Operazione Aspides: lo “scudo” europeo nel Mar Rosso  

 

L’Unione Europea si appresta a varare l’Operazione Aspis (“scudo” in greco) che vedrà alcune unità navali pattugliare l’imboccatura meridionale del Mar Rosso tra il Golfo di Aden e lo Stretto di Bab el Mandeb per proteggere i mercantili in transito dalla minaccia di missili e droni lanciato dalle milizie Houthi che dalla fine di novembre dello scorso anno minacciano il traffico marittimo commerciale diretto in Israele o facente riferimento ad armatori e interessi israeliani.

Una minaccia estesa dal 12 gennaio alle navi militari e commerciali britanniche e statunitensi, considerati obiettivi legittimi dalle milizie Houthi in seguito alle quattro ondate di attacchi condotti dalle armi di aerei e navi anglo-americani contro postazioni Houthi sul territorio dello Yemen.

“Abbiamo concordato in principio di istituire un’operazione di sicurezza marittima dell’Ue. Abbiamo discusso delle varie opzioni di questa missione che io ho proposto agli Stati membri. Adesso dobbiamo andare verso l’unanimità per vedere quando potremo mettere in piedi questa missione” ha dichiarato il 22 gennaio l’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera, Josep Borrell.

L’Italia ha ricevuto “molti appoggi da parte dei Paesi Ue, anche Borrell si è detto assolutamente favorevole e si è impegnato a far sì che la proposta dell’Italia possa essere quanto prima approvata” ha detto lo stesso giorno il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, a margine del Consiglio Ue Affari Esteri a Bruxelles, sulla proposta di una missione navale Ue che l’Italia ha presentato insieme a Francia e Germania.

“Ora ci sono i comitati tecnici che dovranno studiare tutti gli aspetti tecnici e le regole d’ingaggio” ha detto Tajani aggiungendo che Borrell “ha assicurato che si cercherà di fare più in fretta possibile”.

Il ministro e vicepremier italiano ha sottolineato che la missione europea nel Mar Rosso non prevede attacchi in territorio yemenita. Aspis “non prevede attacchi in territorio yemenita però ci sarà una protezione militare molto forte, determinata, e mi auguro con tutti gli strumenti necessari per abbattere missili e droni, quindi per colpire gli attacchi” degli Houthi.

“Naturalmente, anche per colpire via mare tutti coloro che attaccano”, ha aggiunto. “Quindi una difesa rinforzata dei mercantili, per il momento senza partecipazione” ad attacchi in territorio yemenita, “perché in quel caso servirebbe un’ulteriore voto del Parlamento”, ha poi specificato.

“Credo che la nuova missione possa essere un passo in avanti verso una vera difesa europea. Non si può essere presenti nel mondo e nel Medio Oriente e fare politica estera se non si ha una vera politica di difesa europea e uno strumento di politica di difesa”. Il 23 gennaio ancora Tajani si è augurato che “entro la prima metà di febbraio possa partire l’operazione sottolineando che la nostra missione “non sarà assolutamente contro l’Iran ma per proteggere dagli attacchi degli Houthi”.

L’ipotesi più accreditata è che una nave della Marina Militare italiana partecipi alla nuova missione nel Mar Rosso ora in fase di pianificazione ma che potrebbe dispiegarsi entro metà febbraio tenuto conto che due fregate tipo FREMM, una italiana (Martinengo) e una francese (Languedoc) sono già nell’area di operazioni sotto comando nazionale.

La FREMM Martinengo dall’8 febbraio assumerà l’incarico di ammiraglia dell’Operazione europea Atalanta che si sviluppa da anni nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano per contrastare la pirateria somala. Dall’Italia potrebbe quindi venire inviata un’altra FREMM (secondo alcune voci la Bergamini o il cacciatorpediniere Caio Duilio classe Orizzonte.

 

Missione Ue o francese?

I dettagli sul contributo dei singoli Paesi alla nuova missione verranno definiti a fine gennaio a Bruxelles, dove è in programma una riunione dei ministri della Difesa Ue, ma sembra tramontata l’idea di aggregare i compiti dell’Operazione Aspis a quelli dell’Operazione Atalanta mentre appare più probabile che la nuova missione si innesti sull’Operazione Agenor nello Stretto di Hormuz, nata sull’iniziativa francese European-led Maritime Awareness in the Strait of Hormuz (EMASoH), operazione multinazionale varata il 20 gennaio 2020 per la sorveglianza dello Stretto di Hormuz volta ad assicurare la libertà di navigazione ed evitare possibili rischi a navi ed equipaggi in transito.

Ad Agenor, che non è una operazione della Ue ma è nata da un’iniziativa di Parigi che ne mantiene la guida, ha aderito anche l’Italia che ha fornito diverse navi negli ultimi anni assumendo anche il comando della forza in mare.

L’obiettivo di Agenor era garantire la sicurezza marittima nell’area del Golfo con un’operazione che si differenziasse da quella composta da navi USA, britanniche e australiane a guida statunitense, la Operation Sentinel, con fini analoghi ma attiva su un’area più vasta e più decisamente incentrata sul contrasto in mare all’Iran e ai suoi interessi.

Differenza non dissimile da quella che a quanto pare assumerà Aspis, tesa a proteggere le navi mercantili in transito anche abbattendo missili o droni ma che si differenzia dall’operazione anglo-americana Prosperity Guardian non intende attaccare gli Houthi né compiere attacchi contro il territorio yemenita nè minacciare l’Iran e i suoi interessi nell’a regione.

Se Aspis, missione della Ue, si innesterà sull’operazione a guida francese Agenor è possibile immaginare che Parigi ne abbia il comando anche per ragioni meramente pragmatiche. Il supporto logistico e aereo alla flotta Ue verrà garantito probabilmente dalle installazioni militari francesi nella vicinissima Gibuti, inclusa la base aerea che consente il rischieramento anche di aerei radar AWACS E-3A Sentry e aerei da sorveglianza, ricognizione e intelligence (ISR) Falcon 8X Archange dell’Armée de l’Air et de l’Espace.

Sulla stessa base potranno venire rischierati anche velivoli italiani con gli stessi compiti Gulfstream G550 CAEW e Super King Air 350 SIGINT, oppure droni MQ9 Reaper in dotazione sia alle forze aeree francesi che italiane.  Assetti basati a Gibuti in grado di mantenere una stretta sorveglianza anche sul vicino territorio e spazio aereo yemenita individuando eventuali missili rilevandone la traiettoria. Senza dimenticare che anche l’Italia ha una piccola base logistica a Gibuti, adibita soprattutto alla rotazione di reparti destinasti a operare con compiti di addestramento in Somalia e nella stessa Gibuti.

Sembra che per ora la forza navale di Aspis sarà composta solo da navi francesi, italiane e tedesche: il Portogallo ha annunciato che parteciperà alla missione, come ha dichiarato il ministro degli Esteri Joao Gomes Cravinho che ha negato vi sarà la presenza di navi lusitane ma solo “una sorta di partecipazione da parte nostra”.

Se non vi saranno altre adesioni significative in termini di navi e aerei (non di personale di staff da inserire nel quartier generale utile solo ad allungare la lista delle bandierine dei partecipanti alla missione) Aspis manterrà le caratteristiche di una missione a leadership francese che raccoglie l’adesione di altri partner europei più che di un’operazione targata UE.

Del resto Parigi da anni si pone da anni come promotore e acceleratore nella costituzione di forze congiunte europee con la European Intervention Initiative (EI2), proposta da Emmanuel Macron nel settembre 2017 e costituita a Parigi il 25 giugno 2018 al di fuori sia dagli ambiti NATO sia della PESCO (Cooperazione Strutturata Permanente nel settore della Difesa) prevista dai Trattati dell’Unione Europea e a cui ha aderito anche l’Italia.

 

Diritto e munizioni

Natalino Ronzitti, professore emerito di Diritto Internazionale all’università Luiss, in merito alla missione europea Aspis ha detto all’agenzia Adnkronos che “In una situazione di conflitto armato tra Stati, ovviamente i belligeranti hanno il diritto di visitare le navi mercantili neutrali per controllare se abbiano carichi di contrabbando di guerra, armi in sostanza. Ma la situazione attuale non è questa, non ci sono Stati belligeranti, ma si tratta di ribelli, gli Houthi, che non hanno alcun diritto di fermare o attaccare una nave. Questa è una missione contro la pirateria come ve ne sono altre in atto.

L’aspetto importante di queste missioni è come verrà impegnata la forza qualora si verifichino degli attacchi, vengano lanciati dei missili che attaccano navi mercantili: sono importanti a questo punto le regole d’ingaggio che si vogliono seguire e il coordinamento della missione”.

Il generale Vincenzo Camporini, già capo di stato maggiore di Aeronautica e Difesa, mette invece in guardia dal rischio che le navi europee dispongano di poche munizioni, soprattutto missili, per far fronte ad attacchi massicci.

La Francia sembra essere consapevole di tali rischi. Come ha ricordato Luca Peruzzi in un articolo pubblicato ieri da Analisi Difesa circa l’impiego di missili Aster dalla fregata Languedoc. “E’ interessante notare come il Ministero della Difesa francese, secondo quanto dichiarato da OCCAR, abbia organizzato un efficiente trasferimento da parte dell’Armée de l’Air e de l’Espace di munizioni Aster 15 dalla Francia continentale alla base aerea di Gibuti (BA 188) sfruttamento le capacità di carico e prontezza operativa dell’A400M, al fine di consentire all’unità schierata in zona d’operazioni di rimpiazzare i missili impiegati”.

 

Stabilizzazione o escalation?

Le Forze armate statunitensi hanno effettuato oggi due nuovi attacchi contro obiettivi delle milizie Houthi sul territorio dello Yemen, distruggendo due missili antinave pronti al lancio. Lo ha annunciato tramite una nota lo US Central Command (CENTCOM) precisando che gli attacchi sono stati sferrati nelle prime ore di oggi dopo una serie di raid contro obiettivi sul territorio dello Yemen cui ha preso parte anche il Regno Unito.

“Le forze Usa hanno identificato i missili in aree dello Yemen controllate dagli Houthi e hanno stabilito che presentassero una minaccia imminente per i vascelli mercantili e le navi della Marina Usa nella regione”, afferma la nota del CENTCOM secondo cui “le forze Usa hanno conseguentemente colpito e distrutto i missili in un atto di autodifesa”. Le Forze armate statunitensi hanno iniziato a colpire obiettivi degli Houthi sul territorio dello Yemen l’11 gennaio scorso, e da allora il Pentagono ha rivendicato la distruzione e il danneggiamento di 25 siti di lancio e stoccaggio e di diversi missili.

Gli Houthi hanno accusato il 23 gennaio Stati Uniti e Regno Unito di aver lanciato nelle ultime ore “18 attacchi aerei” contro il territorio yemenita, 12 dei quali hanno colpito Sana’a e l’area intorno alla capitale. “Questi attacchi non passeranno senza risposta, né impuniti”, ha minacciato un portavoce.

Nonostante i diversi raid condotti in meno di due settimane gli anglo-americani non sono riusciti a stabilizzare la situazione nell’area di crisi privando gli Houthi dei loro strumenti offensivi. “Ciò che abbiamo fatto ancora una volta è stato inviare il messaggio più chiaro possibile che continueremo a indebolire la loro capacità di effettuare questi attacchi”, ha detto il ministro degli Esteri britannico David Cameron alla BBC riferendo della nuova incursione di quattro aerei da combattimento Typhoon della Royal Air Force per “danneggiare ulteriormente” la capacità degli Houthi di effettuare attacchi alle navi che transitano nel Mar Rosso.

Il punto è proprio questo: distruggere gli arsenali degli Houthi consentirebbe di ristabilire la libertà di navigazione nel Mar Rosso mentre le incursioni che ne “indeboliscono” solamente le capacità generano invece un’escalation e quindi ulteriore destabilizzazione come dimostra l’ampliamento dei “bersagli legittimi” degli Houthi alle navi mercantili britanniche e statunitensi.

In questo contesto non tranquillizza la notizia che l’Amministrazione Biden stia definendo i piani per una campagna militare prolungata contro gli Houthi come scrive il Washington Post evidenziando che i raid non sono riusciti a fermare gli attacchi al traffico marittimo. Le fonti del WP esprimono il timore che un’operazione a tempo indefinito possa “far deragliare la fragile pace” nello Yemen e “trascinare” gli Stati Uniti in un “altro conflitto imprevedibile” anche perché non vi sono idee chiare per prevedere quando saranno seriamente intaccate le capacità militari degli Houthi.

Tra i funzionari americani sentiti dal giornale c’è chi teme che gli USA si siano spinti in un conflitto senza una exit strategy e con un sostegno limitato da parte dei principali alleati  poiché all’Operazione Prosperity Guardian non partecipano per ora navi alleate né occidentali (esclusa la gran Bretagna) né di nazioni arabe.

A Washington il senatore Jack Reed, presidente della commissione forze armate, si preoccupa per i costi elevati di una missione che richiede un ampio impiego di missili da difesa aerea, alcuni dei missili sinora impiegati costano due milioni di dollari ciascuno. E il senatore Richard Blumenthal non dimentica che gli Stati Uniti in passato hanno tentato di indebolire altri gruppi, come i Talebani, da oltre due anni di nuovo al potere in Afghanistan.

Gli Houthi, con un gesto propagandistico teso a ribadire contro chi è rivolta la minaccia, hanno annunciato che 64 navi hanno attraversato il Mar Rosso “in sicurezza”, dopo aver issato uno striscione “Non abbiamo nulla a che fare con Israele”. Lo ha scritto su ‘X’ Mohammed Ali al- Houthi del Consiglio Politico Supremo del movimento. “La soluzione più semplice per consentire alle navi di passare in sicurezza mentre transitano dal Mar Rosso è quella di mettere in mostra le parole ‘Non abbiamo nulla a che fare con Israele”.

 

Risvolti economici

La minaccia Houthi ha fatto crollare del 90% il traffico marittimo attraverso il Canale di Suez che vede il transito di quasi il 20% delle merci trasportate su mare nel Mondo, percentuale che sale al 30% se si contano solo le navi porta container. Sulla rotta più battuta, quella che va da Shangai a Rotterdam, i costi di trasporto per ogni singolo container sono lievitati fra i 5 e i 6 mila dollari a causa del prolungamento della navigazione richiesto dalla circumnavigazione dell’Africa, come riferisce uno rapporto del Centro studi di Unimpresa.

QatarEnergy ha lanciato oggi l’allarme perché la mancanza di sicurezza nel Mar Rosso potrebbe causare il ritardo delle consegne di gas naturale liquefatto (Gnl).  “Gli sviluppi in corso nella regione del Mar Rosso potrebbero avere un impatto sulla programmazione di alcune consegne, che prenderanno percorsi alternativi”, ha dichiarato la compagnia nazionale del Qatar in una nota. A metà gennaio, il primo ministro del Qatar, Mohammed ben Abdelrahmane Al-Thani, il cui Paese è uno dei maggiori produttori mondiali di Gnl, aveva dichiarato che i carichi di gas, “come tutti gli altri carichi mercantili”, sarebbero stati colpiti. Ha inoltre descritto la crisi nel Mar Rosso come “l’escalation più pericolosa” nella regione a causa del suo impatto sul commercio mondiale.

L’agenzia di stampa Bloomberg ha riferito che almeno cinque navi di Gnl gestite dal Qatar e dirette verso lo strategico stretto di Bab el-Mandeb, che separa la penisola araba dal Corno d’Africa, hanno dovuto fermarsi al largo delle coste dell’Oman.

La Banca Mondiale ha già fatto sapere che l’interruzione di rotte marittime chiave sta “erodendo la flessibilità’ delle reti di approvvigionamento e aumentando la probabilità di strozzature inflazionistiche”. Nelle ultime settimane, il pericolo per l’equipaggio, il carico e le navi hanno costretto i vettori a dirottare le navi intorno al Capo di Buona Speranza in Sudafrica, con conseguenti ritardi fino a tre settimane. Vincent Clerc, amministratore delegato di Maersk che rappresenta una delle 10 maggiori compagnie di navigazione container, ha dichiarato al Financial Times che per ristabilire un passaggio sicuro attraverso il Mar Rosso potrebbero volerci “mesi”.

L’istituto Kiel ha quantificato come il commercio globale abbia registrato tra novembre e dicembre una battuta d’arresto dell’1,3% oltre all’aumento dei costi di spedizione. Secondo gli economisti Simon MacAdam e Lily Millard, “una marcata escalation del conflitto militare sottostante potrebbe far aumentare i prezzi dell’energia, che si ripercuoterebbero sui consumatori”.

Oxford Economics ritiene invece che se i costi di trasporto dei container si mantengono sui livelli attuali, quasi il doppio rispetto all’inizio di dicembre, l’inflazione mondiale potrebbe aumentare di circa 0,6 punti percentuali. A ben guardare l’impatto della crisi nel Mar Rosso colpisce circa l’11% del commercio globale ma si concentra sulle rotte di trasporto Asia-Europa e sono soprattutto i Paesi europei a risentirne maggiormente e tra questi quelli Mediterranei, in parte svuotati dal crollo del traffico via Suez. Un quarto delle importazioni europee dall’Asia viaggia via mare e l’industria europea è molto dipendente dai componenti importati.

 

Considerazioni

In questo contesto l’Operazione Aspis, se riuscirà a dispiegarsi in tempi ragionevoli e ad avere le dimensioni e le capacità militari necessarie a proteggere il traffico mercantile, potrà ridare all’Europa, o a una coalizione europea, un ruolo distinto e autonomo dall’egemonia anglo-americana. Gli europei, già economicamente e militarmente provati dal conflitto in Ucraina, non hanno alcun interesse a farsi coinvolgere in una guerra in Medio Oriente anche in considerazione del fatto che le iniziative militari anglo-americane, dall’Iraq all’Ucraina al Mar Rosso, hanno il brutto difetto di influire pesantemente e su molti fronti in modo negativo sull’economia e la sicurezza dell’Europa.

Ancora una volta semmai, da un’Europa militarmente debole e disunita, sarebbe lecito aspettarsi qualche robusta iniziativa diplomatica tesa quanto meno a cercare di ottenere dagli Houthi garanzie circa il transito dei mercantili europei e dei flussi commerciali strategici per la nostra economia dallo Stretto del Bab el-Mandeb. Un risultato da ricercare attraverso un negoziato con gli Houthi (e del resto si negozia proprio con “nemici” o controparti) ma che non risulta essere mai stato avviato. Qualcuno è mai andato a Sana’a a parlare con gli Houthi?

Affermare che essi non rappresentano uno stato ma una milizia ribelle con cui non è lecito negoziare è una scusa che non regge: Israele ha negoziato e negozia con Hamas e Hezbollah, Londra negoziò con l’IRA, gli Stati Uniti hanno negoziato e fatto accordi con i talebani e l’Arabia Saudita sta chiudendo un accordo di pace proprio con gli Houthi per far cessare il conflitto yemenita.

Se Riad e prima ancora gli Emirati Arabi Uniti hanno negoziato la fine degli attacchi Houthi con missili e droni sui loro porti, aeroporti e raffinerie, la Ue non può provare a imbastire un dialogo per ottenere il via libera per le navi dirette nei suoi porti?

Borrell, che non risparmia critiche al governo israeliano per la battaglia di Gaza potrebbe avere buoni argomenti con cui dialogare con gli Houthi, strenui difensori della causa palestinese, o inviare qualche alto funzionario della UE a farlo. Del resto, proprio l’anno scorso, la Commissione Europea ha nominato un inviato speciale per il Golfo Persico: Luigi Di Maio.

@GianandreaGaian

Foto: US DoD, UK MoD, Marine Nationale, Marina Militare, BBC, Maersk, Luca Gabella, Ansar Allah

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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