Se gli Stati Uniti scaricano l’Ucraina sull’Europa

 

Al vertice Ue di Granada il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non ha usato mezzi termini per definire l’attuale situazione. Preso atto dei “tornado politici” che scuotono un’America ormai travolta da una aspra campagna elettorale in vista delle presidenziali del novembre 2023, secondo Zelensky “l’Europa deve essere forte, non abbassare le vele in attesa della fine della tempesta” perché gli europei non possono permettersi il lusso della stanchezza, o di abbandonare l’Ucraina o di accettare un congelamento del conflitto con la Russia. Se lo facessimo secondo il presidente ucraino, saremmo tutti in pericolo poiché nel 2028 l’Europa rischia un altro “momento critico” con la Russia pronta ad attaccare altri obiettivi.

Si può esprimere qualche dubbio sul fatto che la Russia (dipinta in Occidente come una “potenza imperialista”) abbia davvero intenzione o interesse a invadere un pezzo di Europa tra cinque anni e non può certo stupire che Zelensky cerchi di scongiurare il rischio, sempre più concreto, che l’Occidente abbandoni la causa ucraina o rallenti decisamente il flusso dio aiuti. L’America lo farebbe per ragioni elettorali e perché tradizionalmente gli Stati Uniti, specie quando gli americani vengono chiamati al voto, decidono che i conflitti in cui sono invischiati non sono più “la loro guerra”.

L’Europa lo farebbe perché non ha più nulla da dare a Kiev in termini di armi e munizioni, perché tradizionalmente segue gli USA come un fedele vassallo nel coinvolgimento e nel disimpegno dai conflitti e poi anche perché la guerra che a dire di molti leader europei doveva logorare la Russia sta invece distruggendo la nostra economia e mina la nostra stabilità politica e sociale.

Comprensibile quindi che gli ucraini cerchino di evitare di venire scaricati come è già successo a sudvietnamiti, curdi, afghani o iracheni. Strano piuttosto che i segnali ben tangibili di una deriva statunitense di scaricare sull’Europa il grosso del peso del sostegno militare e finanziario all’Ucraina non abbia acceso nessun articolato dibattito in Europa.

Eppure nei giorni scorsi il Congresso ha bloccato i fondi per Kiev mentre Donald Trump ha chiesto provocatoriamente “perché il corrotto Joe Biden non fa contribuire l’Europa alle spese all’Ucraina? Non dovremmo dare neppure un altro dollaro a Kiev fino a che l’Europa non avrà pareggiato il denaro che gli Stati Uniti hanno speso per difendere l’Ucraina”. Mentre Trump rispolvera il vecchio cavallo di battaglia utilizzato durante la sua presidenza di definire l’Europa una scroccona che incassa la sicurezza prodotta dagli USA ma che non ne paga il conto: valutazione che durante la sua amministrazione arrivò a mettere in discussione l’Alleanza Atlantica.

Come Analisi Difesa aveva sottolineato già in agosto, il processo di “scaricabarile” degli obblighi assunti verso l’Ucraina da una parte all’altra dell’Atlantico, era già iniziato al vertice NATO di Vilnius in luglio, e gli scenari futuri con quello che ci attende nel dopoguerra, erano stati ben delineati l’8 agosto scorso dall’economista statunitense Kenneth Rogoff, professore d’economia ad Harvard e già capo economista del Fondo Monetario Internazionale.

Rogoff ha sostenuto che “i costi della ricostruzione dell’Ucraina saranno probabilmente molto più alti del previsto, tra i 700 e i 1.000 miliardi di euro, e l’Europa, che finora ha contribuito “relativamente poco” alla difesa di Kiev, si dovrebbe assumere “quanto prima” la responsabilità della ricostruzione. Secondo Rogoff, “la necessità che l’Europa si faccia avanti e si assuma le proprie responsabilità è sempre più urgente” perché gli interessi europei “sono più strettamente allineati con quelli dell’Ucraina”. Inoltre, “anche se il sostegno militare degli USA all’Europa e all’Ucraina dovesse essere confermato dopo le elezioni presidenziali, l’entusiasmo dell’America per degli aiuti finanziari a lungo termine probabilmente svanirà indipendentemente dal risultato elettorale”.

Insomma, uno scenario non proprio incoraggiante per l’Europa già alle prese con non poche difficoltà interne in buona parte dovute all’errata percezione della Commissione Ue e di molti governi che la Russia sarebbe crollata economicamente e militarmente in poche settimane sotto il peso delle nostre sanzioni. Previsioni talmente errate che la Ue ha dovuto rinunciare allo stop alle importazioni energetiche da Mosca, oggi in pieno recupero.

L’ansia di Zelensky è del tutto motivata: non c’è da scommettere infatti sulla disponibilità e capacità dell’Europa di sostenere nel tempo Kiev, specie ora che gli americani si guardano l’ombelico in vista di un anno di feroce e divisiva campagna elettorale che sta mettendo in luce inquietanti interrogativi circa l’Amministrazione Biden.

Appare infatti da tempo evidente che le condizioni di salute non consentono al presidente di affrontare con la necessaria lucidità gli impegni che la Casa Bianca impone soprattutto in quest’epoca caratterizzata da sfide, tensioni e guerre. Già oggi è facile intuire che Biden non sia in grado di prendere decisioni con la necessaria consapevolezza, valutazione che impone necessariamente di chiedersi chi guidi realmente gli Stati Uniti. Una domanda a cui è ancora più urgente dare una risposta se si considera che Biden è candidato per un secondo mandato che, in caso di vittoria, lo porterebbe a sedere alla Casa Bianca fino al gennaio 2029.

In Europa la crisi di consenso di molti governi (dalla Francia di Macron alla Germania di Scholz) si aggiunge alle attese per la nascita di un governo di coalizione in Slovacchias dove la presidenza ha annunciato il “congelamento” del sostegno militare a Kiev. Dopo il successo elettorale del partito SMER-SD dell’ex premier Robert Fico, che si oppone agli aiuti militari a Kiev, la decisione è stata annunciata a Bratislava dal presidente Zuzana Caputova in base alla valutazione che “la decisione su questa delicata questione deve riflettere i risultati delle recenti elezioni legislative”, come ha detto un portavoce della presidenza. “I risultati elettorali devono essere rispettati” e Fico ha assicurato agli elettori che il suo governo non manderà “nemmeno un proiettile” a Kiev e si adopererà per favorire negoziati di pace.

Il segretario del Consiglio di Sicurezza Ucraino, Danilov, ha accusato la Slovacchia di collaborazionismo con il Cremlino sottolineando la “significativa presenza di agenti russi a Brastislava” mentre nella Ue e pure in Italia i partiti “gemelli” (come il PD) dello SMER-SD slovacco chiedono l’espulsione della formazione slovacca dal Partito Socialista Europeo per le posizioni “filo-russe” assunte già in campagna elettorale.

“Robert Fico, leader del Partito Direzione-socialdemocrazia e vincitore delle elezioni anticipate in Slovacchia è incompatibile con i valori e i principi del socialismo europeo e mi auguro che la dirigenza dei socialisti europei decidano la sua espulsione” ha detto Stefano Graziano, capogruppo del Pd in commissione Difesa della Camera. “Le recenti esternazioni di Fico nei riguardi dell’Ucraina sono gravissime e in profonda contrapposizione con le decisioni assunte in tutte le del socialismo europeo”.

Fico (nella foto a sinistra), ora impegnato a formare un governo trovando almeno altri 34 parlamentari oltre ai 42 del suo partito, ha ribadito dopo l’affermazione elettorale le posizioni nette sul conflitto in Ucraina basate sullo stop alle forniture militari a Kiev e sull’avvio di trattative con la Russia per concludere il conflitto che tanti danni economici sta determinando soprattutto in Mitteleuropa.

Gli ambienti di Bruxelles sono tradizionalmente intimoriti e preoccupati quando i popoli d’Europa si esprimono col libero voto e hanno rispolverato per l’ennesima volta l’ombra della disinformazione e degli agenti russi dietro al successo di Fico che ha ribaltato i risultati previsti dagli exit poll.

Nulla di nuovo nel “maccartismo” che da qualche anno sta travolgendo l’informazione e la politica in Europa ma è curioso che Fico venga dipinto come un pericoloso putiniano tenuto conto che è stato già due volte premier in Slovacchia (tra il 2006 e il 2010 e poi dal 2012 al 2018) e in quegli anni non ha mai chiesto l’adesione alla Federazione Russa né ha adottato derive di stampo nordcoreano. Anzi, Fico è stato per anni un simbolo della socialdemocrazia europea e non a caso il suo partito nel Parlamento Europeo fa parte del Partito Socialista Europeo di cui è parte anche il PD, quello che per intenderci esprime commissari quali Borrel, Timmermans o Gentiloni.

Sulla svolta polacca è intervenuto il ministro degli Esteri ungheresi Peter Szijjarto respingendo le accuse di presunta interferenza della Russia nelle elezioni parlamentari in Slovacchia ed accusando Bruxelles di avere etichettato come “spie russe” tutti i politici che non seguono la corrente principale liberal europea.  “Quando un politico patriottico o una famiglia politica che mette al primo posto gli interessi nazionali e si oppone alla corrente liberal di Bruxelles vince le elezioni o almeno ha la possibilità di partecipare alle elezioni, Bruxelles inizia immediatamente a esercitare pressioni, attacchi ed etichette”, ha detto Szijjarto al quotidiano ungherese Magyar Nemzet.

Non è un caso che l’affermazione dello SMER-SD a Bratislava abbia coinciso con gigantesche manifestazioni antigovernative a Praga e Varsavia. Il sostegno a Kiev sembra vacillare in modo rapido da alcune settimane anche in Polonia. Dopo le dure reazioni di Kiev allo stop alle importazioni di cereali ucraini in Polonia, il premier Mateusz Morawiecki aveva annunciato lo stop alle forniture militari all’Ucraina, dichiarazione parzialmente rettificata dal presidente Andrzej Duda ma nei fatti probabilmente confermata da un elemento rilevante emerso nei giorni scorsi.

La Polonia non era infatti presente al Forum delle industrie della difesa in Ucraina tenutosi il 29 settembre nei pressi di Kiev che ha raccolto l’adesione di 30 nazioni e circa 250 aziende del settore Difesa. Pur se invitato da Kiev, il governo polacco avrebbe deciso di non partecipare forse per protesta contro i crescenti legami militari tra Ucraina e Germania, inizialmente tempestosi ma ora sempre più stabili e ulteriormente consolidatisi con l’accordo tra l’azienda di stato ucraina Ukrobronoprom e la tedesca Rheinmetall per realizzare in Ucraina uno stabilimento per produrre e riparare mezzi, armi, munizioni e veicoli.

Tutta l’iniziativa politica e strategica polacca è impostata come alternativa alla Germania (i vertici polacchi esultarono alla distruzione dei due gasdotti Nodstream) e Il 2 ottobre Morawiecki ha messo in guardia l’Ucraina dallo stabilire una stretta alleanza con la Germania e ha annunciato lo schieramento di ulteriori truppe ai confini orientali con Ucraina e Bielorussia.

In un discorso tenuto a Katowice in vista delle elezioni parlamentari, Morawiecki ha rivolto un monito a Volodymyr Zelensky. “Sembra che avrà ora una stretta alleanza con la Germania. Lasciate che lo avvisi: Berlino vorrà sempre cooperare con i russi al di sopra dei paesi dell’Europa centrale”, ha detto Morawiecki sottolineando che “è stata la Polonia ad accogliere sotto i suoi tetti qualche milione di ucraini: sono stati i polacchi ad accogliere gli ucraini e siamo stati noi ad aiutare di più, quando i tedeschi volevano inviare 5.000 elmetti a Kiev assediata”, ha dichiarato Morawiecki. “Vale la pena non dimenticarlo, presidente Zelensky”.

Che a Varsavia le tensioni siano sempre più forti a pochi giorni dal voto di domenica e che coinvolgano anche il mondo militare è apparso chiaro anche oggi con le le dimissioni dei massimi vertici della Difesa.  Il capo di Stato maggiore dell’esercito polacco, generale Rajmund Andrzejczak, e il comandante operativo, generale Tomasz Piotrowski hanno rassegnato le dimissioni. Secondo i media polacchi si tratta di screzi tra i generali e il ministro della Difesa, Mariusz Blaszczak (nella foto sopra), che aveva accusato pubblicamente il comandante operativo di negligenza. Il presidente Andrzej Duda ha accettato le dimissioni dei due ufficiali mentre il leader dell’opposizione Donald Tusk ha annunciato che altri 10 generali del Comando generale delle forze armate si sono dimessi, notizia smentita dallo stesso Comando generale.

Anche l’Ungheria, come abbiamo ricordato in un recente articolo, ha assunto toni sempre più duri nei confronti dei leader di Kiev ma anche delle politiche di UE e NATO.

Nella guerra in Ucraina sembra quindi aprirsi un forse inatteso “fronte mitteleuropeo” che minaccia da un lato la stabilità degli aiuti all’Ucraina e dall’altro rischia di minare ulteriormente un’Unione Europea sempre più inadeguata a gestire le sfide che la attanagliano, specie ora che gli Stati Uniti minacciano di defilarsi.

@GianandreaGaian

Foto: Presidenza Ucraina, SMER-SD, Governo Ungherese e Unione Europea

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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