Foreign Affairs è “putiniana” e i russi continuano a bombardarsi da soli

 

Nei giorni scorsi ha fatto scalpore, ma forse in Italia non abbastanza, l’articolo di Foreign Affairs in cui Samuel Charap e Sergey Radchenko hanno ricordato i punti salienti della trattativa tra Russia e Ucraina che grazie alla mediazione turca erano giunte a fine marzo del 2022 a un accordo per interrompere le ostilità dopo poco più di un mese di guerra.

Come ricorda Roberto Vivaldelli su InsideOver, il magazine americano ha dedicato, con tanto di documenti e testimonianze inedite, un lungo articolo ai negoziati. “Alcuni osservatori e funzionari (tra cui, soprattutto, il presidente russo Vladimir Putin) hanno affermato che sul tavolo c’era un accordo che avrebbe posto fine alla guerra, ma che gli ucraini se ne sono allontanati a causa di una combinazione di pressioni da parte dei loro protettori occidentali e delle supposizioni di Kiev sulla debolezza militare russa” nota Foreign Affairs ammettendo che “i partner occidentali di Kiev erano riluttanti a lasciarsi coinvolgere in un negoziato con la Russia”, in particolare “in un negoziato che avrebbe creato nuovi impegni per garantire la sicurezza dell’Ucraina”.

La bozza di accordo visionato da Foreign Affairs prevedeva un’Ucraina “neutrale e priva di armi nucleari”, che avrebbe rinunciato a “qualsiasi intenzione di aderire ad alleanze militari o di permettere la presenza di basi militari o truppe straniere sul proprio territorio”.

I possibili garanti della sicurezza ucraina sarebbero stati i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (inclusa quindi la Russia) insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia.

La bozza dell’accordo diceva anche che se l’Ucraina fosse stata attaccata e avesse richiesto assistenza, tutti gli Stati garanti sarebbero stati obbligati a fornire assistenza a Kiev a cui sarebbe stata concessa l’adesione all’Unione europea.

Nonostante le notizie sulla strage di Bucha che emersero all’inizio di aprile, i colloqui proseguirono fino alla bozza del 15 aprile, che faceva presagire il raggiungimento di un accordo entro due settimane, per poi sfumare. Secondo Vladimir Putin, su pressione dell’occidente, e in particolare di Boris Johnson, allora primo ministro britannico, il Regno Unito avrebbe imposto agli ucraini di continuare a combattere.

Foreign Affairs non condivide le valutazioni di Putin ma ammette che “la risposta occidentale  a questi negoziati è stata certamente tiepida. Washington e i suoi alleati erano profondamente scettici riguardo alle prospettive del percorso diplomatico che emergeva da Istanbul”.

Tuttavia, come ha raccontato il consigliere presidenziale ucraino Davyd Arakhamiia, “dopo il nostro ritorno da Istanbul, Boris Johnson visitò Kiev e ci disse che non avremmo dovuto firmare nulla con i russi e continuare a combattere” poiché “Putin è un criminale di guerra, va messo sotto pressione”. Tre giorni dopo Putin dichiarò che i colloqui con l’Ucraina erano improvvisamente finiti “in un vicolo cieco”. Qualcosa era evidentemente accaduto, come peraltro confermato anche da fonti governative a Kiev.

Abbiamo forse dimenticato che in quei giorni prese corpo lo slogan anglo-americano che la guerra doveva continuare perché avrebbe logorato la Russia?

Come rivelato dal Washington Post, anche il Dipartimento di Stato americano si oppose all’accordo dell’aprile 2022 con Mosca mentre in un’intervista alla televisione israeliana l’ex primo ministro Naftali Bennett ha confermato che gli Stati Uniti e il Regno Unito bloccarono l’accordo, tesi supportata anche dalla testimonianza dell’ambasciatore Oleksandr Chalyi, diplomatico ucraino presente ai negoziati in Turchia.

Chalyi, durante un evento pubblico a Ginevra, ha ricordato quanto Kiev e Mosca fossero “vicini” a porre fine “alla nostra guerra con una soluzione pacifica”. Putin, ha sottolineato, “ha cercato di fare tutto il possibile per concludere un accordo con l’Ucraina” e “voleva davvero raggiungere una soluzione pacifica”. E a Istanbul le due parti “sono riuscite a trovare un vero compromesso”.

Difficile accusare Foreign Affairs di essere “putiniana” ma va ricordato che gli elementi emersi in questi giorni e che hanno fatto tanto scalpore erano in realtà già ben noti all’epoca delle trattative, quando evidenziare le responsabilità anglo-americane nel far fallire le trattative e prolungare una guerra che si è rivelata devastante per i belligeranti ma anche per l’Europa significava venire etichettati come filo-russi.

Narrazione che oggi comincia a traballare ma che finora è stata pienamente assimilata dalla gran parte dei media in Italia e in Europa, come abbiamo in più occasioni evidenziato.

Difficile attribuire simpatie per il Cremlino anche al tedesco Die Welt che ha dedicato un ampio articolo al tema delle trattative mediate dalla Turchia pubblicando la bozza del documento ed evidenziando che vi erano ancora da risolvere le questioni riguardanti le dimensioni che avrebbero dovuto avere le forze armate ucraine dopo la firma dell’accordo: i russi chiedevano non più di 85mila militari con 342 tank, 519 pezzi d’artiglieria, 102 aerei da combattimento, 35 elicotteri e 2 navi militari maggiori mentre gli ucraini pretendevano di disporre di 250 mila militari con 800 carri armati, 1900 artiglierie, 160 aerei, 144 elicotteri e 8 navi.

Senza nulla togliere a Foreign Affairs e Die Welt, vale la pena ricordare che Analisi Difesa aveva riferito già all’epoca dei fatti delle trattative mediate dai turchi per chiudere il conflitto.

Il 30 marzo 2022 un articolo di Maurizio Delli Santi intitolato Russi e ucraini continuano a combattere ma cominciano a trattare sul serio riferiva dei progressi in atto sul fronte dei negoziati: utile rileggerlo oggi anche alla luce di quanto esposto da Foreign Affairs.

Il tema dell’accordo fatto saltare dalle pressioni anglo-americane su Kiev venne citato anche da alcune interviste rilasciate dal sottoscritto a TGCOM 24 il 4 aprile 2022 e successivamente il 25 aprile.

Non si tratta quindi di una notizia emersa oggi in modo improvviso. Piuttosto occorrerebbe chiedersi perché dopo due anni di basso profilo sulle trattative di Istanbul sabotate dalle potenze anglosassoni (a cui in più occasioni si è riferito il presidente Recep Tayyp Erdogan) che avrebbero scongiurato centinaia di migliaia di morti e feriti, immani distruzioni e il disastro economico dell’Europa, oggi alcuni media sulle due sponde dell’Atlantico ne riferiscono con ampi dettagli.

 

Putin non fece uccidere Navalny

Del resto in queste ultime ore il Wall Street Journal ha rivelato che secondo le diverse agenzie d’intelligence statunitensi la morte di Alexey Navalny nel centro di detenzione in Siberia non è stata ordinata da Putin. “Le agenzie di intelligence statunitensi hanno stabilito che molto probabilmente Putin non ha ordinato la morte di Navalny, hanno detto persone a conoscenza della questione”, si legge nell’articolo.

Il WSJ non assolve certo Putin dalla responsabilità politica per la morte in carcere dell’oppositore ma giova ricordare che Kirylo Budanov, alla testa dell’intelligence militare di Kiev (GUR), aveva affermato il 25 febbraio scorso che il dissidente russo “è morto per un coagulo di sangue”, quindi ”si tratta di una morte naturale” aggiungendo che la notizia ”è più o meno confermata. Potrei deludervi, ma quello che sappiamo è che è morto davvero per un coagulo di sangue”.

All’epoca della morte di Navalny, dichiarazioni, dibattiti parlamentari e fior di opinionisti puntarono il dito contro il Cremlino strumentalizzandola per scopi di propaganda e disinformazione (quella occidentale, al pari di quella russa, è decisamente protagonista della narrazione di tutti gli aspetto del conflitto in atto in Ucraina) contro la Russia e Putin con l’obiettivo di ostacolarne la vittoria alle allora imminenti elezioni presidenziali. All’epoca, pragmaticamente,

Le dichiarazioni di Budanov minacciavano di far crollare tale castello propagandistico e infatti vennero ignorate quasi del tutto da politica e media in Occidente.

Analisi Difesa aveva pragmaticamente evidenziato in una intervista a TGCOM24 Mediaset come la morte di Navalny alla vigilia del voto non comportasse alcun vantaggio per Putin e la Federazione Russa.

Come ha recentemente sottolineato il direttore di TGCOM 24 Paolo Liguori, la stampa statunitense è più libera della nostra, se non altro non risente, o ne risente in misura minore, degli ostracismi da noi così diffusi (indimenticabili le liste di proscrizione dei “putiniani” sulla prima pagina di grandi quotidiani) e del resto è sui media d’oltreoceano che abbiamo letto e leggiamo anche oggi i report e le analisi più realistici e meno faziosi sulla situazione militare, che abbiamo appreso che la CIA dispone da otto anni di 12 basi segrete in territorio ucraino al confine con la Russia per operazioni clandestine e tante altre informazioni che gettano pesanti ombre sulla narrazione propagandista euro-ucraino-atlantista che è stata propinata all’opinione pubblica per oltre due anni.

 

Chi bombarda la centrale nucleare?

Alla luce di queste valutazioni sarebbe lecito almeno ora attendersi un approccio politico e mediatico al conflitto meno da tifosi e più oggettivo, aspettativa che continua ad andare quasi sempre delusa, come ha dimostrato anche in queste ultime settimane la vicenda delle incursioni di droni che hanno minacciato la sicurezza della centrale nucleare di Energodar (ZNPP) nella regione di Zaporizhzhia.

L’11 aprile il direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Rafael Mariano Grossi ha chiesto la massima moderazione militare e il pieno rispetto dei cinque principi concreti per proteggere la centrale nucleare ucraina pochi giorni dopo che una serie di attacchi di droni avevano “significativamente” aumentato il rischio di un incidente nucleare nella centrale nucleare ucraina.

La centrale è fin dai primi giorni della guerra in mano alle forze russe benché gli ucraini abbiano tentato più volte di riconquistarla con assalti anfibi attraverso il fiume Dnepr e bombardamenti.

Il 9 aprile l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, ha scritto su X che “gli attacchi sconsiderati di droni contro la centrale nucleare di Zaporizhia aumentano il rischio di pericolosi incidenti nucleari. Tali attacchi devono cessare. La Russia dovrebbe ritirarsi dalla centrale nucleare di Zaporizhia”.

Affermazione a ben guardare sibillina: Borrell condanna gli attacchi senza attribuirne la responsabilità, aspetto che conferma come i vertici UE siano al corrente che sono le forze di Kiev ad attaccare le installazioni di Energodar. In caso contrario Borrell avrebbe puntato senza esitazioni il dito su Mosca ma, ciò nonostante, sostiene che i russi dovrebbero ritirarsi dalla centrale. Affermazione in tal caso scontata poiché la UE ha sempre sostenuto che i russi dovrebbero ritirarsi dall’Ucraina.

Simile l’impostazione di Washington dove il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha detto che gli Stati Uniti ribadiscono la loro “convinzione che la Russia stia giocando un gioco molto pericoloso con il sequestro militare della centrale nucleare ucraina.

È pericoloso che lo abbiano fatto e continuiamo a chiedere alla Russia di ritirare il suo personale militare e civile dall’impianto, di restituirne il pieno controllo alle autorità ucraine competenti e di astenersi da qualsiasi azione che possa comportare un incidente nucleare presso la centrale. Siamo a conoscenza delle notizie di un attacco di droni” contro l’impianto di Zaporizhia e ne “continuiamo a monitorare le condizioni anche attraverso i rapporti ufficiali” dell’AIEA ha detto Miller senza esprimersi sull’origine dei droni.

Di fatto UE e USA si limitano a condannare come pericolosa l’occupazione russa della centrale senza dichiarare che sono gli attacchi ucraini a metterne in pericolo la sicurezza. Del resto neppure l’AIEA, che ha i suoi tecnici sul posto, ha mai ufficialmente attribuito agli ucraini gli attacchi alla centrale.

@GianandreaGaian

Foto: Anadolu e Energatom

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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