Un’intesa tra Israele e Turchia per garantire un futuro alla Striscia di Gaza

 

Il futuro post-bellico della Striscia di Gaza potrebbe dipendere da un accordo tra Israele e Turchia in cui Ankara assuma, con un ampio mandato internazionale e in un contesto che coinvolga anche altre nazioni, l’amministrazione del territorio garantendo sicurezza ai confini israeliani e pace e ricostruzione alla popolazione palestinese.

Un’ipotesi che finora non è balenata ufficialmente nel dibattito politico e diplomatico ma che potrebbe essere già oggetto di trattative, mantenute a basso profilo, e che potrebbe mettere d’accordo palestinesi e israeliani offrendo una via d’uscita dalla crisi alla comunità internazionale.

Il premier Benyamin Netanyahu aveva affermato già dai primi giorni dell’offensiva israeliana che avrebbe imposto una fascia di sicurezza a protezione del confine israeliano mantenendo il controllo militare di una zona di qualche chilometro all’interno dei confini di Gaza. Del resto il premier israeliano non vuole che Gaza torni a un’autorità palestinese (ANP compresa), non vuole una forza internazionale a guida l’ONU (vista come organizzazione ostile da Israele) e non intende rioccupare la Striscia come Israele aveva fatto fino al 2005 quando il primo ministro Ariel Sharon attuò il ritiro.

Il rifiuto di prendere in esame ogni opzione finora proposta appare funzionale a posizionarsi in vista di un negoziato dopo che Hamas sarà stato eliminato come forza combattente.

Un negoziato che vedrò probabilmente protagonista la Turchia, che da un lato fa la voce grossa con Israele (definito “stato terrorista” come Netanyahu è stato chiamato “macellaio  da Recep Tayyp Erdogan) ma dall’altro continua a dialogare con Gerusalemme aspirando al ruolo di grande mediatore. Ankara potrebbe infatti proporsi come garante dei confini israeliani inviando una forza di sicurezza nella Striscia di Gaza (meglio se composta anche da contingenti di altre nazioni), con buone possibilità di ottenere il via libera della Lega Araba, delle nazioni dell’area e della comunità internazionale.

Per la Turchia si tratterebbe del resto di un “ritorno” considerato che quei territori sono stati parte dell’Impero dell’Ottomano fino a quando, il 31 ottobre 1917, le truppe britanniche del generale Edmund Allenby conquistarono Gaza e in un paio di mesi giunsero a Gerusalemme. Richiami storici forse dimenticati in Occidente ma non in Turchia, dove il ritorno di proprie  truppe in Libia, nel 2019, venne celebrato come la “rivincita” della guerra del 1911-12 contro l’Italia che aveva strappato all’Impero Ottomano Cirenaica, Tripolitania e le isole del Dodecaneso.

Con un forte ruolo turco a Gaza i palestinesi potrebbero contare sulla gestione di una nazione amica e Israele verrebbe rassicurata sul fatto che la Striscia non diventi di nuovo una fonte di minacce. Erdogan del resto ha sempre giocato queste carte (spesso insieme alla Russia) per allargare la sfera di influenza politica turca, militare e diplomatica, dalla Libia alla guerra russo-ucraina alla Siria dove ha occupato una fascia di sicurezza nella regione curda sul confine.

La Turchia punterebbe così a rafforzare il suo ruolo nel Mediterraneo e in Medio Oriente oltre ad assicurare in prospettiva alle proprie compagnie sia lo sfruttamento delle risorse energetiche situate nel mare di fronte a Gaza (petrolio e gas), sia la ricostruzione post bellica della Striscia. Le tensioni tra Gerusalemme e Ankara sono più di facciata che di sostanza così come quelle tra Israele e Qatar (grande sponsor e alleato della Turchia) con cui lo Stato ebraico Israele ha ampiamente negoziato per far liberare i suoi ostaggi nonostante il fatto che tutta la leadership di Hamas viva a Doha.

D’altra parte, al di là delle dichiarazioni di Netanyahu, lo Stato ebraico non potrà rifiutare tutte le opzioni sul futuro della Striscia di Gaza e la Turchia sembra oggi rappresentare l’unica nazione con la potenzialità e l’interesse ad assumere un ruolo guida e di garanzia nella Striscia, ovviamente con il via libera dell’Egitto.

In passato Ankara e Il Cairo sono state ai ferri corti poiché Turchia e Qatar hanno sostenuto la Fratellanza Musulmana sponsorizzando il governo di Mohamed Morsi, spodestato dai militari guidati da Abdel Fatah al-Sisi nel luglio 2013: ora però i rapporti sono tornati “collaborativi”: il 13 settembre 2022 al-Sisi è stato per la prima volta a Doha in visita ufficiale e il 10 novembre di quest’anno l’emiro Tamim bin Hamad al Thani ha incontrato al Cairo il presidente egiziano per discutere gli ultimi sviluppi del conflitto coordinando gli sforzi per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.

Quanto alle relazioni con la Turchia in settembre al-Sisi ha incontrato Erdogan al G-20 dopo che Ankara aveva già annunciato in marzo la ripresa dei rapporti diplomatici tra le due nazioni interrotti nel 2013.

Il Cairo del resto ha tutto l’interesse a favorire soluzioni che impediscano l’esodo nel Sinai di oltre due milioni di palestinesi indottrinati per 17 anni al jihadismo da Hamas, movimento che ideologicamente costituisce una costola della Fratellanza Musulmana che l’Egitto ha posto fuorilegge come movimento terroristico.

Dopo che Israele ha annunciato la volontà di istituire una fascia di sicurezza nella Striscia di Gaza i turchi hanno subito e prevedibilmente risposto picche in quello che appare una sorta di gioco delle parti all’interno di un piano condiviso in vista di un accordo che potrebbe definirsi con l’avvicinarsi della fine delle operazioni militari che secondo fonti israeliane e statunitensi potrebbero protrarsi fino a gennaio, cioè per altre 4 /6 settimane.

In passato per rispondere ad attacchi con i razzi le truppe israeliane erano entrate in forze a Gaza in più occasioni con l’obiettivo di eliminare Hamas ma aveva sempre fermato l’offensiva in seguito alle pressioni internazionali. Questa volta non sarà così: l’impatto dell’attacco del 7 ottobre non consente al governo israeliano di fermarsi per non uscire sconfitto da un conflitto in cui ad Hamas basta sopravvivere per rivendicare una grande vittoria. Ora che sono stati liberati donne e bambini anche il peso degli ostaggi ancora in mano ai miliziani sarà meno condizionante per Gerusalemme poiché si tratta di circa 130 uomini e militari che il governo israeliano ha già anticipato che sarà forse impossibile liberare.

Se Hamas contava sull’intervento della comunità internazionale per fermare l’offensiva israeliana che prevedibilmente si sarebbe scatenata dopo l’attacco del 7 ottobre, ha fatto un errore di calcolo. Del resto anche tanti i Paesi arabi vedrebbero di buon occhio la scomparsa o l’annientamento di Hamas mentre nelle scorse settimane la Reuters ha rivelato le considerazioni di alcuni funzionari iraniani che hanno espresso la contrarietà dei loro vertici perché Hamas avrebbe condotto l’incursione in forze nel territorio israeliano senza neppure avvisare Teheran. Al di là delle dichiarazioni pubbliche tese anche a blandire l’opinione pubblica araba, Hamas rischia quindi di trovarsi isolata rispetto ai suoi stessi sponsor.

In questo contesto un ruolo di Ankara come “garante” della Striscia di Gaza potrebbe costituire per tutti la soluzione più adeguata, che consentirebbe inoltre di attuare l’uscita di Hamas e dei suoi miliziani dalla Striscia dopo che le truppe israeliane ne avranno radicalmente indebolito le capacità, sull’esempio di quanto accaduto con le milizie palestinesi dell’OLP in Libano nel 1982, episodio già ampiamente trattato da Analisi Difesa.

A oggi almeno la metà dei battaglioni di Hamas sono stati distrutti o gravemente indeboliti secondo quanto riferito da fonnti israeliane.

Proprio la Turchia potrebbe offrire garanzie ai miliziani di Hamas, Jihad Islamica Palestinese e delle altre sigle presenti nella Striscia offrendo loro l’uscita disarmati da Gaza e il trasferimento altrove, forse nel Nord della Siria dove i turchi hanno il controllo territoriale di alcune zone, con il beneplacito del governo di Damasco sostenuto da Mosca.

Un’intesa turco israeliana potrebbe ottenere del resto un ampio sostegno da Russia e Cina, fortemente criticate in Europa per non aver condannato Hamas come “movimento terrorista” ma che proprio per questo si sono garantiti un ruolo di possibili mediatori. Putin ha rapporti molti stretti con gli arabi ed è credibile che della “soluzione turca” abbia discusso nel recente viaggio in Arabia Saudita ed Emirati Arabi e nella lunga telefonata del 10 dicembre con il premier israeliano Beniamyn Netanyahu., mentre la Cina ha mediato l’accordo tra le potenze arabe del Golfo e l’Iran che ha messo fine a 40 anni di tensioni.

In un Medio Oriente che guarda con crescente attenzione a Russia, Cina e BRICS, una soluzione alla crisi di Gaza mediata anche da Mosca, Pechino e che veda Ankara protagonista non dovrebbe sorprendere poiché taglierebbe fuori l’Occidente e soprattutto l’Europa (come è già accaduto con gli accordi tra Russia e Turchia che negli ultimi anni hanno interrotto i conflitti in Libia, Siria e Nagorno-Karabakh) incapace anche in questa crisi non solo di ricoprire un ruolo decisivo ma persino di “toccare palla”.

Del resto dopo il veto posto dagli USA alla risoluzione proposta da mondo arabo per un cessate il fuoco a Gaza le critiche nei confronti di Washington si sono levate da più parti: considerato che il veto americano era scontato (lo stop ai combattimenti avrebbe favorito sul piano militare Hamas) non si può escludere che la stessa presentazione di quella risoluzione avesse l’obiettivo indiretto di mettere all’angolo gli Stati Uniti

D’altra parte un’intesa tra Israele e Turchia potrebbe risultare gradita anche agli USA non solo perché Ankara in fin dei conti fa parte della NATO (anche se Erdogan ha criticato duramente il concentramento di forze dell’US Navy nel Mediterraneo Orientale dopo il 7 ottobre), ma soprattutto perché Washington ha l’esigenza di trovare rapidamente soluzioni a questa guerra come a quella in Ucraina prima che la campagna elettorale per la Casa Bianca entri nel vivo.

@GianandreaGaian

Foto IDF, Anadolu, Presidfenza dell’Egitto e ISW

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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