Medio Oriente: i rischi di escalation e la difficile evacuazione degli stranieri dal Libano

 

Funzionari israeliani avrebbero notificato all’amministrazione Biden e ai funzionari della difesa statunitense che una vasta campagna militare nel Libano meridionale sarebbe imminente, a meno che non venga raggiunto un accordo a lungo termine con Hezbollah sui confini con il Libano. Uno scenario che gli Stati Uniti e i paesi europei stanno cercando strenuamente di evitare. Nel frattempo, il Canada, il Regno Unito, l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e la Germania hanno consigliato ai propri cittadini di lasciare il Paese.

La possibile estensione delle operazioni militari di Israele attualmente in corso nella Striscia di Gaza al territorio libanese è un’eventualità da scongiurare non solo per le inevitabili ripercussioni escalative nello scacchiere mediorientale, ma anche per l’aspetto della gestione delle centinaia di migliaia di cittadini non libanesi, o con doppia cittadinanza, europei ed extra-europei, che dovrebbero abbandonare il Paese. Eventualità, questa, rispetto alla quale l’evacuazione da Kabul dell’agosto del 2021 (circa 124.000 persone) sarebbe stata una passeggiata.

Infatti, il numero delle nazioni interessate all’avvio delle operazioni di evacuazione dei propri connazionali e dei cittadini esteri che eventualmente richiedessero assistenza, sarebbe molto più elevato (almeno 35). Inoltre, il tutto avverrebbe in un contesto altamente instabile nel quale l’evacuazione non avverrebbe da un unico luogo come l’aeroporto di Kabul, ma anche dagli altri aeroporti e porti del Paese l’accesso ai quali dovrebbe essere coordinato con milizie delle diverse fazioni che controllano il territorio, le forze armate dell’esercito libanese e con l’esercito israeliano.

Nel 2013 si andò molto vicini alla realizzazione di questo scenario. Di fronte alle vittime dei gas tossici dei sobborghi di Damasco, causate dall’uso di aggressivi chimici da parte di Assad, Stati Uniti, Regno Unito e Francia pensarono di effettuare dei raid aerei punitivi in Siria che non vennero, fortunatamente, effettuati. Tuttavia, il solo annuncio della volontà di procedere militarmente nell’area fece scattare l’allerta per l’attivazione in molte nazioni del mondo di tutti i piani di contingenza per l’evacuazione di personale civile dal Libano (l’autore dell’articolo ha pianificato nel periodo 2011-2014 le operazioni per l’evacuazione dei nostri connazionali dalle principali aree di crisi dell’epoca, compreso il Libano).

Di fatto, sin dal 2011 lo spillover del conflitto siriano aveva provocato il confronto armato di fazioni pro e anti Assad soprattutto nel nord del Paese ai confini della Siria, ma anche più a sud mettendo in pericolo il precario equilibrio politico libanese ed esacerbando il confronto settario. Un altro evento traumatico come quello che si stava profilando avrebbe provocato un’altra ondata di profughi che si sarebbe aggiunta all’oltre milione e mezzo che si era già riversato in Libano a seguito della deflagrazione della crisi siriana, destabilizzando ulteriormente il Paese e innescando l’inevitabile ricerca di luoghi sicuri nei paesi viciniori o in quelli di cittadinanza. D’altronde, la preoccupazione era più che giustificata a causa del ricordo di ciò che era accaduto sette anni prima nel corso della terza guerra israelo-libanese, conosciuta in Israele come seconda guerra del Libano dopo quella del 1978.

 

La guerra del Libano del 2006

Si trattò di un’operazione militare israeliana su vasta scala attuata dall’esercito di Tel Aviv in risposta agli attacchi di miliziani di Hezbollah iniziati il 12 luglio di quell’anno. Questi ultimi, avevano colpito con razzi e colpi di mortaio alcuni villaggi israeliani nella parte settentrionale del Paese provocando vittime tra la popolazione civile. In realtà si trattava di un’azione diversiva per distogliere l’attenzione dall’infiltrazione in territorio israeliano di un’unità di miliziani con il compito di attaccare unità di pattuglia al confine.

Furono colpiti due veicoli e sette soldati tre dei quali uccisi, due feriti e due rapiti e portati in Libano (due anni più tardi si scoprirà che anche questi soldati erano morti pochi giorni dopo a seguito delle ferite riportate). Israele perse altri cinque soldati nel tentativo (non riuscito), di portarli in salvo ed entrò in forze con un’offensiva terrestre nel sud del Libano, accompagnata da un imponente supporto aereo e di artiglieria, e da un blocco aereo e navale totale che isolò, di fatto, il Paese dei Cedri.

Il conflitto durò solo 34 giorni, ma provocò migliaia di vittime, la maggior parte delle quali libanesi, e circa un milione di profughi che si riversarono prevalentemente in Siria, Turchia e Repubblica di Cipro. L’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò all’unanimità la risoluzione 1701 che prevedeva il disarmo di Hezbollah, il ritiro delle truppe israeliane dal Libano, e lo spiegamento di una forza d’interposizione (UNIFIL) nel Sud del Paese.

In tale contesto furono evacuate, facendo ricorso soprattutto alle task force militari inviate da alcuni paesi, più di 300.000 persone appartenenti a 33 nazioni. Si trattò di 80.000 cittadini di Sri Lanka, 50.000 canadesi e 25.000 australiani (quasi tutti libanesi con doppia cittadinanza), 22.000 inglesi, 20.000 francesi, 25.000 americani, 20.000 bengalesi, 15.000 egiziani e 12.000 indiani, per citare le comunità numericamente più significative. Il nostro Cacciatorpediniere lanciamissili “Durand de La Penne” portò in salvo 350 italiani. Il tutto avvenne sotto lo stretto controllo delle forze armate israeliane, che esautorarono le autorità libanesi da ogni forma di gestione di quell’emergenza.

Oggi, dovremmo affrontare la stessa missione ma con uno scenario ancora più complesso. Negli ultimi dieci anni si sono aggiunti un milione e mezzo di profughi siriani (il 30% della popolazione), il 78% dei quali è senza status legale, e oltre 250.000 lavoratori provenienti da Etiopia, Filippine, Bangladesh e Sri Lanka la residenza legale dei quali è legata unicamente al rapporto con il proprio datore di lavoro. La comunità italiana è di circa 4.300 cittadini. Inoltre, non è da escludere che anche tutta la missione di UNIFIL (circa 10.500 soldati), come già recentemente accennato dal Ministro della Difesa Guido Crosetto, debba essere evacuata. Anche in questo caso è altamente probabile che Israele imponga lo stesso blocco aeronavale del 2006 concedendo un non affatto scontato accesso ai punti d’imbarco aerei e navali libanesi sulla base di una rigidissima disciplina che terrà conto unicamente delle esigenze di sicurezza israeliane.

 

Il ruolo della Repubblica di Cipro

Raggiungibile con un’ora e mezza di volo di elicottero da Beirut e dodici ore di traghetto commerciale, la parte greca dell’isola di Cipro fu letteralmente “invasa” nel 2006 da decine di migliaia di evacuati dal momento che costituiva il posto sicuro ideale, come scalo intermedio, da utilizzare per il rimpatrio definitivo. In quella circostanza il governo fu colto di sorpresa e il paese dovette affrontare una vera e propria crisi umanitaria sul proprio territorio, ma in seguito è corso ai ripari predisponendo un’organizzazione che oggi non lascia più nulla al caso. Il Joint Rescue Coordination Center (JRCC del Ministero della Difesa a Larnaca è diventato il riferimento principale dell’organizzazione della protezione civile cipriota in grado di coordinare le molteplici esigenze, soprattutto logistiche, connesse con la ricezione, l’alloggio, il sostentamento e il rimpatrio di decine di migliaia di persone.

Da almeno dieci anni, l’intero sistema di gestione dell’emergenza del JRCC viene annualmente verificato e sottoposto a stress test nel corso delle esercitazioni multinazionali della serie ARGONAUT dove rappresentanti dei ministeri degli affari esteri e dei comandi militari designati per effettuare le evacuazioni dei diciotto paesi appartenenti al Non-Combatant Evacuation Coordination Group (NEOCG), Italia inclusa, agiscono nell’ambito di scenari simulati che, riproposti e aggiornati annualmente, ricreano fedelmente le condizioni e gli avvenimenti da gestire durante la crisi.

 

Ognuno ha il suo piano

L’evacuazione di connazionali da Paesi stranieri viene decisa dal Capo della missione diplomatica presente nel paese ospitante. In relazione alla condizione di sicurezza, la missione diplomatica può richiedere l‘intervento di una forza militare per la conduzione di un’operazione militare, tesa a trasferire in un luogo sicuro il personale avente titolo che ha chiesto/accettato di essere evacuato. In Italia, l’operazione militare viene pianificata e condotta dal Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI) di Roma, per il tramite dell’Italian Joint Force Headquarters, in coordinamento con il Ministero degli Affari Esteri – Unità di Crisi (MAE-UC).

Nel caso del Libano, tenuto conto dei precedenti appena illustrati è evidente che il ricorso all’utilizzo dello strumento militare è inevitabile anche perché a parte la disponibilità dei vettori aerei e navali per compiere la missione, lo scenario ostile che si presenterebbe dove il governo locale potrebbe anche aver perso il controllo del Paese, presenterebbe una grave minaccia per il personale da evacuare. Si pensi, ad esempio, alla sicurezza degli itinerari che dai punti di raccolta dislocati su tutto il territorio adducono alle località designate per l’evacuazione.

Il problema è che ognuna delle diciotto nazioni del NEOCG, che non comprende tutti i paesi eventualmente interessati a condurre un’operazione di questo tipo, appronta un proprio piano da eseguire che nonostante i tentativi di deconfliction operati nell’ambito del gruppo che è stato istituito a suo tempo proprio per questo scopo, obbedirà a considerazioni di sicurezza esclusivamente nazionale.

Le operazioni di evacuazione hanno una forte connotazione internazionale, ma rimangono risposte essenzialmente nazionali, e in Libano difficilmente vedremo un paese assumere un ruolo di coordinamento e di leadership come avvenuto a Kabul con gli Stati Uniti che non hanno certamente brillato da questo punto di vista.

E poi anche le agenzie delle Nazioni Unite, l’Unione Europea con la sua delegazione, le organizzazioni non governative, le stesse rappresentanze diplomatiche hanno approntato il proprio piano l’esecuzione del quale non può non avere ripercussioni su quello del “vicino”. Per tutti questi motivi la pianificazione dell’operazione di evacuazione di connazionali dal Libano è forse la più complessa da predisporre. Per questo viene dedicato molto tempo per analizzare lo scenario, acquisire i dettagli di chi è disposto a condividere le proprie linee d’azione e predisporre quindi le proprie.

La conoscenza di quello che i propri compagni di viaggio faranno è già un ottimo risultato che si può e si deve conseguire, e può aiutare ad evitare o prevenire le situazioni più pericolose. Si tratta però di una condizione necessaria, ma non sufficiente e la complessità dello scenario non permette di fare di più. La professionalità del personale designato per agire nel contesto delineato è indiscutibile e siamo certamente in buone mani, ma auguriamoci di non doverla mai mettere alla prova dei fatti.

Immagini: The New Humanitarian, Difesa.it. Geology.com e IDF

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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