Quale futuro per Gaza?
Occorre affrontare un progetto sul futuro per Gaza bandendo le narrazioni unilaterali, e non trascurando il diritto di difesa di Israele rispetto all’aggressione jihadista e antisemita di Hamas. Lo Stato ebraico dovrà essere altresì credibile come Nazione democratica, non tradendo i principi del diritto internazionale umanitario e ripensando alle sue politiche nei territori palestinesi. Su queste basi la comunità internazionale potrà adoperarsi per promuovere, come primo passo, un’Autorità provvisoria su Gaza, costituita sotto l’egida delle Nazioni Unite e con un ruolo di “garanti” svolto da Lega Araba e dai principali Paesi arabi, come Egitto, Giordania, Arabia Saudita, oltre che da Stati Uniti e UE.
Non sarà facile delineare un percorso che guardi alla stabilizzazione di Gaza, ma se si vuole evitare l’aggravarsi della catastrofe umanitaria e l’escalation del conflitto occorre che la comunità internazionale elabori al più presto un progetto che convinca Israele e il Mondo Arabo. Il Consiglio di Sicurezza non è riuscito sinora a trovare la convergenza dei membri permanenti con diritto di veto su una Risoluzione che contemperasse la condanna di Hamas, il diritto di difesa di Israele e un piano per il futuro assetto della Striscia.
Sullo scenario in evoluzione è ora intervenuto il Presidente Biden a chiarire la linea della Casa Bianca in un editoriale per il Washington Post: Gaza non potrà essere più una «piattaforma per il terrorismo», ma al tempo stesso «non ci deve essere alcun spostamento forzato dei palestinesi da Gaza», così come non si potrà realizzare «nessuna rioccupazione, nessun assedio o blocco e nessuna riduzione del territorio». Sul futuro assetto dell’area Biden ha precisato che Gaza e Cisgiordania dovranno essere riunite «sotto un’Autorità Palestinese rinnovata», mentre occorrerà lavorare per una «soluzione a due Stati».
È la stessa linea che, nella sostanza, è stata tracciata qualche giorno addietro da una riedita intesa Italia-Francia-Germania in un documento presentato al capo della diplomazia europea Josep Borrell e all’ultimo Consiglio affari esteri (https://www.consilium.europa.eu/en/meetings/fac/2023/11/13). Si tratta di un piano su 6 punti, articolato su «tre no e tre sì». I «no» riguardano:
1) non potrà essere imposto lo spostamento definitivo in altri paesi della popolazione palestinese da Gaza;
2) non vi può essere una riduzione del territorio di Gaza, per cui Israele non potrà rioccuparla in forma stabile, né si potrà accettare un ritorno di Hamas;
3) Gaza non va slegata dal resto del territorio palestinese: la soluzione per Gaza va vista nel quadro di una “soluzione globale”.
I tre «sì» sono questi:
1) la ricostituzione a Gaza di «una Autorità Palestinese», e Borrell ha precisato che se c’è già un’Autorità Palestinese (in Cisgiordania) «non occorre inventarne una nuova», ma va rafforzata con appropriate decisioni del Consiglio di Sicurezza;
2) il «forte appoggio» politico e finanziario che questa Autorità dovrà avere con il coinvolgimento degli Stati arabi;
3) un maggiore impegno dell’UE nella regione per la costruzione dello «Stato palestinese». Il documento, su cui dovrà pronunciarsi il Consiglio europeo, tratteggia anche l’importanza di delegittimare la falsa narrativa di Hamas come “difensore della causa palestinese” e l’obiettivo di individuare strumenti efficaci a livello internazionale per privare Hamas di tutti i finanziamenti che vengono distratti in armamenti invece di essere destinati al sostegno della popolazione.
I fondamentali del diritto internazionale sull’occupazione
Le linee-guida formulate dal Presidente Biden e nel documento predisposto in ambito UE si basano su una regola fondamentale del diritto internazionale che ancora si tende a disattendere: per i principi della Carta delle Nazioni Unite e per il moderno diritto internazionale dei conflitti armati non è consentita una occupatio di un territorio illimitata, né questa può preludere a qualsiasi forma di “annessione” del territorio palestinese, né tanto meno ad una deportazione di massa. Anche il sistema delle evacuazioni che si stanno adottando su Gaza sta presentando notevoli criticità.
Da un lato rappresentano la soluzione più concreta che consente alle Forze Israeliane di Difesa (IDF) di sottrarre la popolazione dagli effetti collaterali dei bombardamenti e dei combattimenti, dall’altro lato sono già compromesse le condizioni dei campi profughi esistenti, e non è facile individuarne altri nel limitato territorio della Striscia, su cui è presente Hamas con i suoi bunker e tunnel sotterranei.
Specie ora che le operazioni dell’IDF si stanno spostando a Sud di Gaza (dove secondo l’intelligence israeliana si nasconderebbero i principali pianificatori del massacro del 7 ottobre), si stanno individuando nuove aree umanitarie sulla fascia costiera, ma occorre che vengano definite precise garanzie per la sicurezza e la vivibilità. In ogni caso Israele dovrà tenere conto della narrazione collettiva della identità palestinese: si è già evocato il rischio di una nuova Nakba, la “catastrofe” che vide l’esodo di 700.000 palestinesi costretti a fuggire appena sorto Israele, nel corso della guerra arabo-israeliana del 1948.
E su questi profili c’è anche la rigidità delle posizioni di Egitto e Giordania che hanno respinto ogni ipotesi di accettare nuove ondate di profughi palestinesi nei loro territori. Israele deve dunque impegnarsi a restituire la Striscia alla sua popolazione. Se obiettivamente non si può stabilire oggi fino a quando potranno considerarsi soddisfatte le condizioni di sicurezza dello Stato ebraico, è necessario comunque che la comunità internazionale promuova un piano per una valida alternativa.
Un modello di Autorità transitoria per Gaza
L’iniziativa presentata da Italia-Francia-Germania va considerata come una base di partenza su cui sarà necessario prima di tutto raggiungere le condivisioni sui principi per tradursi in un piano delle Nazioni Unite.
Il percorso dovrà essere implementato con modelli gestionali fondati sugli schemi delle Autorità transitorie adottate in altre aree di crisi. Tra i modelli già configurati in alcune analisi internazionali va valutata con attenzione l’ipotesi di un’Autorità provvisoria per Gaza, che è considerata la più realistica anche dal giornale israeliano Haaretz, di ispirazione progressista.
Il progetto prevede un provvedimento di I tempo in cui si stabilisca una Amministrazione civile da cui sia allontanata l’attuale dirigenza di Hamas. Si tratterebbe di un organismo simile al governo provvisorio istituito in Iraq, composto da rappresentanti delle forze locali come amministratori delle municipalità, sindacati, associazioni professionali, tribù, clan e organizzazioni non governative, su cui sarà necessario un vaglio affidabilità e imparzialità. Ad esse dovranno unirsi figure autorevoli di Fatah, il movimento su cui si regge l’Autorità nazionale palestinese (ANP) in Cisgiordania (West Bank).
Un aspetto critico di tale prospettiva è proprio il riavvicinamento dell’ANP della West Bank a Gaza, ancorché sia fortemente auspicato dall’Occidente e probabilmente anche da diversi Stati del mondo arabo moderato.
Perché questa ipotesi possa delinearsi occorrerà creare le condizioni per consolidare una nuova e autorevole leadership dell’ANP, affinché si superino le accuse di corruzione e arrendevolezza rivolte all’attuale governo dell’ultraottantenne Abu Mazen, ritenuto «collaboratore dell’occupazione» per non aver reagito come dovuto al moltiplicarsi degli insediamenti dei coloni israeliani nei territori dei palestinesi. D’altro canto lo stesso Abu Mazen ha dichiarato che un suo avvicinamento su Gaza non potrà avvenire «su un tank israeliano» e che potrà prenderlo in considerazione se si delinea «una soluzione globale».
È evidente che il presupposto per garantire un futuro per Gaza sarà riconoscere un’Autorità palestinese senza la presenza di Hamas, che ha rivelato la sua natura terroristica e agito con nettezza nel perseguire l’annientamento di Israele.
La comunità internazionale non può dunque che proporre per la costituenda Autorità provvisoria di Gaza un rapporto stretto con l’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah, e la soluzione dovrebbe prevedere un ruolo di “garanti” – con presenze diplomatiche, amministrative e forze multinazionali di sicurezza – svolto dalla Lega Araba e dai principali Stati Arabi come Egitto, Giordania e anche da Stati del Golfo come Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, oltre che da USA e UE, il tutto sotto l’egida dell’ONU che dovrà approvare una Risoluzione in tal senso.
Il peacemaking per “Due popoli, due Stati”
Nel tempo si potrà affrontare anche la controversa questione dell’espansione dei coloni ebrei in Cisgiordania su cui Israele dovrà accettare un ridimensionamento e/o altre formule di integrazione che non compromettano l’autonomia palestinese. Da qui si potranno riconsiderare gli accordi di Oslo del 1993 e la formula “Due popoli, due Stati”, su cui converge la comunità internazionale. In altri termini, l’idea è quella di muoversi sulle basi delle Risoluzioni Onu 242 e 338, secondo un piano che già nel 2020 aveva trovato convergenti gli Usa del Presidente Trump e un diverso Netanyahu, in cui si configurerebbe un unico Stato palestinese su circa il 70% della Cisgiordania, un’ampliata Striscia di Gaza e con capitale un’area di Gerusalemme.
Sullo sfondo occorrerà valutare in ogni caso il processo di rinnovamento della leadership israeliana, troppo compromessa dall’attuale deriva ultranazionalista che sta invece spingendo per una occupazione prolungata su Gaza, e, alla pari di Hamas che non vuole Israele, di fatto non vuole una Palestina autonoma: è emblematico che siano proprio le correnti estremiste e radicalizzate delle due parti a non accettare il riconoscimento dell’altro. Se il conflitto fosse destinato ad inasprirsi il rischio è che le rispettive popolazioni si polarizzino proprio su questa prospettiva di una reciproca “guerra esistenziale” senza fine.
In questa visione occorre tuttavia avere la consapevolezza dei molti altri aspetti critici che riguardano i rapporti fra palestinesi ed israeliani. Le relazioni tra le due società sono storicamente asimmetriche perché se da un lato Israele ha visto un largo sviluppo economico e sociale, dall’altro i territori palestinesi sono contrassegnati da una economia sostanzialmente sostenuta dagli aiuti internazionali e da larghe fasce della popolazione condannate allo stato di profughi.
Da qui l’istanza di molti intellettuali israeliani e palestinesi di ripensare, una volta consolidata la pace, anche ad un modello federale basato su quello dell’Unione Europea, che tuteli i diritti di tutti, agevoli la libera circolazione delle persone e delle merci, e attenui le diseguaglianze.
Per evitare l’allargamento del conflitto
Buona parte della comunità internazionale è dunque convinta che un prolungamento dell’occupazione di Gaza, con l’aggravarsi delle distruzioni e delle stragi di civili, espone all’allargamento del conflitto, oltre ad essere in contrasto con i principi di necessità e proporzionalità cui deve uniformarsi la reazione di Israele. Lo scenario peraltro non converrebbe allo stesso Stato ebraico: il rischio è di protrarre uno stato di guerra e di terrorismo permanente cui il governo di Tel Aviv dovrebbe far fronte con una mobilitazione prolungata dei riservisti tratti dalla società civile, il che significherebbe il blocco dello sviluppo economico e sociale del paese.
Il quadro generale della crisi richiede pure di non trascurare le insidie che sul percorso degli accordi Abramo (che avrebbero avvicinato Israele al mondo arabo) sono state poste dall’Iran, sostenitore di Hamas, e anche dall’interesse della Russia ad aprire un nuovo fronte che distragga l’Occidente dal sostegno all’Ucraina. Teheran in particolare sta già attaccando le basi americane in Iraq e Sira per consolidare l’egemonia regionale sulle continuità territoriali delle presenze sciite in Iraq, Siria, e Libano, e sostiene anche i ribelli Houthi dello Yemen per controllare il traffico marittimo tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano.
In sostanza, il conflitto tra israeliani e palestinesi rischia di rappresentare ancora il paradigma dello scontro dei blocchi, oggi riconfigurato tra Occidente e “Sud globale”. Tuttavia, considerato anche che al recente vertice di San Francisco sarebbe emerso qualche segnale di distensione tra Usa e Cina, per evitare una ulteriore escalation del disordine globale si può auspicare che il Consiglio di Sicurezza riesca ad approvare una Risoluzione che stabilisca per Gaza una forza multinazionale di sicurezza e un’Autorità provvisoria garantite dal coinvolgimento dei Paesi arabi moderati, con una doppia finalità: restituire Gaza alla sua popolazione e proteggere Israele dalla minaccia terroristica.
Un solo obiettivo concreto è dunque necessario perseguire per un futuro di stabilità anche in Medio Oriente: evitare lo scenario di una “guerra esistenziale” tra palestinesi e israeliani, e dar voce al linguaggio del diritto internazionale e della diplomazia. Se così non fosse si farebbe il gioco dei terroristi di Hamas, e dei vari attori che vogliono alimentare il disordine globale per affermare i loro disegni egemonici contro l’ Occidente.
Immagini ISW, IDF e Brigate Ezzedin el-Qassam
Maurizio Delli SantiVedi tutti gli articoli
Membro della International Law Association, dell'Associazione Italiana Giuristi Europei, dell'Associazione Italiana di Sociologia e della Société Internationale de Droit Militaire et Droit de la Guerre - Bruxelles. Docente a contratto presso l'Università Niccolò Cusano, in Diritto Internazionale Penale/Diritto Internazionale dei Conflitti Armati e Controterrorismo, è autore di varie pubblicazioni, tra cui "L'ISIS e la minaccia del nuovo terrorismo. Tra rappresentazioni, questioni giuridiche e nuovi scenari geopolitici", Aracne, 2015. Collabora con diverse testate italiane ed europee.