ad opera dell’8° Gruppo Navale e nell’ambito della missione ONU INTERFET, a sostegno della popolazione del Timor Est.
In quest’ultimo contesto, l’Italia partecipò all’operazione “Stabilize”, a partire dal 22 settembre 1999, con nave San Giusto, unità di Comando e Controllo e di proiezione anfibia, avente a bordo un reparto di 400 militari. Infine, alla prima missione operativa della portaerei Cavour, per il soccorso umanitario alla popolazione di Haiti flagellata da un terremoto (Operazione White Crane – 2010).
Venendo all’ambito della dottrina marittima nazionale, i bacini di operazione della Marina Militare rappresentano luoghi dove risiedono gli interessi economici nazionali e i global commons della comunità internazionale propri dell’epoca della globalizzazione. Per ridurre l’intrinseca complessità, il CESMAR solitamente classifica i teatri operativi marittimi nazionali utilizzando il modello delle “3S: Sopravvivenza, Sicurezza e Sviluppo”, in modo da analizzare come viene modulata la risposta del potere marittimo italiano in relazione ai fattori di rischio e agli interessi minacciati.
Nel Mediterraneo “Geografico”, la Marina Militare opera per garantire la “Sopravvivenza”. Vi rientra il contrasto al terrorismo marittimo, ai traffici illeciti, all’inquinamento e la salvaguardia dell’approvvigionamento alimentare, energetico, ed informativo nonché l’integrità del territorio nazionale e dei suoi cittadini.
Nel Mediterraneo “Allargato”, la Marina svolge operazioni accomunate dall’obiettivo del mantenimento della Sicurezza regionale, della difesa della libertà della navigazione e della promozione del c.d. «good order at sea». Un safe and secure enviroment marittimo nel Mediterraneo Allargato costituisce una condizione necessaria per favorire gli scambi commerciali ed informativi con i partner internazionali, siano essi regionali oppure globali.
Esistono, infine, dei bacini marittimi collocati “oltre al Mediterraneo Allargato” – come l’Indopacifico – nei quali la Marina Militare supporta lo Sviluppo delle attività nazionali e l’apertura del Paese alle dinamiche di interesse globale, nel rispetto dei valori della comunità internazionale.
Questi ultimi mari, seppur distanti dai teatri operativi di diretta competenza nazionale, sono imprescindibili per ampliare la prospettiva regionale e anticipare quei fattori esogeni potenzialmente lesivi della stabilità mediterranea (funzione di early warning). Oggi, a fronte di una realtà ancora globalizzata, si assiste ad una fitta interconnessione degli spazi marittimi, testimoniata dall’aumento dei traffici commerciali (SLOC) e informativi (cavi sottomarini): interconnessione che determina un effetto contagio nelle crisi regionali amplificandone gli effetti su scala globale.
La precedente dinamica lega le sorti del Mediterraneo a quelle di bacini marittimi anche molto distanti quali l’Indopacifico. Per comprendere le vicende mediterranee è necessario, pertanto, agire di anticipo, analizzando e studiando i bacini marittimi limitrofi per comprendere e prevenire i fattori destabilizzanti. Questo è stato, negli ultimi anni, l’obiettivo dei molteplici interventi delle maggiori Marine europee nell’Indopacifico. Basti pensare alla missione Clemenceau francese del 2019 e ai deployment del Queen Elizabeth Carrier Vessel Group e della fregata tedesca Bayern avvenuti nel 2021.
La presenza economica italiana nell’Estremo Oriente è radicata e in costante sviluppo. Solo nel 2022 il valore dell’interscambio Italia-Giappone è stato pari a oltre 14 miliardi di euro, di cui circa 4,2 miliardi di importazioni italiane e circa 10,3 miliardi di esportazioni. Il nostro Paese si è così confermato il secondo fornitore tra i Paesi dell’Unione Europea. La Cina rappresenta, invece, il secondo esportatore e l’ottavo importatore per l’economia nazionale, con un valore di beni che ammonta rispettivamente all’8,4% ed al 3% del PIL (fonte: ministero degli Esteri).
Questa evidenza economica si sposa perfettamente con il pensiero espresso dall’Ammiraglio Virgilio Spigai (1907 – 1976), promotore del concetto di supporto del potere navale alla strategia marittima e globale italiana, secondo il quale la presenza di una flotta deve essere direttamente proporzionale alla densità politica di uno Stato (V. SPIGAI, Il Problema Navale Italiano, Vito Bianco Editore, Roma, 1971, p.65).
Questo comporta che la rilevanza economica dell’Estremo Oriente impone una maggiore presenza navale, atta a promuovere e sostenere lo sviluppo degli interessi nazionali, in una prospettiva di opportunità politico-economico piuttosto che di rischio militare.
A questo riguardo, il Carrier Vessel Battle Group (CVBG) italiano, costruito attorno alla portaerei Cavour, rende la Marina Militare italiana una blue water navy, ovvero una Marina “alturiera” in grado di operare al di fuori dei bacini marittimi domestici. Questo status va inteso in un’accezione qualitativa piuttosto che quantitativa, volutamente concepita per interventi limitati, contraddistinti da una natura multilaterale. Difatti, le dimensioni delle unità, della componente aerea imbarcata e del carico bellico concorrono al corretto bilanciamento tra resilienza, sostenibilità, flessibilità e credibilità geopolitica.
Del resto, la caratteristica principale del CVBG italiano è l’alta modularità operativa – peculiarità assente in altre Marine – intesa come possibilità di compiere un ampio spettro di operazioni, che si diramano da quelle prettamente militari di “Sea control” e “Power Projection”, alle missioni di carattere umanitario, senza tralasciare il Low enforcement marittimo. Nonostante la criticata concentrazione capacitiva, il CVBG Cavour esprime il solo gruppo portaerei dell’Unione Europea dotato di velivoli di 5a generazione (F-35B), eccellenza nazionale ricercata da alcuni Stati asiatici come il Giappone e la Corea.
Storicamente i gruppi expeditionary italiani, costruiti attorno all’incrociatore portaelicotteri Vittorio Veneto e alla portaeromobili Giuseppe Garibaldi, hanno rappresentato un unicum geopolitico per la capacità di evitare escalations e proporre soluzioni multilaterali alle crisi, preferendo strumenti di natura diplomatica e umanitaria all’uso della forza.
Sul solco di questa tradizione, il Gruppo Portaerei Cavour, qualora venisse impiegato nel complesso scenario dell’Indopacifico, deve essere inteso non come elemento destabilizzante, nell’ambito delle spirali geopolitiche del bipolarismo sino-statunitense, bensì come una piattaforma expeditionary che possa accrescere il prestigio nazionale nell’area e sviluppare salde partnership economiche e politiche con gli Stati asiatici, in pieno accordo con il ruolo italiano di «media potenza marittima con interessi economici globali».
Note
[1] J. Cable, Gunboat Diplomacy 1919-1979: Political Applications of Limited Naval Force, Mac Millan Press, London, 1981. Nel testo si differenziano quattro tipologie di «persuasione navale». Il tipo «definitivo» si ha quando si pone fine ad una controversia mettendo l’avversario di fronte al fatto compiuto; il t. «catalitico» quando una situazione presenta minacce non individuabili o vantaggi imprecisi. Il t. «premeditato» quando si induce l’avversario ad intraprendere una decisione prestabilita. La tipologia «espressiva» serve a manifestare un atteggiamento o posture senza una finalità precisa.
[2] K. Booth, Law, force & diplomacy at sea, Allen & Unwin, London-Boston, 1985.
[3] La persuasione è definita «attiva» o «coercitiva» quando, attraverso la minaccia diretta, uno Stato tenta di influenzare le decisioni della controparte. Da E. N. Luttwak, The political use of sea power, Johns Hopkins University Press, Baltimore-London, 1974.
Foto: Marina Militare
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