Da Israele un blando attacco all’Iran ma la vera sfida è con l’Occidente

 

La contro-rappresaglia israeliana per i raid con droni e missili di Teheran che avevano colpito la base aerea di Nevatim e installazioni militari nel Golan alla fine ha avuto luogo la notte del 19 aprile a quanto sembra con un raid limitato all’impiego di 3 UAV a lungo raggio armati con altrettanti missili lanciati contro una installazione radar della difesa aerea iraniana a Isfahan, nell’Iran centrale.

Lo ha detto una fonte governativa statunitense alla emittente televisiva ABC parlando di “attacco limitato” aggiungendo che il radar faceva parte della struttura di difesa posta a protezione dell’installazione per la ricerca nucleare di Natanz, programma che secondo diversi osservatori avrebbe potuto essere nel mirino di Israele col rischio di scatenare una ulteriore massiccia risposta iraniana.

Secondo la fonte della ABC “Israele intendeva far capire all’Iran di avere queste capacità” anche se i tre UAV con la stella di David sembra siano stati abbattuti dalla difesa aerea iraniana: al tempo stesso il governo israeliano ha eseguito la rappresaglia che Stati Uniti ed europei avevano cercato di scongiurare per evitare ulteriori escalation ma l’ha effettuata in modo quasi simbolico senza probabilmente scatenare ulteriori risposte dall’Iran.

Israele del resto non intendeva rinunciare al “diritto di replica” (il 18 aprile il ministro della Difesa Yoav Galant aveva detto “Israele deve sapere che ha libertà di azione per fare ciò che vuole, e c’è la garanzia che ciò che è deciso venga anche attuato”) pur senza provocare troppi danni all’Iran e soprattutto senza irritare troppo gli alleati occidentali.  Funzionari statunitensi avevano infatti negato il 18 aprile che l’amministrazione Biden avesse dato il via libera a un’operazione terrestre israeliana a Rafah, ultimo baluardo di Hamas nella Striscia di Gaza se Israele avesse rinunciato a colpire l’Iran.

Le azioni militari condotte a distanza di pochi giorni hanno visto per la pima volta Iran e Israele colpire direttamente i rispettivi territori anche se resta da chiarire la paternità del raid che ha colpito ieri la base di Calso, nell’Iraq centrale, che ospita truppe dell’esercito e milizie scite filo-iraniane delle Forze di Mobilitazione Popolare (MUP) integrate nelle forze regolari irachene che ha provocato “un morto e otto feriti” circa il quale il Comando Centrale statunitense (US CENTCOM) ha negato ogni coinvolgimento.

Teheran sembra disposta a chiudere qui lo scontro, almeno per il momento. Dopo aver minacciato di colpire i siti nucleari israeliani nel caso le forze dello Stato ebraico avessero attaccato i siti nucleari iraniani, Teheran ha fatto sapere ieri, dopo l’attacco alla base delle MUP in Iraq, che “se Israele vuole fare un altro avventurismo e agire contro gli interessi dell’Iran, la prossima risposta sarà immediata e al massimo livello”, come ha dichiarato oggi il ministro degli esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian.

Al di là delle valutazioni militari circa le capacità o meno reciproche di infliggersi danni considerevoli, Israele deve trarre un bilancio politico dalle vicende che hanno fatto seguito all’attacco contro la sede diplomatica iraniana a Damasco a inizio aprile.

Secondo il New York Times in quel raid in cui venne ucciso il generale delle Guardie della Rivoluzione Mohammed Reza Zahedi e altri 7 ufficiali, gli israeliani avevano calcolato male la riposta di Teheran. Citando documenti interni israeliani, il NYT rivela che lo Stato ebraico si aspettava come risposta della Repubblica islamica solo attacchi su piccola scala da parte sua o dei suoi alleati regionali.

Il gabinetto di guerra israeliano aveva approvato l’operazione il 22 marzo ma gli USA sarebbero stati informati solo “pochi istanti” prima dell’attacco, avvenuto il primo aprile. Circostanza che ha irritato Washington: il segretario alla Difesa Lloyd Austin il 3 aprile avrebbe lamentato al ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che l’attacco aveva messo in pericolo le truppe statunitensi.

Come ha riferito il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto, gli Stati Uniti avevano fatto pressioni affinché il Gabinetto di guerra israeliano decidesse di non colpire il territorio dell’Iran ma optasse per indirizzare la rappresaglia su “obiettivi tattici” come le basi dei pasdaran o le milizie filo-iraniane in Libano, Iraq, Yemen o Siria.

L’impressione è quindi che sia fallito il tentativo israeliano di coinvolgere direttamente l’Iran nel conflitto per conservare e rafforzare quell’indispensabile supporto politico e militare di USA e Occidente che sembra invece scemare progressivamente.  Israele sembra comunque aver incassato il successo di indurre il Congresso statunitense a velocizzare la discussione dei provvedimenti di approvazione di ulteriori stanziamenti e aiuti militari allo Stato ebraico. Inoltre il Pentagono ha reso noto che i rinforzi aerei e navali trasferiti in Medio Oriente per proteggere Israele dall’attacco dell’Iran rimangono nella regione.

Un ufficiale dell’aeronautica israeliana ha dichiarato che la Giordania ha consentito agli aerei da combattimento israeliani di entrare nel suo spazio aereo per abbattere missili e droni lanciati dall’Iran, con il coordinamento statunitense. Elemento che ha indotto Teheran ad ammonire Amman che a sua volta ha riportato l’attenzione su Gaza.

Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha confermato che Amman ha assistito Israele nell’intercettazione dei droni ma ha invitato a non distogliere l’attenzione dalla questione di Gaza e Cisgiordania. “Qualunque oggetto entri nei nostri cieli, violi il nostro spazio aereo, qualunque oggetto che riteniamo rappresenti un pericolo per la Giordania, faremo tutto ciò che è in nostro potere per porre fine a quella minaccia ed è quello che abbiamo fatto”, ha detto il ministro alla CNN.

“Quello che è successo è un segno di quanto la situazione possa peggiorare pericolosamente se non si affronta la causa di tutta questa tensione” e “dobbiamo rimanere concentrati: il problema non è l’Iran ma l’aggressione israeliana di Gaza e l’illegalità in Cisgiordania, questo deve finire”, ha ammonito Safadi.

Israele “sta cercando di distogliere l’opinione pubblica mondiale dai crimini commessi a Gaza rendendo la situazione tesa” con l’Iran ha affermato nei giorni scorsi l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani, in una telefonata con il presidente iraniano Ebrahim Raisi.

La sensazione che Benyamin Netanyahu debba puntare a mantenere alta la tensione con l’Iran sembra farsi strada anche nell’opposizione israeliana il cui leader  Yair Lapid aveva chiesto nei giorni scorsi ai ministri del governo di unità nazionale Benny Gantz e Gadi Eisenkot di contribuire a far cadere il Governo Netanyahu, promettendo loro che avrebbero maggiore influenza in una nuova coalizione.

“Formeremo un nuovo governo e questo governo avrà molta più influenza, Benny Gantz potrebbe essere primo ministro e non c’è cittadino che non sarebbe contento di avere Gadi Eisenkot come ministro della Difesa”, ha detto Lapid riferendosi all’altro esponente dell’opposizione, anche lui ex capo dello stato maggiore, che ha accettato dopo gli attacchi di Hamas di sostenere il governo di Netanyahu.

In realtà neppure l’uscita dal governo del Partito di Unità Nazionale di Gantz e Eizenkot metterebbe in minoranza l’esecutivo Netanyahu che ha respinto l’appello di Gantz a indire nuove elezioni a settembre. Il motivo non sembra essere solo il conflitto in corso ma anche i sondaggi che indicano come circa il 70 per cento del campione di israeliani intervistati vogliono le dimissioni di Netanyahu e circa il 50 per cento chiede elezioni anticipate.

Al di là degli sviluppi politici interni a Israele, strettamente legati a quelli bellici è difficile però ritenere che, dopo i fatti del 7 ottobre scorso, un altro primo ministro o un altro governo avrebbero fatto scelte diverse da quelle dell’attuale esecutivo guidato da Netanyahu, tenuto conto che la rinuncia alla distruzione militare di Hamas costituirebbe a tutti gli effetti una pesante sconfitta per Israele che in passato già due volte dovette fermare le operazioni nella Striscia contro Hamas sull’onda delle pressioni internazionali determinate dall’elevato numero di vittime civili.

Nei prossimi giorni sarà più chiaro se, rinunciando ad attacchi più incisivi contro l’Iran, il governo israeliano abbia ottenuto dagli USA quella mano libera per l’attacco a Rafah che finora Washington nega di aver concesso e che in ogni caso non sarebbe certo una passeggiata per le forze israeliane (IDF) che stanno impiegando tempi ben più lunghi (e perdite più elevate) del previsto per annientare le forze di Hamas che avrebbero in questi giorni approfittato del parziale ritiro israeliano dalla Striscia per riprende possesso di posizioni perdute.

Molti osservatori, citati anche da Foreign Policy, rilevano le difficoltà militari a gestire una dura campagna militare a Rafah, un prolungato scambio di attacchi con l’Iran e un secondo fronte con Hezbollah nel sud del Libano, anche in termini di munizioni il cui elevatissimo consumo (come nel conflitto in Ucraina) sta mettendo in crisi non solo le riserve delle IDF ma anche quelle ormai allo stremo delle potenze occidentali.

Quello legato alle munizioni del resto non appare l’unico limite emerso in Occidente nella gestione di un conflitto prolungato anche se sostenuto sul campo da combattenti di nazioni alleate quali Israele e Ucraina. L’impressione è che si sia persa di vista la concreta e brutale realtà della guerra e delle sue conseguenze. Gli esempi si sprecano e lasciano intendere come l’Occidente oggi navighi a vista rispetto a conflitti in cui almeno gli obiettivi finali dovrebbero essere chiari, definiti e perseguiti.

USA ed Europa applicano nuove sanzioni all’Iran, certo non risolutive “ma qualcosa andava fatto perché l’attacco dell’Iran non poteva restare senza risposta”, hanno fatto notare all’ANSA fonti diplomatiche britanniche a Capri per il summit del G7. Qualcosa andava pur fatto non sembra essere una definizione soddisfacente né determinata da una attentata pianificazione e valutazione dei rischi, soprattutto tenendo conto che sanzioni che puntino a colpire l’export energetico iraniano avrebbero, secondo diversi analisti economici, un impatto pesante sulle quotazioni energetiche con ripercussioni negative c he colpirebbero anche e forse soprattutto l’Europa.

Se davvero non abbiamo appreso nulla dall’effetto ottenuto con le sanzioni alla Russia, che avrebbero dovuto mettere in ginocchio economia e macchina bellica di Mosca (come sostenevano tra gli altri Ursula von der Leyen e Mario Draghi) mentre oggi l’economia della Federazione Russa cresce a buon ritmo mentre la nostra va in recessione e de-industrializzazione, allora abbiamo un grave problema di lucidità della nostra classe dirigente.

La questione è ancora più grave e urgente se si considera che dalle due sponde dell’Atlantico cresce la voglia di finanziare l’Ucraina utilizzando i beni russi congelati dopo l’inizio della guerra, opzione che pone seri dubbi di legalità e che potrebbe far fuggire rapidamente investitori internazionali e fondi sovrani (oggi tocca ai russi subire sanzioni, e congelamenti finanziari domani a chi?) con un ulteriore colpo mortale inferto alla nostra economia.

Il duello con droni e missili tra Israele e Iran ha inoltre offerto al presidente ucraino Volodymyr Zelensky l’opportunità di chiedere provocatoriamente perché francesi, britannici e statunitensi abbiano intercettato nello spazio aereo di nazioni terze oltre un quarto degli ordigni iraniani e non facciano la stessa cosa per difendere l’Ucraina, nazione che al pari di Israele non fa parte della NATO. La risposta, scontata, è legata al fatto che le potenze occidentali temono meno l’Iran della Russia ma la domanda che invece dovremmo porci è un’altra: cosa accadrebbe se russi e cinesi intercettassero droni e missili israeliani o statunitensi diretti a colpire l’Iran?

D’altra parte la sfida aperta è in realtà tra Israele e gli alleati euro-americani con questi ultimi che puntano a frenare l’offensiva delle IDF a Gaza che invece avevano sostenuto a spada tratta (senza neppure prendere in considerazione soluzioni diplomatiche alternative da sviluppare insieme alle altre potenze e alla Lega Araba) dopo i sanguinosi raid di Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre 2023. Qualcuno riteneva forse che combattere casa per casa con armi pesanti, aerei e droni da combattimento nell’area più densamente popolata del mondo avrebbe determinato pochi giorni di guerra e poche vittime civili?

L’idea che la guerra non abbia una durata legata agli obiettivi pianificati e da perseguire nei tempi spesso impossibili da prevedere che risulteranno necessari (Napoleone affermava che nessun piano sopravvive alla prima ora di battaglia) ma abbia invece una scadenza come una mozzarella, dimostra ben più dei limiti imposti dalla disponibilità di armi e munizioni tutta l’inadeguatezza e improvvisazione dell’Occidente di fronte alla gestione di conflitti che minacciano di compromettere pesantemente il nostro futuro.

@GianandreaGaian

Immagini: IRNA, Alberto Scafella e IDF

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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