Con i raid non risolutivi gli USA (e l’Occidente) si stanno giocando il Medio Oriente

 

Tra il 3 e il 4 febbraio le forze aeree e navali statunitensi hanno colpito quasi un centinaio di obiettivi dei pasdaran iraniani, delle Forze di Mobilitazione Popolare (MUP) e di altre milizie scite affiliate all’Iran nei territori di Iraq e Siria oltre a 36 postazioni delle milizie yemenite Houthi, questi ultimi in cooperazione con le forze aeree britanniche.

Un’escalation che costituisce da un lato la risposta agli attacchi dei droni delle milizie scite alle basi statunitensi in Siria e in particolare a quella di al-Tanf, al confine tra Siria e Giordania, in cui sono stati uccisi a fine gennaio sono 3 militari statunitensi e altri 40 sono rimasti ferito e dall’altro la risposta ai missili e ai droni lanciati dagli Houthi contro un mercantile e una nave militare statunitense nel Mar Rosso.

Il Central Command, responsabile delle operazioni americane in Medio Oriente, ha reso noto che gli obiettivi sono stati colpiti da raid aerei che hanno visto anche l’impiego di bombardieri a lungo raggio decollati dagli USA con l’impiego di 125 missili e bombe di precisione contro centri di comando e controllo e intelligence, depositi di razzi, missili e droni oltre a strutture logistiche dei pasdaran e delle milizie scite in Iraq e Siria mentre contro i 36 obiettivi colpiti nello Yemen sono stati impiegati missili Tomahawk lanciati dalle navi americane e bombe guidate sganciate dai velivoli britannici Typhoon decollati dalla base di Akrotiry a Cipro.

“Oggi è cominciata la nostra risposta” ha dichiarato il 3 febbraio il presidente Joe Biden aggiungendo che “continuerà nel momento e nel luogo prescelti. Gli Stati Uniti non sono alla ricerca di guerre in Medio Oriente o in nessun’altra parte del mondo. Ma che sappiano tutti coloro che potrebbero farci del male: se farete del male agli americani, noi risponderemo”.

Oltre a inviare un messaggio alle milizie filo-iraniane e alla Guardia rivoluzionaria iraniana (IRGC o Pasdaran), ha spiegato in un incontro con i giornalisti il portavoce del Consiglio di sicurezza John Kirby, i raid mirano a “indebolire la loro capacità militare in modo più vigoroso”. Kirby ha aggiunto che gli obiettivi bombardati sono stati “scelti con cura” per evitare vittime civili, colpiti nell’arco di 30 minuti e che gli Stati Uniti hanno “prove inconfutabili” che fossero collegati ad attacchi contro il personale americano nella regione; sottolineando inoltre gli Stati Uniti avevano precedentemente informato il governo iracheno.

Peraltro, da quanto riportato dal Washington Post che ha sentito un funzionario del Pentagono, l’attacco del 28 gennaio alla base di al-Tanf avrebbe preso di mira la Torre 22 in territorio priva di sistema di difesa aerea anti-drone disponendo solo di sistemi per la guerra elettronica per contrastare tale minaccia. Un aspetto che aumenterà le polemiche negli USA dove la campagna elettorale aumenta la sensibilità dell’opinione pubblica per le perdite militari, specie in teatri operativi lontani e di cui è difficile riconoscere la necessità di mantenervi forze operative.

Ad aumentare l’esposizione di Washington nei confronti di un mondo arabo sempre più irritato, il 3 febbraio un alto responsabile americano ha riferito alla CNN che la Giordania sta partecipando all’operazione statunitense contro obiettivi sostenuti dall’Iran. L’attacco di droni che ha ucciso i 3 militari statunitensi ha centrato la Tower 22, postazione situata pochi metri all’interno del territorio giordano benché faccia parte della base militare americana situata in territorio siriano. Sebbene non vi siano state vittime giordane, il ministro delle Comunicazioni Muhannad Moubaideen aveva descritto l’attacco come “terroristico”.

Come contro gli Houthi, Washington ha ammesso che gli attacchi in Iraq e Siria non hanno neutralizzato le capacità militari delle milizie scite ma solo “indebolito” e per questo il “successo” annunciato può definirsi limitato in termini militari mentre le conseguenze politiche minacciano di risultare molto gravi per gli USA come e per gli alleati europei.

 

La reazione dell’Iraq

Baghdad e Amman hanno infatti smentito le dichiarazioni statunitensi. Il governo iracheno ha negato di essere stato informato preventivamente dei raid da Washington e ha condannato l’ennesima violazione della sua sovranità e integrità territoriale, verificatasi proprio mentre funzionari iracheni e statunitensi stanno discutendo l’uscita dalla nazione araba di tutte le forze americane e della Coalizione anti ISIS che l’Iraq ha annunciato di non voler più ospitare.

Dopo gli ultimi raid il portavoce del quartier generale delle forze armate irachene, generale Yahya Rasul Abdullah, ha dichiarato che “le città di Al-Qaim e le zone di confine irachene sono state prese di mira dai raid aerei statunitensi, in un momento in cui l’Iraq sta cercando di garantire stabilità nella regione. Questi attacchi rappresentano una violazione della sovranità irachena” e causeranno “un indebolimento degli sforzi del governo iracheno, e rappresenteranno una minaccia che trascinerà l’Iraq e la regione verso conseguenze indesiderabili e disastrose per la sicurezza e la stabilità”.

La commissione per la sicurezza e la difesa del parlamento iracheno ha invitato il governo di Baghdad a firmare rapidamente un accordo sul ritiro delle truppe della coalizione internazionale dal Paese, “Il Comitato invita il governo iracheno ad assumersi la responsabilità di proteggere i combattenti delle Forze di Mobilitazione Popolare, una delle formazioni delle forze armate irachene, presentando una denuncia formale al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, ha affermato il comitato in una dichiarazione chiedendo al governo di “accelerare il processo per raggiungere un accordo sul ritiro delle truppe americane e della coalizione internazionale dall’Iraq. La loro presenza in Iraq destabilizza la situazione”.

Mentre si appresta a cacciare americani e alleati, l’Iraq del resto sembra voler ridefinire la sicurezza dei propri confini settentrionali rafforzando la cooperazione con ile nazioni confinanti. Dopo le intese del luglio 2023 tra Baghdad e Damasco per combattere insieme le milizie jihadiste (alleanza benedetta dall’Iran e sostenuta dalle milizie scite) oggi il ministro dell’Interno dell’Iraq, Abdul Amri al Shimmari, ha incontrato il ministro della Difesa della Turchia, Yasar Guler, per discutere del rafforzamento congiunto della sicurezza al confine e delle relazioni bilaterali.

Al Shimmari ha espresso la speranza che “ci saranno molte intese tra i due paesi a beneficio degli interessi comuni e per rafforzare i legami di cooperazione nei campi della sicurezza”. Il ministro della Difesa turco, da parte sua, ha elogiato “i grandi sforzi compiuti dal ministero dell’Interno iracheno per combattere la droga e la criminalità organizzata, nonché per rafforzare la sicurezza e la stabilità in varie regioni dell’Iraq”.

 

La smentita giordana

Netta e secca la risposta giunta da Amman alle indiscrezioni sul ruolo militare giordano nei raid contro le milizie scite in Iraq.. Il Comando generale delle forze armate giordane ha negato il coinvolgimento nei recenti attacchi aerei condotti dagli Stati Uniti in Iraq. “L’Aeronautica giordana non ha partecipato agli attacchi aerei effettuati dalle forze aeree americane nei territori iracheni”, ha riferito la tv Al Mamlaka, citando una fonte militare ufficiale del Comando generale. Anche l’agenzia di stampa statale giordana Petra ha citato una fonte militare che ha smentito le notizie secondo cui la Giordania avrebbe partecipato ad attacchi aerei sull’Iraq etichettandole come “non vere”. Dana Zureikat Daoud, portavoce dell’ambasciata giordana a Washington, ha scritto su X che la dichiarazione confuta le notizie riportate dai media di un coinvolgimento di aerei giordani nelle operazioni delle forze statunitensi.

La smentita giordana affidata a fonti esclusivamente militari può essere interpretata come un avvertimento del governo di Amman agli Stati Uniti di non provare a coinvolgere il regno hashemita nelle loro operazioni militari. Uno dei maggiori limiti di tutte le operazioni militari americane e anglo-americane dallo Yemen alla Siria e all’Iraq è costituito dal fatto che sono unilaterali poiché nessuna nazione araba, neppure quelle considerate alleate degli USA, ha accettato di unirsi ai raid contro le milizie scite filo-iraniane o anche solo di sostenerli politicamente.

 

La risposta siriana

Durissima anche la risposta di Damasco. Il ministero della Difesa siriano ha riferito in una dichiarazione che “le forze di occupazione americane hanno lanciato attacchi aerei su una serie di siti e città nella regione orientale della Siria, vicino al confine siriano-iracheno, che hanno provocato la morte di numerosi civili e soldati, il ferimento di altri provocando ingenti danni a beni pubblici e privati. L’area presa di mira dagli attacchi aerei americani nella Siria orientale è la stessa area in cui l’Esercito arabo siriano sta combattendo i resti dell’organizzazione terroristica ISIS.

Ciò conferma che gli Stati Uniti e le loro forze militari sono coinvolti e alleati con questa organizzazione, e stanno lavorando per rilanciarla come braccio militare, sia in Siria che in Iraq, con tutti i mezzi più sporchi.  L’occupazione di parti del territorio siriano da parte delle forze americane non può continuare”.

Che il governo di Bashar Assad accusi gli USA di sostenere l’ISIS non stupisce ma occorre ricordare che mentre la presenza militare di americani e alleati europei (spagnoli, italiani e altri) in Iraq è legittimata da un accordo che risale al 2014 e che Baghdad ora intende cancellare, la presenza americana in Siria è del tutto priva di copertura giuridica e i 900/1.000 militari schierati in tre avamposti nell’est e nella base di al-Tanf nel sud sono a tutti gli effetti aggressori e occupanti.

Il governo di Damasco guidato da Bashar Assad può non piacere all’Occidente, soprattutto perché alleato storico della Russia, ma è legittimo e riconosciuto è non ha mai invitato (a differenza di quello iracheno) truppe statunitensi a permanere sul suo territorio.  Inoltre nessuna risoluzione dell’ONU ha mai autorizzato Stati Uniti o altre nazioni a schierare truppe in Siria o a colpire obiettivi militari in Siria come peraltro continua a fare anche Israele.

Non a caso quando gli americani varcarono i confini giordani e iracheni penetrando in Siria con truppe terrestri e incursioni aeree sotto la bandiera della Coalizione anti-ISIS (Operazione Inherent Resolve) nessuno degli stati aderenti accettò di inviare proprie truppe sul territorio siriano proprio perché mancava una copertura giuridica internazionale.

 

Valutazioni

I raid americani non hanno la possibilità di stabilizzare la situazione eliminando la minaccia, né quella terrestre delle milizie scite in Iraq e Soria né quella navale degli Houthi. Determinano invece una pericolosa escalation in tutta la regione incrementando la destabilizzazione e stanno mettendo in pericolo anche i contingenti alleati schierati in Iraq.

Peraltro l’escalation potrebbe non giocare a favore di Washington tenuto conto che ulteriori perdite tra i militari americani avrebbero un impatto molto negativo sull’opinione pubblica statunitense sia in vista delle elezioni presidenziali del 5 novembre sia alla luce dei tanti problemi interni percepiti negli USA come emergenze prioritarie.

La volontà annunciata da Washington di continuare a colpire in Iraq, Siria e Yemen rischia di determinare una forte reazione in tutto il mondo arabo che potrebbe portare alla fine della presenza militare statunitense in quella regione. La “cacciata” della Coalizione dall’Iraq coinvolgerà inevitabilmente anche i contingenti europei non coinvolti in azioni belliche contro le milizie scite, come quello italiano o spagnolo che schierano piccoli contingenti non autonomi sul piano logistico. Come con il ritiro dall’Afghanistan, le iniziative statunitensi condizionano pesantemente anche quelle degli alleati europei e indeboliscono gli alleati locali.

Il ritiro della Coalizione dall’Iraq impedirà agli americani di sostenere e alimentare gli avamposti situati in Siria Orientale mentre potrebbe risultare politicamente difficile per la Giordania continuare a permettere alle forze americane di operare in territorio siriano ad al-Tanf, specie ora che sauditi, emiratini e tutte le monarchie del Golfo hanno riallacciato i rapporti con Bashar Assad e accolto nuovamente, il 7 maggio 2023, la Repubblica Araba di Siria nella Lega Araba, dopo 12 anni di sospensione.

Gli attacchi unilaterali contro i territori di tre nazioni arabe rischiano quindi di accentuare il distacco da USA ed Europa, percepita da molti come non come un’entità geopolitica autonoma ma come “scudiera” degli Stati Uniti.  Lo dimostrano anche i reiterati attacchi turchi contro le Unità di Protezione Popolare (YPG), milizie curde aderenti alle Forze Democratiche Siriane, organizzazione sostenuta dagli Stati Uniti che verrebbero abbandonate al loro destino qualora le truppe statunitensi fossero costrette a ritirarsi.

La risolutezza cin cui le monarchie sunnite del Golfo hanno risposto negativamente alla richiesta di Washington di aderire alle operazioni contro le milizie scite indica un’irritazione palese per l’ennesima azione militare anglo-americana contro nazioni arabe (dopo lil disastroso attacco all’Iraq del marzo 2003) che si aggiunge al fastidio per il sostegno diffuso di quasi tutti i governi occidentali a Israele: elementi che potrebbero in prospettiva mettere in forse anche la presenza delle basi USA in Qatar, Bahrein, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti.

Inutile aggiungere che il ritiro americano da Iraq e Siria ed eventualmente anche dal Golfo Persico costituirebbe un successo senza precedenti in termini strategici, economici e politici per Iran, Cina, Russia e Turchia.

Il 5 febbraio il consigliere USA per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha ribadito la volontà di condurre ulteriori attacchi ma questa escalation, oltre a non avere effetti militari risolutivi, rischia di risultare politicamente contro producente per tutto l’Occidente rendendolo ancor più inviso a tutto il mondo arabo, questa volta senza distinzioni tra sciti e sunniti.

@GianandreaGaian

Foto US Army e SANA

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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