Qualcosa di nuovo sul Fronte Occidentale

 

Tre eventi internazionali in pochi giorni – Il G7 in Puglia, la Conferenza di pace in Svizzera e il summit dei ministri della Difesa della NATO a Bruxelles – hanno messo in luce la debolezza dell’Occidente, le sue crescenti quanto malcelate divisioni, la dissociazione dalla realtà di parte dei suoi leader ma anche qualche sprazzo di concreto realismo.

Un contesto di debolezza generalizzata, forse senza precedenti, di quasi tutti i leader delle potenze euro-atlantiche (in scadenza o dimissionari o in profonda crisi di consensi) che ha visto emergere l’Italia, padrona di casa del G7, per la stabilità del suo esecutivo, l’unico tra quelli delle grandi nazioni europee a essere uscito rafforzato dal voto dell‘8 e 9 giugno anche in virtù della posizione moderata e realistica assunta nelle ultime vicende che hanno riguardato il conflitto ucraino.

 

Instabilità crescente

Nonostante il tentativo di alcuni di presentare l’Italia “isolata” dagli alleati per il no secco all’impiego delle nostre armi fornite a Kiev contro obiettivi in territorio russo, ad uscire isolati (dal proprio elettorato) sono stati proprio i governi più “bellicosi”. Pochi giorni dopo aver promesso di inviare in Ucraina aerei Mirage e truppe francesi Emmanuel Macron ha subito una sconfitta senza appello che lo ha costretto a indire nuove elezioni in Francia a fine giugno mentre il governo tedesco ha raggiunto l’apice della sua debolezza, con la SPD del cancelliere Olaf Scholz scavalcata persino da AfD.

Fuori dalla UE anche la crisi del governo conservatore britannico sembra pagare il prezzo del conflitto in Ucraina e delle sue conseguenze economiche e sociali: il premier Rishi Sunak ha indetto elezioni per il 4 luglio e sembra voler fare di tutto per farle vincere al Partito Laburista considerato che ha promesso, in caso di vittoria, il ripristino della leva militare obbligatoria.

Quanto agli Stati Uniti, in vista delle presidenziali del 5 novembre, il summit di Borgo Egnatia ha posto di nuovo in evidenza le imbarazzanti condizioni di salute del presidente Joe Biden, tema di cui si parla pochissimo (soprattutto in confronto alle tante analisi sui supposti malanni di Vladimir Putin che per due anni hanno riempito TV e giornali) ma che dovrebbe invece porre inquietanti interrogativi.

Pur esprimendo tutta la solidarietà e comprensione umana del caso, da tempo Biden non ha la lucidità necessaria a ricoprire il suo delicato incarico e limitarne l’esposizione in pubblico può ridurre le situazioni imbarazzanti ma non sembra poter risolvere il problema.

Semmai occorre chiedersi chi guidi davvero la più grande democrazia dell’Occidente e chi intenda continuare a farlo per altri cinque anni considerato che in caso di vittoria alle elezioni di novembre Biden resterà alla casa Bianca fino al gennaio del 2029.

 

Stupidi ma non così tanto

Anche le profonde spaccature emerse tra USA ed Europa sul sostegno finanziario all’Ucraina sono state occultate come si nasconde la polvere sotto il tappeto, Lo dimostrano le reiterate pressioni degli Stati Uniti per varare un prestito all’Ucraina da 50 miliardi di dollari, gestito dagli USA e per forniture statunitensi ma da finanziare con garanzie europee basate sui frutti dei beni russi congelati per lo più in Europa, pari a 300 miliardi di dollari.

Iniziativa che minaccia di allontanare molti investimenti internazionali dall’Europa perché viola il diritto, come ha ricordato al summit svizzero per la pace in Ucraina il presidente del Kenya William Ruto “L’aggressione della Russia in Ucraina è illegale ma anche l’appropriazione unilaterale degli asset sovrani russi è illegale e inaccettabile. Una deroga alla Carta Onu per chi crede nella libertà e nella democrazia sotto il governo della legge” ha detto Ruto, confermando la tendenza ormai consolidata che vede i leader delle nazioni del cosiddetto “Sud del mondo” mostrare maggiore lucidità dei loro omologhi in Occidente.

Al G7 è stato annunciato un accordo ma in realtà l’intesa (definita “un furto che non resterebbe impunito” da Vladimir Putin) dovrà essere esaminata dal Consiglio d’Europa.

Oltre alle valutazioni del presidente del Kenya e di tanti esperti che in questi mesi hanno evidenziato i rischi legali e finanziari a cui andrebbe incontro l’Europa con un simile provvedimento, a illustrare la situazione in termini realistici ha provveduto alla vigilia del G7 il giornale on line statunitense Politico riferendo di “una profonda spaccatura emersa tra gli Stati Uniti e i governi europei”.

Un diplomatico europeo di alto livello ha detto a Politico che “ciò che Washington propone è: noi prendiamo un prestito, l’Europa si assuma tutti i rischi e paghi gli interessi per un fondo USA-Ucraina. Potremmo essere stupidi, ma non siamo così stupidi.”

Altri sei alti diplomatici e funzionari europei hanno aggiunto che al vertice del G7 pugliese Macron e Scholz avrebbero detto a Biden che respingono la proposta americana che l’Europa agisca come unico garante del prestito. “C’è una rabbia palpabile nei governi europei nei confronti degli Stati Uniti perché il piano, significherebbe che gli europei sarebbero tenuti a ripagare il prestito se qualcosa andasse storto mentre le aziende americane potrebbero potenzialmente trarre il massimo vantaggio dai contratti di ricostruzione dell’Ucraina che ne deriverebbero” ha scritto Politico.

Il motivo delle pressioni di Washington secondo Politico e le sue fonti è che “l’Ucraina ha un disperato bisogno di soldi” e poi “non c’è certezza che la presidenza di Donald Trump sosterrebbe l’iniziativa”.

Anzi, secondo quanto riferito il 14 giugno dal deputato repubblicano Matt Gaetz, Trump ha anche recentemente criticato gli ultimi stanziamenti voluti dalla Casa Bianca per il sostegno militare ed economico all’Ucraina. Secondo tre funzionari sentiti da Politico “l’accordo definitivo verrà ora rinviato almeno fino all’autunno” mentre le previsioni sull’esito del G7 erano chiare: “Anche se ci si aspetta che i leader del G7 in Puglia approvino l’idea generale del prestito all’Ucraina, è improbabile che siano d’accordo sui dettagli”.

Come in effetti è accaduto: il presidente del consiglio Giorgia Meloni nella conferenza stampa al termine del G7 ha dichiarato che “il prestito di 50 miliardi è già stato annunciato che verrà fornito da USA, poi Canada, Regno Unito e forse Giappone, compatibilmente con i limiti costituzionali, hanno annunciato di voler partecipare: in questo prestito non intervengono nazioni europee perché asset russi sono tutti immobilizzati in Europa”.

 

Spaccature crescenti

Complice anche l’impatto del voto in Europa, sembrano inoltre accentuarsi le divergenze tra le due sponde dell’Atlantico dopo oltre due anni di totale e devastante (per noi) asservimento agli interessi statunitensi.

Il 15 giugno il cancelliere tedesco Scholz ha confermato le riserve di Berlino sul quattordicesimo pacchetto di sanzioni della UE contro la Russia nel timore che il divieto di esportare beni sanzionati possa essere esteso a materiale ad uso civile, come i prodotti chimici o le attrezzature per la lavorazione dei metalli, danneggiando così ulteriormente l’industria tedesca. Scholz ha affermato di voler garantire che l’economia tedesca orientata all’export sia messa nella posizione di continuare a operare. Lo stesso giorno, riferendosi alla Conferenza di pace in corso in Svizzera a cui non è stata invitata la Russia, Scholz ha dichiarato che “la pace in Ucraina non può essere raggiunta senza il coinvolgimento della Russia”.

E’ la prima volta dall’inizio della guerra che la Germania, principale potenza economica europea, si smarca da sanzioni inflitte alla Russia. Del resto le recenti elezioni hanno ben spiegato a Scholz gli orientamenti dell’opinione pubblica che secondo un sondaggio realizzato dall’Istituto INSA per il 51 per cento non crede che l’Ucraina possa vincere la guerra mentre il 58 per cento degli intervistati è convinto che la Germania, sostenendo l’Ucraina, metta a rischio la sua sicurezza. Una tendenza peraltro riscontrabile già da tempo in tutta Europa come spiegarono esaustivi sondaggi già in febbraio.

Un ulteriore segnale che dovrebbe indurre i leader europei a guardare al conflitto in corso con realismo e nell’ottica degli interessi nazionali. Forse non casualmente, a maggio le forniture di gas russo hanno rappresentato, per la prima volta in quasi due anni, la principale fonte di importazioni di gas in Europa superando la quota proveniente dagli Stati Uniti.

Come riferiamo in un altro articolo, secondo gli analisti si tratta di una situazione temporanea dovuta a fattori più tecnici che politici ma il mese scorso le spedizioni russe sono tornate ad ammontare al 15% delle forniture totali per Europa Regno Unito, Svizzera, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia del Nord, secondo i dati della società di consulenza Indipendent Commodity Intelligence Service (ICIS) mentre quelle statunitensi si sono fermate al 14%, il livello più basso dall’agosto 2022.

In tema di energia, nei giorni scorsi anche Mario Draghi ha evidenziato tra le cause delle difficoltà economiche del Vecchio Continente il fatto che l’Europa paga l’energia molto di più degli Stati Uniti, sorvolando però sul fatto che quando era presidente del consiglio italiano fu tra i fautori dell’abbandono repentino del gas russo quando tutti gli studi valutavano in 8/10 anni il tempo necessario a una transizione senza traumi verso altri fornitori. Del resto fu sempre Draghi ad assicurare agli italiani che le sanzioni stavano piegando economia e macchina bellica russa.

Considerando gli errori e le bufale che li hanno resi tra i principali responsabili del disastro dell’Europa dall’inizio della guerra in Ucraina, non tranquillizza il fatto che Mario Draghi e Ursula von der Leyen siano oggi indicati tra i probabili presidenti della nuova Commissione Europea.

Crescenti divergenze nel fronte all’apparenza compatto di USA ed Europa contrapposti alla Russia e al fianco dell’Ucraina fino alla vittoria sono emerse anche  alla riunione a Bruxelles dei ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica dove il segretario generale Jens Stoltenberg ha ottenuto il via libera a un maggior impegno dell’alleanza nel coordinare il flusso di aiuti militari all’Ucraina e l’addestramento delle truppe di Kiev ma ha incassato ben pochi consensi sulla proposta di un impegno finanziario di 40 miliardi di euro all’anno, da ripartire tra gli alleati in base al Pil, per il sostegno militare all’Ucraina.

Contraria anche l’Italia come ha apertamente dichiarato il ministro della Difesa Guido Crosetto che ha sottolineato ancora una volta la necessità che l’Alleanza Atlantica si occupi anche del Fianco Sud, cioè dello scacchiere Mediterraneo.

 

Dissociati dalla realtà

Del resto i limiti de sostegno militare all’Ucraina sono ormai sempre più evidenti. I magazzini sono vuoti, l’Europa non ha più nulla da dare e le forniture di missili da difesa aerea da Italia, Francia e Germania saranno le ultime possibili, come ha già fatto sapere il governo tedesco.

In questo contesto l’aver respinto seccamente la proposta di pace formulata da Putin indica soprattutto il rifiuto di affrontare una realtà diversa da quella che in molti auspicavano. Una dissociazione dalla realtà che rischia di costare cara, all’Europa e all’Ucraina.

La Federazione Russa è pronta a cessare le ostilità e negoziare la pace se Kiev ritirerà le sue truppe dalle quattro regioni parzialmente occupate dalle forze russe e rinuncerà ad entrare nella NATO. Una proposta in linea con le precedenti iniziative negoziali russe tese a trovare un accordo per concludere la guerra che, giova ricordarlo, poteva chiudersi su basi ben più convenienti per l’Ucraina già nell’aprile del 2022, dopo un mese e mezzo di guerra, in seguito alla mediazione turca.

All’epoca Putin si sarebbe “accontentato” della Crimea, di un’autonomia speciale sotto controllo russo delle regioni di Donetsk e Lugansk e dello status neutrale dell’Ucraina. Londra e Washington decisero (senza confrontarsi con gli alleati o con l’ossequioso assenso o non-dissenso degli altri membri della NATO?) che Kiev doveva continuare a combattere una guerra che “avrebbe logorato la Russia”.

Respingere oggi la proposta russa significa non tenere conto della situazione sul campo di battaglia, che difficilmente migliorerà per le forze ucraine nelle prossime settimane a meno che non vi sia la disponibilità, a dir poco improbabile, dei membri della NATO a inviare in guerra le proprie forze. Invece di preoccuparci di giungere a una “pace giusta” (ennesimo concetto aleatorio di cui si nutre la politica occidentale) dovremmo chiederci se tra sei mesi il prezzo che l’Ucraina dovrà pagare per la pace non sarà più alto in termini territoriali, di morti e distruzioni. Oppure se in caso di continuazione del conflitto esisterà ancora uno stato ucraino.

Del resto, come Analisi Difesa ha più volte evidenziato, tra breve nessuno dei principali leader occidentali che ha sostenuto la guerra per logorare la Russia potrebbe essere ancora in sella mentre al Cremlino vi sarà ancora Vladimir Putin.

Il sostegno alla proposta di pace formulata alla Conferenza di pace in Svizzera dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky (il cui mandato presidenziale è scaduto da un mese e i cui consensi sono al minimo storico) conferma ulteriormente lo scarso realismo con cui viene affrontata la questione. Affermare che i russi devono ritirarsi dai territori ucraini e pagare i danni di guerra (come ha ripetuto Ursula von der Leyen) è privo di senso perché i russi la guerra non l’hanno perduta ma la stanno vincendo. Non tenerne conto danneggerà gli interessi europei ed è offensivo nei confronti di quanti continueranno a morire inutilmente a causa di questo approccio irrealistico e un po’ codardo dell’Occidente, bellicoso con la pelle degli ucraini.

Non a caso a Lucerna 12 nazioni non hanno firmato il documento finale che prevede una soluzione che garantisca “l’integrità territoriale delI’Ucraina”: tra questi Brasile, India e Sudafrica (Russia e Cina non erano presenti alla conferenza), Messico. Armenia, Bahrein, Indonesia, Libia, Arabia Saudita, Thailandia ed Emirati Arabi Uniti. Difficile definirli tutti sfegatati fans di Putin mentre è il caso di evidenziare come proprio molte di queste nazioni abbiano evidenziato l’inutilità di una conferenza di pace in cui uno dei belligeranti non è stato neppure invitato.

Con simili basi non ci si poteva aspettare molto dalla conferenza di Lucerna, infatti il presidente svizzero Viola Amherd ha dichiarato che Putin potrebbe essere autorizzato a partecipare a un potenziale secondo vertice di pace nonostante un mandato di arresto della Corte penale internazionale (CPI) emesso contro di lui. “Se la presenza di Putin è necessaria per tenere la conferenza, allora si può fare un’eccezione. Nel caso dei negoziati di pace in Ucraina con la Russia, questa può essere un’eccezione“, ha detto Amherd aggiungendo che “una decisione deve essere adottata dal governo svizzero”.

Come era facile prevedere (e come sostenevano tanti osservatori definiti sbrigativamente “putiniani”) il mandato della CPI contro Putin, tanto caldeggiato a suo tempo sulle due sponde dell’Atlantico, si rivela oggi un ostacolo a negoziare la fine della guerra.

Del resto continuare a scommettere sulla vittoria di Kiev appare una prospettiva vana anche tenendo conto che gli stessi ucraini sono stanchi di combattere mentre l’economia e la rete energetica nazionali sono al collasso. Oltre ai tanti che cercano in ogni modo di sottrarsi all’arruolamento forzato, un numero rilevante di ucraini ritiene che vi sia un pericoloso declino dei diritti e della democrazia come spiega un sondaggio pubblicato in Francia da Les Echos e realizzato dall’Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev.

Invece di puntare a un accordo realistico all’interno di una conferenza che ristabilisca condizioni di pace, distensione e sicurezza per tutti ai confini orientali europei, si rafforza l’impressione che USA e UE scommettano sul fatto che l’Ucraina resista (o debba resistere) almeno fino alla nomina della nuova (o forse vecchia) Commissione Europea e fino alle elezioni statunitensi, perché un suo tracollo sancirebbe la disfatta di tutti i leader e governi che hanno sostenuto il braccio di ferro con la Russia sulla pelle degli ucraini.

Una scommessa ardita per almeno due ragioni. Da un lato la credibilità di molti leader e governi è già compromessa come il voto europeo dell’8 e 9 giugno ha dimostrato. Dall’altro oggi l’Europa ha ancora l’opportunità di gestire la conclusione della guerra in Ucraina verso un contesto che ristabilisca pace, sicurezza e relazioni normali con la Russia, necessarie a evitare un’altra Guerra Fredda che non possiamo permetterci senza esporci a povertà e instabilità.

@GianandreaGaian

Foto: Governo italiano, Presidenza Ucraina, TASS, Adnkronos, NATO e Conferenza Sicurezza Monaco

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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