Il deficit di credibilità di ONU e UE tra Balcani, Vicino Oriente e Sahel

 

Fra guerre e crisi in Ucraina, Sahel, Vicino Oriente, Balcani, frenetiche ricerche di mediazioni improbabili, auspici di soluzioni più teoriche che realistiche, un fatto appare purtroppo accertato: l’emarginazione dell’Onu a livello globale e della Ue a livello regionale come protagonisti o possibili risolutori credibili richiesti e accettati dalle parti in conflitto.

A dire il vero il declino dell’Onu, unica e tuttora insostituibile organizzazione multilaterale globale, procede ineluttabilmente da decenni in forma sempre più marcata a partire dall’impensabile coinvolgimento di un Segretario generale, del di lui figlio, del responsabile Onu del programma e di altri alti funzionari nel riprovevole scandalo gestionale dei fondi utilizzati per l’operazione “Oil for food” dal 1996 al 2003.

La realtà odierna indica che al momento del bisogno non venga considerato prioritario o sostenibile il ricorso alle organizzazioni multilaterali intergovernative create e finanziate proprio per assicurare neutralità, stabilità, sicurezza mondiale e regionale, sviluppo socio economico, sostegno a Paesi o gruppi di Stati più poveri, meno avanzati, più deboli a livello istituzionale e di infrastrutture.

La perdita di credibilità suffragata dal fallimento della maggior parte delle decennali missioni multidimensionali di stabilizzazione dell’Onu e dagli scarsi risultati delle missioni Ue di formazione, partenariato e sostegno alle forze di difesa e sicurezza locali in Africa, ha trovato un’imbarazzante e definitiva conferma nel 2023.

In un articolo del 2 febbraio 2022 ne segnalammo su Analisi Difesa la prospettiva negativa, quasi scontata, analizzando i flop delle missioni Onu e Ue nel 2021. Le conclusioni dell’articolo di allora restano immutate oggi, semmai aggravate dalla recenti espulsioni delle stesse missioni Onu e Ue da parte di rilevanti Paesi Saheliani e non, Mali, Niger e Repubblica democratica Congo con l’aggiunta del fragoroso disimpegno francese e/o richiesta di lasciare il Paese da parte di Mali e Niger e la recente dissoluzione del gruppo di Stati G5 Sahel, sostenuto fortemente da Francia e Ue, a seguito della denuncia degli accordi costitutivi da parte di Mali, Niger, Burkina Faso.

A completare lo scenario decisamente negativo non solo per l’occidente ma a termine per le stesse popolazioni locali coinvolte, le richieste alla Russia e (con meno evidenza mediatica) alla Turchia finanziata massicciamente dal Qatar, di intervento e coinvolgimento sempre più marcato nelle strategie politico-militari dei Paesi in questione.

In pratica in circa un triennio si è riusciti a rimpiazzare l’influenza francese, della Ue, occidentale in senso più largo con quella di Russia e Turchia, protagonisti accanto alla Cina da tempo presente sulla scena nord africana e saheliana. E’ prevedibile tuttavia che i nuovi influenti alleati imporranno ai Paesi che ne hanno chiesto il sostegno vincoli ben più cogenti mentre non è certo possano garantire gli stessi livelli di aiuti allo sviluppo, al bilancio e di cooperazione economico-finanziaria garantita dai Paesi e dalle istituzioni occidentali a loro legate.

Non va meglio nel Vicino Oriente, nei Balcani e in Ucraina. In queste aree conflittuali l’Onu resta irrilevante da anni mentre la Ue, che in teoria avrebbe carte da giocare, ha dimostrato di non riuscire a condurre interventi con pragmatismo, credibilità operativa e politica, per essere accettata come istituzione in grado di garantire ripristino di diritti violati, applicazione di norme internazionali condivise, cessazione di conflitti ad alta o media intensità, transizioni da fasi conflittuali a post conflittuali, ripresa di un dialogo facilitato fra le parti in conflitto.

Se in Medioriente la Ue non è mai stata presa in seria considerazione, risulta ben più preoccupante ad oggi il fallimento negoziale fra Serbia e Kosovo dopo oltre un decennio di assistenza europea in qualità di facilitatore del dialogo. Anche su questa irrisolta questione per chi fosse interessato a ulteriori dettagli si rinvia ad un articolo su Analisi Difesa del 4 Aprile scorso.

Suscita delusione E amarezza, sia per le aspettative generate nel secondo dopoguerra sia per gli enormi finanziamenti profusi, la constatazione che perfino questioni del “condominio” europeo possano essere risolte solo grazie all’intervento degli alleati statunitensi o addirittura facendo ricorso, negli ultimi casi, a più credibili mediazioni turche…

 

Aspetti concreti

Circa le riforme del sistema Onu e delle principali istituzioni Ue, reclamate da anni, è opportuno e realistico non farsi troppe illusioni. La riforma del Consiglio di Sicurezza Onu sul piatto da due decenni, l’incremento del numero degli Stati ammessi con o senza diritto di veto per aree geografiche per attualizzare la rilevanza individuale di Stati emersa negli anni, la riforma del funzionamento del Segretariato Generale, del potere decisionale dello stesso e delle Agenzie Onu, appaiono lontane dal realizzarsi anche per responsabilità degli stessi Stati che a loro volta reclamano meno riforme abbozzate senza una reale volontà di attuazione. Troppi gli interessi in gioco, i compromessi da accettare, le nuove aspirazioni da soddisfare e i blocchi da rimuovere per trovare una soluzione negoziale soddisfacente per tutti.

Più o meno lo stesso ragionamento vale per una seria riforma relativa al funzionamento e alla conseguente attuazione delle decisioni del Consiglio europeo, formato dai Capi di Stato e di Governo, che detta la politica e le linee strategiche tradotte successivamente in azioni dalla Commissione Ue. Sussiste una contraddizione, certamente limitativa, fonte di continue manovre dilatorie e decisioni al ribasso, nella attuale necessità della unanimità manifestata con voto dagli Stati Membri per qualsiasi decisione rilevante. Basta un solo veto o minaccia di veto da parte di uno Stato Membro per bloccare anche un consenso raggiunto da tutti gli altri Paesi. Nello stesso tempo, vigente questa oggettiva limitazione, si procede ad un ulteriore allargamento ad Est al fine di far accedere nuovi Stati all’Unione Europea.

Mentre ci si batte con tempi fin troppo dilatati per superare in qualche modo gli ostacoli, sinteticamente ricordati, alle riforme istituzionali delle due Organizzazioni l’una globale l’altra regionale, entrambe sono condannate all’impotenza, all’irrilevanza di fronte alle sfide, alle crisi, ai conflitti, scatenatisi con sempre maggior frequenza in tempi recenti.

Messe da parte le aspettative di cambiamenti significativi a breve medio termine, sarebbe forse opportuno concentrarsi e spingere parallelamente su quanto possa risultare riformabile e fattibile in tempi brevi attraverso procedure amministrative interne alle organizzazioni impegnando gli Stati Membri ad approvazioni di principio e sostegno ad un’azione amministrativa riformatrice, piuttosto che attendere i risultati dei negoziati politici necessari per riforme strutturali ad ampio spettro quali le modifiche di atti costitutivi delle Organizzazioni internazionali o intergovernative.

Sulla base di un’esperienza professionale quasi trentennale fra Onu e Ue, a parere di chi scrive queste note le vere cause del declino, della perdita di credibilità, della incapacità operativa, delle spese incongrue rispetto agli obiettivi e ai risultati ottenuti, risiedono in alcuni aspetti specifici:

  • in una burocrazia auto indulgente, obsoleta, incapace di miglioramenti, di adattamento a tempi e sfide nuove per le quali sono richieste flessibilità operativa, rapidità di decisioni e conseguenti esecuzioni delle iniziative sul campo;
  • nella inadeguatezza delle scelte del personale, dai livelli medio alti a quelli dirigenziali cioè a coloro che dirigono divisioni, dipartimenti, preparano le decisioni, le prendono o le fanno prendere ai vertici apicali
  • nello scollamento fra le realtà con cui confrontarsi sul terreno e le istruzioni esecutive emanate dai quartieri generali, queste ultime sovente imposte senza un confronto costruttivo con gli operativi sul terreno.

Ci sarebbero altri corollari da richiamare fra le cause del declino, generalmente validi per entrambe le burocrazie. Sempre riguardo alla selezione del personale ed alla attribuzione degli incarichi, due fra tutte:

  • La scarsa considerazione di precedenti esperienze sul campo, del fattore culturale, nel senso di cultura generale, della conoscenza ed interesse al confronto con le culture dei Paesi con cui si dovrà interagire;
  • L’appartenenza a lobbies e cordate interne alle organizzazioni quindi a determinati Paesi, Italia quasi ininfluente, che occupano le posizioni nevralgiche a prescindere dalla considerazione di percentuali di meritocrazia, nettamente in declino rispetto al passato. Che si tratti di promozioni o attribuzioni di incarichi rilevanti.

Il risultato della combinazione degli elementi evidenziati è stato che dai primi anni ‘90 del secolo scorso, fra quartieri generali e responsabili sul terreno si sia affermata la figura di un rigido burocrate interessato in primo luogo a compilare rapporti, a partecipare a riunioni, a compiacere i capi per ottenere promozioni, piuttosto che ad eseguire con impegno, anche creativo in determinate circostanze, il mandato affidato nell’interesse della credibilità dell’Organizzazione cui si appartiene e, in primo luogo, del Paese, delle popolazioni, del territorio in cui si opera.

Una forte pressione degli Stati membri con controlli stringenti sulle attuazioni delle riforme interne ed eventuali minacce di riduzione dei finanziamenti potrebbero accelerare cambiamenti improcrastinabili.

 

Conseguenze

A lungo andare i Paesi beneficiari di aiuti rilevanti, mi riferisco in particolare alle aree del Sahel e Vicino Oriente in cui ho lavorato per quasi 20 anni, hanno cominciato a perdere fiducia nel mito dell’ONU e delle sue Agenzie, nella Ue e nelle missioni ad essa collegate a causa di risultati a dir poco deludenti rispetto alle premesse, ai fiumi di denaro investiti, agli sforzi richiesti agli stessi Paesi beneficiari.

In sintesi dopo decenni di interventi non vi sono stati concreti benefici per le popolazioni a livello di sviluppo, stabilità e sicurezza, non sono emerse nuove classi dirigenti locali, rinnovate, più preparate, più sensibili agli interessi dello Stato, più vicine alle fasce deboli delle popolazioni, meno corrotte e corruttibili.

Si sono così consolidate vecchie abitudini, rigidità e retoriche eludendo progressivamente un approccio pragmatico, il rapporto umano, culturale, oltre che professionale, con i responsabili locali, con la società civile. Si è preferito privilegiare rigidità burocratiche, nuove tecnologie utili ma sovente poco pratiche per le esigenze di quelle aree. E’ venuta meno quella che definirei la diplomazia dal basso, cioè la capacità di inserimento nei tessuti locali rispettando usi e costumi e al tempo stesso facendosi rispettare dagli interlocutori.

La concomitanza di superficialità, sottovalutazione del fattore umano, valutazioni errate ha prodotto anche le “defaillances” informative, l’incapacità di prevenire, “fiutare” in anticipo eventuali sommovimenti politici, sociali, militari. Negli ultimi anni se ne sono avute fragorose conferme in Mali, Burkina Faso, Niger, Repubblica Centroafricana, Kosovo, perfino a Gaza dove apparentemente le informative del Mossad, dei servizi egiziani, giordani furono sottovalutate dallo stesso governo Israeliano.

Le conseguenze della perdita di credibilità e quindi della sospensione di alcuni rilevanti interventi Onu, le missioni Monusco (RD Congo) e Minusma (Mali) in totale circa 35.000 caschi blu e personale civile impiegati, e Ue come Eucap Sahel Niger unite al disimpegno francese nel Sahel sono da considerarsi disastrose per l’Occidente e per singoli Paesi come l’Italia.

Operazioni ultradecennali, pur inefficaci, dell’Onu, che resta tuttavia organizzazione indispensabile a livello globale, e della Ue, influenze francesi e occidentali sono state rimpiazzate in tempi fin troppo stretti da Russia, Turchia, Qatar da un lato, Jihadisti, Isis, qaedisti e influenze più marcate dei Fratelli Musulmani sulle nuove dirigenze emerse da colpi di stato dall’altro. I nuovi alleati hanno rapidamente dimostrato di non essere interessati a impartire lezioni, a lunghe procedure di attuazione, bensì a risolvere i problemi di sicurezza anche con metodologia spiccia. Naturalmente a breve termine con piena soddisfazione del richiedente ma con interesse marcato a trarne benefici consistenti nel medio periodo. Nulla di peggio per il mondo occidentale. Riacquisire le posizioni del recente passato sarà sempre più difficile pur se i nuovi protagonisti della scena saheliana mostrassero difficoltà a fornire gli stessi aiuti economico-finanziari ai partner africani.

 

Scenari

 

Medio Oriente

Un paradosso su cui riflettere lucidamente evitando per quanto possibile pregiudizi e demagogie. Lo Stato israeliano ad eccezione di casi limitati non ha mai sostenuto apertamente l’azione dell’Onu in Palestina, a Gaza in particolare, per mancanza di stima e fiducia in un approccio considerato troppo fazioso e schierato a volte ben oltre il mandato conferito. Eppure avrebbe interesse economico e sociale a sostenere le azioni dell’ONU a beneficio dei Palestinesi. Tenute in debito conto le prevaricazioni, l’arroganza, la gestione da occupanti di aree a responsabilità Palestinese del post accordi di Oslo, le risposte sproporzionate ad attacchi, ricordiamolo terroristici, vanno individuate anche le ragioni da parte israeliana basandomi su esperienze dirette di vita e lavoro prestato per due Agenzie dell’ONU (UNRWA e OIL) a Gerusalemme e Gaza dal 1991 a fine 1997.

L’ UNRWA si occupa dal 1949 dell’assistenza ai rifugiati palestinesi non solo a Gaza e Cisgiordania, ma anche in Giordania, Siria e Libano. Ha tre principali settori di intervento Istruzione, scuole e insegnamento, Sanità, cure e ospedali, Assistenza sociale incluso il lavoro. Impiega circa 30.000 palestinesi nei vari settori e gestisce i campi di rifugiati. In sintesi svolge un’assistenza rilevante e benemerita anche a livello d’impiego lavorativo.

Il punto di attrito, oggettivamente non irrilevante, con Israele è che in particolare a Gaza non ha mai contrastato con decisione, e l’imparzialità che è lecito attendersi dalle Nazioni Unite, le pericolose contiguità di suoi dipendenti locali con le frange estremiste delle fazioni palestinesi, in particolare Hamas, dal 1996 in poi.

Anche nel campo dell’istruzione e della sanità gli episodi di contiguità se non di aperta complicità con un terrorismo dannoso per i palestinesi vicini ad Al Fatah, desiderosi di vivere e lavorare in pace, sono aumentati negli anni fino a rendere Gaza una mina esplosiva. Con una parte consistente degli aiuti umanitari Onu e internazionali, è stata costruita una città sotterranea ad uso e consumo di una minoranza di estremisti che dominano e si impongono ad una maggioranza di cittadini con aspirazioni diverse.

Purtroppo con la morte di Arafat, che ha sempre combattuto l’influenza crescente di Hamas, la perdita di ottimi ministri e alti funzionari palestinesi con cui ho lavorato ai tempi del mio impiego con l’OIL e la fuga dell’Autorità Nazionale Palestinese, il quadro si è ulteriormente deteriorato e le complicità, per mera sopravvivenza, della stessa popolazione sono aumentate.

Sono quindi venuti meno quel minimo di controlli, di denuncia, non solo contro le evidenti manchevolezze israeliane, da parte della componente internazionale dell’UNRWA. Una situazione rivelatasi alla lunga deleteria per gli stessi palestinesi costretti dall’immobilismo dell’Agenzia dell’ONU e dalle Ong ancor più schierate a senso unico, a considerare vani, eventuali tentativi di contestazione contro le frange estremiste.

Da parte ONU risalta la debolezza della valutazione reale delle situazioni sul campo, unita alla non ottimale selezione del personale direttivo dal quartier generale ai responsabili sul terreno.

Con il deteriorarsi dei rapporti, gli attacchi sempre più frequenti ad insediamenti colonici ma anche a città vicine all’area di Gaza, si è rapidamente giunti a risposte sempre più sproporzionate da parte israeliana, acuitesi con l’avvento della destra del Likud bisognosa dell’appoggio dei partiti religiosi più radicali per mantenere il potere, a volte per pochi voti.  Si è così perso di vista il vero problema, per la soluzione del quale il grande primo ministro Ytzhak Rabin, assassinato dagli estremisti sionisti, e perfino il primo ministro Ariel Sharon, prima della grave malattia, stavano battendosi.  Ridurre gli insediamenti colonici nei territori palestinesi, ridurre drasticamente l’influenza politica dei partiti radical religiosi della destra estrema.

Il punto nodale della questione è riuscire a ridurre al minimo le azioni e le influenze di due estremismi, quello sanguinario, jihadista, terroristico di Hamas, Jihad Islamica Palestinese e altre fazioni minori, da un lato, quello violento, politico religioso, refrattario ad aperture e dialoghi con i palestinesi di coloni ed estrema destra dall’altro. Anche con l’auspicato insediamento di uno Stato palestinese accanto a quello di Israele non appare scontata una convivenza, se non amichevole, almeno pacifica in assenza di drastiche decisioni da entrambe le parti.

L’assenza di un’istituzione internazionale credibile per una interposizione transitoria nella gestione di Gaza pone una problematica dirimente. Israele, potrebbe forse accettare solo una forza internazionale composta da contingenti di Paesi Nato eventualmente affiancati da giordani, egiziani, qualora questi ultimi accettassero, con l’eventuale copertura di una risoluzione ONU. Irrealistico immaginare caschi blu pachistani, cingalesi, africani e conduzione diretta del Palazzo di Vetro. Si profila così il paradosso, qualora accettato dalle parti, di una forza di pace a guida NATO, modello Kosovo, in sostituzione di un intervento dell’ONU, che in altri tempi sarebbe stata la soluzione transitoria più opportuna.

Infine l’assistenza umanitaria, economica e sociale a favore dei palestinesi sarebbe tutta da rivedere da parte delle Nazioni Unite a partire dalla selezione del personale responsabile dell’attuazione dei programmi, dall’inserimento di figure esperte e rispettate da entrambe le parti, abili negoziatori e al tempo stessi determinati ed imparziali.

 

Sahel

Più semplice comprendere le ragioni della nuova dirigenza militare nigerina, instauratasi in seguito al colpo di stato militare dello scorso luglio, che hanno portato alla cacciata della missione ultra decennale di Formazione, incluse forniture di equipaggiamento, delle forze di difesa, sicurezza, nigerine e dei magistrati locali, EUCAP Sahel Niger e della missione di Partenariato militare EUMPM (quest’ultima operativa solo da febbraio 2023).

In apparenza si potrebbe considerare una ritorsione in quanto la Ue ha sospeso ogni cooperazione in materia di sicurezza e difesa in seguito al colpo di stato. Tuttavia l’ipotesi non sembra del tutto convincente né essere l’unica. Ancora una volta rigidità procedurali e inadeguatezza del personale direttivo nel prendere decisioni e gestire crisi dirette appaiono come solide ragioni da “dietro le quinte”.

Missioni importanti per la politica di Sicurezza e difesa europee (PSDC) e per il Paese beneficiario non dovrebbero essere messe in condizioni di essere cacciate da un governo seppur installatosi a seguito di un colpo di stato. Sarebbe stato comprensibile se tutte le missioni degli Stati alleati occidentali operanti in Niger fossero state richiamate con manifesta volontà sanzionatoria.

Così non è stato: sono state sospese cooperazioni in corso e aiuti finanziari, non di emergenza. Eppure, a quanto è dato sapere, solo Francia e Missioni Ue hanno ricevuto richieste formali di lasciare il territorio. Ad oggi a USA e Italia ad esempio non è stato riservato analogo trattamento. Se ne ricava l’impressione che non vi sia stato, o perlomeno non abbia prodotto risultati, un negoziato riservato teso ad evitare un’espulsione alquanto umiliante trattandosi di una istituzione internazionale.

I decisori EEAS, il Servizio delle relazioni esterne della Ue da cui dipendono le missioni PSDC, e la missione EUCAP Sahel Niger non hanno saputo intercettare preventivamente le informazioni sensibili, né gestire le conseguenze per la missione di un cambio di regime inaspettato. Ritorna dunque il fattore umano, le capacità di creare solidi rapporti locali, l’esperienza pregressa, il rispetto, la capacità di saper dialogare, anche culturalmente, con i vertici governativi, militari, di polizia e gendarmeria.

L’aver vissuto un’esperienza diretta triennale dalla prima fase di installazione della missione, aver avuto il privilegio di intrattenere anche rapporti personali con ministri, stampa e media locali, portano alla considerazione che non vi siano stati negli anni successivi miglioramenti nelle relazioni che andassero oltre le scontate formalità.  Ricordo la condivisione di queste impressioni con un generale francese, molto esperto d’Africa, il quale all’epoca si occupava di EUCAP Sahel Niger da Bruxelles e veniva almeno due volte l’anno in missione.

Non riuscì purtroppo a modificare metodi di selezione e valutazioni in auge a Bruxelles. Era sovente perplesso su modalità operative e sulle scelte di capi missione inadeguati per poter interloquire con ministri, e lo stesso primo ministro. Questi si limitavano ai rapporti scritti, ai compiti impartiti da Bruxelles, a compiacere senza provare a incidere con analisi e valutazioni personali. Il caso di un commissario di polizia, non certo “uomo di mondo”, elevato a rango di capo missione che preferiva per quanto possibile evitare incontri bilaterali con i ministri più importanti o con i vertici militari per carenze comunicative, la dice lunga su scelte imposte, alla lunga fallimentari per la missione stessa.

La maggior parte dello stesso personale internazionale responsabile dei corsi di formazione, pur valido tecnicamente, si limitava al compito assegnato: impartire il corso, rispettare le procedure. Il seguito (follow-up) del corso altrettanto importante se non più rilevante, veniva trascurato. In pratica soprattutto per i corsi dei futuri formatori locali si sarebbe dovuto seguire con continuità assegnazioni e carriere degli allievi locali affinché non venissero disperse le risorse formate.

Accadeva invece che spesso si ripresentavano gli stessi allievi ai corsi o che per motivazioni di appartenenza a determinate tribù e clan, le assegnazioni ai reparti non fossero, diciamo coerenti. I piccoli esempi sopra descritti spiegano le carenze di missioni che, quasi come quelle Onu, tendono a perennizzarsi senza portare il valore aggiunto atteso, tantomeno prezioso valore informativo. I locali conoscono bene chi rispettare, con chi interloquire seriamente, a chi offrire eventuali contropartite. In altri casi prendono tutto ciò che viene loro offerto. Per le cose serie, cambi repentini di alleanze, richieste più delicate, oggi chiamano russi e turchi, più pronti ad esaudire richieste o ad agire rapidamente e con maggior efficacia.

 

Conclusioni

Per riacquistare credibilità e fiducia perse nei meandri di rigide procedure, lezioni da impartire ignorando tradizioni, usi e costumi locali, sarebbe logico trarre le lezioni (lessons learned) dagli errori del recente passato. Presentare programmi fattibili, modalità di esecuzione risanate, flessibilità e rapidità di decisioni sul campo, unitamente ad un personale dirigenziale ed operativo di cultura ed esperienza comprovate, in grado di farsi rispettare e al tempo stesso rispettare culture diverse.

In aggiunta dovrebbe essere incentivata sul serio la cooperazione civile militare. In molte aree di crisi senza una cornice di sicurezza non si possono portare a termine interventi siano essi di emergenza che di sviluppo economico sociale. Chi afferma il contrario ha scarsa conoscenza delle dinamiche del terreno, più facile sconfinare nei territori della demagogia e della retorica a scapito di risultati concreti da conseguire.

 

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E' uno dei maggiori esperti italiani di operazioni internazionali di stabilizzazione, peacebuilding, cooperazione e comunicazione nelle aree di crisi. Dagli anni 80 ha ricoperto incarichi di responsabilità crescenti per l’Onu, la UE e il Ministero degli Esteri in Africa (13 anni), Medio Oriente e Balcani. Specialista di negoziati complessi, è stato Sindaco Onu in Kosovo della città mista di Kosovo Polje dal 1999 al 2001, ha guidato, primo non americano, il PRT di Nassiriyah in Iraq nel 2006 ed è stato Portavoce e Capo della comunicazione della missione europea di assistenza antiterrorismo EUCAP Sahel Niger fino al 2016. Destinatario di un’alta onorificenza presidenziale Senegalese, per l’editore Fermento ha scritto "Alla periferia del Mondo". Scrive su riviste specializzate ed è un apprezzato commentatore per radio e tv.

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