La NATO è “partner” della Serbia mentre USA e Turchia armano il Kosovo

 

Dopo la consegna a Pristina dei droni turchi Bayraktar TB2 armati alla presenza del premier Albin Kurti (a sinistra nella foto sotto), le forze di sicurezza del Kosovo riceveranno presto 24 lanciatori e 246 missili anticarro Javelin statunitensi. Lo ha reso noto l’11 gennaio la Defense Securtty Cooperation Agency annunciando il via libera del Dipartimento di Stato (la cessione delle armi dovrà avere anche l’approvazione del Congresso) dalla vendita del valore di 75 milioni di dollari incluso addestramento, supporto e manutenzione.

Questo accordo “migliorerà la capacità’ a lungo termine del Kosovo di difendere la propria sovranità e integrità territoriale. Il Kosovo non avrà difficoltà ad assorbire questo equipaggiamento nelle sue forze armate”, ha aggiunto la nota della DSCA.

Il ministro della difesa del Kosovo, Ejup Maqedonci, ha confermato l’avvio delle procedure per l’acquisto dagli Stati Uniti dei missili anticarro Javelin, affermando che la decisione su tale fornitura è parte del piano di transizione della Forza di Sicurezza del Kosovo (KSF) verso un esercito regolare. Finora le unità militari kosovare non hanno potuto dotarsi di armamenti pesanti poiché l’integrità del suo territorio è garantita dalla presenza di circa 4.500 militari dell’operazione NATO K-FOR, forza alleata presente da 25 anni e dall’ottobre scorso a guida turca.

Il ministro kosovaro ha aggiunto che Pristina intende dotarsi anche di sistemi di difesa antiaerea aggiungendo che ha contratti per la fornitura di armamenti con Stati Uniti, Turchia e Germania e collabora nel campo della difesa con altri Paesi NATO quali Italia, Gran Bretagna e Croazia.

Il presidente serbo Aleksandar Vucic (nella foto sotto), in un colloquio con l’ambasciatore americano a Belgrado Christopher Hill, ha espresso “grande delusione” per la decisione di Washington di accogliere la richiesta del Kosovo sui missili anticarro. Da tempo Pristina ha annunciato la ferma decisione di trasformare la Forza di sicurezza del Kosovo a statuto civile, in una forza armata a statuto militare.

Modifica che violerebbe la Risoluzione 1244 adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1999 al termine della guerra (che vide il ritiro delle truppe di Belgrado dal Kosovo) che prevede che l’unica forza militare autorizzata a stazionare sul territorio del Kosovo sia la K-FOR, ovviamente avversata dalla Serbia che non riconosce l’indipendenza del Kosovo proclamata nel 2008. La provincia era infatti parte integrante del territorio nazionale serbo fino all’intervento bellico della NATO del 1999.

Il governo kosovaro non sembra preoccuparsene: già l’estate scorsa Kurti aveva annunciato che in due anni era stato aumentato il numero degli uomini della KSF di oltre l’80% e più che raddoppiato  il bilancio della Difesa e il ministro Maqedonci  ha confermato il 18 gennaio il rafforzamento militare annunciando l’acquisizione di altri armamenti non meglio specificati.

“La Serbia continua ad avere un approccio egemonico e aggressivo nei confronti del Kosovo. Tutto questo dispiegamento di forze serbe nel sud della Serbia e lungo il confine con il Kosovo è solo un’estensione militare della politica serba mirata alla tensione nei Balcani”, ha detto il ministro. “Non stiamo facendo nulla al di fuori del piano che abbiamo concordato per lo sviluppo delle Forze del Kosovo. Non tutte le operazioni sono note al pubblico perché ogni esercito ha le sue procedure di riservatezza”.

Pristina sta “discutendo anche con altri Paesi oltre agli Stati Uniti per l’acquisto di armi. Negli Stati Uniti abbiamo fatto altri acquisti ancor prima che quello dei Javelin fosse reso pubblico”, ha concluso il ministro della Difesa del governo kosovaro guidato dal premier Albin Kurti dicendosi “ottimista” per quanto riguarda l’approvazione del Congresso statunitense all’acquisto dei missili Javelin.

Secondo il Military Balance la Kosovo Security Force conta su 2,500 effettivi e 800 riservisti equipaggiati con armi leggere ed è dotata di veicoli blindati M1117 statunitensi e alcuni Cobra turchi. I droni armati TB2  e i missili Javelin costituiranno quindi un  considerevole incremento delle capacità della forza paramilitare kosovara benché il comunicato della DSCA precisi che “la proposta vendita di tali attrezzature e supporto non altererà l’equilibrio militare di base nella regione”.

Valutazione discutibile poiché doterà le forze kosovare di capacità mai avute prima e certo più in linea con una forza armata che un corpo di sicurezza interna.

Dopo i recenti incidenti nel nord del Kosovo che hanno fatto seguito alla nomina di sindaci albanesi in 4 comuni a maggioranza serba in seguito al boicottaggio delle elezioni locali da parte dell’elettorato serbo (i serbi sono circa 120mila su 1,8 milioni di abitanti), l’iniziativa kosovara di rafforzare e “militarizzare” la Kosovo Security Force potrebbe accendere ulteriori scintille con Belgrado che nei mesi scorsi aveva concentrato forze militari al confine.

Nelle ultime ore sia Vucic sia la premier serba Ana Brnabic hanno protestato per l’annuncio di Pristina che da febbraio vieterà i pagamenti in contanti in dinari serbi utilizzata dalla popolazione serba in Kosovo, a favore dell’euro impiegato in Kosovo come valuta ufficiale.

La Banca centrale del Kosovo ha  disposto che dal primo febbraio l’euro sarà l’unica valuta consentita per operazioni di pagamento in contanti nel Paese. Le altre valute potranno essere utilizzate esclusivamente per depositi o conti bancari. In Kosovo, al pari del Montenegro, l’euro è stato adottato per convenzione come moneta nazionale ma la misura restrittiva è evidentemente mirata a colpire la minoranza serba che utilizza il dinaro per tutti i pagamenti incluse le pensioni e le retribuzioni dei lavoratori delle istituzioni serbe in Kosovo.

Per Milovan Drecun, capo della commissione per il Kosovo in seno al parlamento serbo, il divieto per i pagamenti in dinari costituisce il pià grave attacco alla sopravvivenza stessa della popolazione serba in Kosovo. Senza il sostegno finanziario che arriva da Belgrado, ha detto Drecun, sarà difficile garantire la permanenza dei serbi del Kosovo nei loro luoghi di residenza. “Pristina intende con ciò rendere impossibile ai serbi di restare in Kosovo”, ha osservato Drecun parlando di pulizia etnica strisciante.

“Un gran numero di persone, la gran parte dei serbi del Kosovo vivono con i proventi elargiti dal governo serbo, e con tale misura molto pericolosa di Pristina si mette in pericolo la loro sopravvivenza”, ha affermato Zoran Andjelkovic, alto funzionario rappresentante della comunità serba in Kosovo.

Questa nuova crisi si inserisce peraltro in un contesto di tensione in tutta l’area che vede da un lato la regione serba della Bosnia -Erzegovina (nota come Republika Srpska) puntare decisamente per il ricongiungimento con Belgrado, mentre USA e UE hanno aumentato la pressione economica e diplomatica sulla Serbia (candidata all’ingresso nell’Unione Europea ma con una robusta partnership con la Russia) in seguito allo scoppio del conflitto in Ucraina che vede Belgrado non fornire armi a Kiev e rifiutarsi di imporre sanzioni a Mosca.

La guerra in Ucraina ha visto quindi l’Occidente cercare di forzare l’equilibrio mantenuto dal presidente Vucic tra UE/NATO da una parte e la Russia dall’altra, a cui la Serbia è unità da forti relazioni storiche, culturali, politiche e militari.

Prima gli statunitensi hanno sanzionato il capo dei servizi segreti serbi Aleksander Vulin (nella foto a lato) fino a imporne le dimissioni ma più recentemente gli anglo-americani e alcune nazioni europee hanno sostenuto apertamente le contestazioni di piazza che a Belgrado hanno fatto seguito alle ultime elezioni che hanno confermato la maggioranza parlamentare alla guida della nazione balcanica.

Risultati elettorali contestati da alcune forze di opposizione che lamentavano brogli con manifestazioni e disordini di cui i servizi d’intelligence russi avrebbero intercettato i preparativi e i supporti internazionali, informandone Belgrado. Elemento quest’ultimo che rischia inevitabilmente di aumentare la diffidenza di Belgrado  nei confronti di diverse nazioni occidentali.

Benché la destabilizzazione dei Balcani non rientri (o meglio, non dovrebbe rientrare) negli interessi delle nazioni europee e in particolare dell’Italia (che ha comandato a lungo K-FOR di cui oggi ha vice comando e schiera in Kosovo oltre 600 militari), negli ultimi due anni sono progressivamente aumentate le tensioni tra Serbia e Kosovo e non sono mancate le perplessità di Belgrado dopo la nomina (per la prima volta) di un comandante turco di KFOR, considerando la posizione dichiaratamente filo-kosovara e filo-albanese di Ankara.

In questo contesto, che rischia di surriscaldare la regione balcanica geograficamente contigua all’Ucraina e al Medio Oriente già in fiamme, non sorprende che il documento della DSCA precisi che la proposta di vendita dei missili Javelin “sosterrà gli obiettivi di politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti migliorando la sicurezza di un partner europeo che è una forza importante per la stabilità politica ed economica in Europa”.

Inevitabilmente, come spesso è accaduto anche in passato, l’iniziativa unilaterale statunitense in un’area dove sono presenti anche interessi e contingenti militari europei mette in qualche imbarazzo la NATO, o almeno alcuni alleati.

Come ha riportato l’ANSA, il 15 gennaio a Belgrado, il generale italiano Giampiero Romano, capo dell’Ufficio militare di collegamento della NATO in Serbia  ha precisato che la NATO non ha alcun ruolo nella vendita di armi al Kosovo. Intervenendo a un dibattito pubblico sulla neutralità militare della Serbia e sui suoi rapporti con l’Alleanza Atlantica, Romano si è riferito in particolare al recente annuncio sull’acquisto da parte di Pristina di missili anticarro Javelin dagli Stati Uniti, riporta l’ANSA.

Un’operazione, ha osservato, che non riguarda in nessun modo l’Alleanza. “Non la fa la NATO ma uno Stato che ha diritto a farlo”. Il generale – confermando la contrarietà della NATO alla trasformazione della Forza di Sicurezza del Kosovo (nelle foto sopra e sotto) in un esercito regolare – si è pronunciato al tempo stesso in termini positivi sul partenariato tra Serbia e NATO che, ha detto, progredisce di anno in anno, con le relazioni tra Belgrado e Alleanza Atlantica che sono più strette di quanto possa sembrare.

“La Serbia è un nostro partner importante poiché essa non solo sostiene i nostri obiettivi ma è anche un Paese nostro amico che lavora con noi per promuovere la sicurezza e la stabilità in varie aree balcaniche e atlantiche. La Serbia collabora con l’Alleanza Atlantica a svariati livelli – politico, militare, scientifico”, ha detto il generale Romano, confermando il pieno rispetto della politica di neutralità militare della Serbia.

La collaborazione fra le parti si tiene nell’ambito della Partnership per la pace, il programma offerto dalla NATO ai Paesi dell’ex blocco socialista e sovietico, al quale la Serbia ha aderito 17 anni or sono.

Dichiarazioni che fanno trasparire qualche disallineamento tra la posizione ufficiale della NATO e quella di qualche stato membro,  soprattutto se si tratta dei “maggiori azionisti” dell’alleanza. Difficile infatti credere che il progetto di militarizzazione della KSF, a cui ha riferito pubblicamente il ministro della Difesa di Pristina, possa concretizzarsi e svilupparsi in violazione alla risoluzione dell’ONU nonostante il parere negativo della NATO, senza avere avuto il via libera preventivo da Stati Uniti, Turchia e altri partner dell’alleanza.

Il ministro Maqedonci ha citato il “piano che abbiamo concordato per lo sviluppo delle Forze del Kosovo” ma non ha detto con chi lo abbia concordato.

Tecnicamente la NATO non è neppure coinvolta nella fornitura di armi all’Ucraina, affare gestito dai singoli stati membri ma, anche ascoltando le continue dichiarazioni del segretario generale Lens Stoltenberg circa la necessità che ogni partner dell’Alleanza aumenti gli sforzi per sostenere militarmente Kiev, non si può certo nascondere o sminuire la postura che la NATO ha assunto in quel conflitto.

La differenza tra la NATO e uno stato membro che ha diritto di vendere armi a chi vuole verrebbe rispettata da tutti senza polemiche anche qualora un alleato  vendesse oggi missili o altri sistemi d’arma alla Serbia?  Domanda non casuale considerato che un anno or sono Roma ha sottoscritto con Belgrado un Technical Arrangement riguardante la cooperazione nel campo degli armamenti e dell’industria della Difesa.

In0ltre, il pieno rispetto della politica di neutralità militare della Serbia, cui ha fatto riferimento il generale Romano, non si sposa con le costanti pressioni esercitate da UE e NATO su Belgrado affinché aderisca alle sanzioni a Mosca e agli aiuti militari a Kiev.

Del resto non è certo la prima volta che gli Stati Uniti operano in un’area di crisi sia all’interno di alleanze e coalizioni sia al tempo stesso in modo autonomo e unilaterale con iniziative politiche e militari. I risultati, dall’Iraq all’Afghanistan alla Siria, non sono stati entusiasmanti e hanno contribuito più a destabilizzare che a stabilizzare tali aree. Non vi sono dubbi che premere sull’acceleratore della destabilizzazione del Balcani significa infliggere un ulteriore colpo alla sempre più fragile Europa.

@GianandreaGaian

Foto:  Raytheon, Presidenza Serba, Governo del Kosovo, RFE/RFL e Tanjug

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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