L’Ucraina tra gli scenari coreano, norvegese e tedesco per porre fine al conflitto

 

Sembra davvero una coincidenza, ma è da due anni che il numero estivo del bimestrale Foreign Affairs affronta il tema della fine della guerra in Ucraina descrivendo i possibili scenari che potrebbero caratterizzare gli esiti del conflitto. Nell’estate dello scorso anno, la copertina della rivista titolava “dimmi come tutto questo finirà” e i contributi di pensiero erano interamente dedicati allo sviluppo di questo argomento. In tale contesto, si affermava che per gli Stati Uniti fosse giunto il momento di sviluppare una visione sulla fine della guerra https://www.foreignaffairs.com/ukraine/unwinnable-war-washington-endgame nella consapevolezza che le conquiste sul campo di battaglia non avrebbero portato necessariamente di per sé al termine delle ostilità.

Nel momento in cui l’articolo veniva redatto e pubblicato, si dava quasi per scontato che l’imminente offensiva di Kiev sortisse effetti significativi cosa che, come sappiamo benissimo, non è affatto avvenuta. Ma anche se l’offensiva avesse avuto successo, si argomentava, non avrebbe prodotto un risultato militarmente decisivo. Neanche un grande cambiamento della linea del fronte avrebbe posto necessariamente fine al conflitto dal momento che le guerre interstatali generalmente non finiscono quando le forze di una parte vengono spinte oltre un certo punto sulla mappa.

In altre parole, la conquista territoriale (o la riconquista) non è di per sé una forma di fine guerra. Lo stesso sarebbe probabilmente accaduto in Ucraina: anche se Kiev avesse ottenuto un successo oltre ogni aspettativa e avesse costretto le truppe russe a ritirarsi oltre il confine internazionale, Mosca non avrebbe smesso di combattere poiché nella storia “altri stati hanno scelto di continuare a combattere pur riconoscendo l’inevitabilità della sconfitta: si pensi, ad esempio, alla Germania nella prima guerra mondiale. In breve, le conquiste sul campo di battaglia non porteranno necessariamente di per sé alla fine della guerra”.

Di conseguenza, gli aspetti chiave di questo conflitto diventavano duplici: la persistente minaccia che entrambe le parti porranno l’una all’altra e la disputa irrisolta sulle aree dell’Ucraina che la Russia ha rivendicato di annettere. È probabile che questi rimangano fissi per molti anni a venire. In altre parole, la guerra finirebbe senza una risoluzione della disputa territoriale. O la Russia o l’Ucraina, o, più probabilmente, entrambe, dovranno accontentarsi di una linea di controllo de facto che nessuna delle due riconoscerà come confine internazionale.

 

La necessità di “chiudere la partita” e lo scenario coreano

L’analisi di Foreign Affairs citava uno studio del Center for Strategic and International Studies che, utilizzando i dati dal 1946 al 2021 compilati dall’Università di Uppsala, aveva rilevato che il 26% delle guerre interstatali termina in meno di un mese e un altro 25% entro un anno. Ma lo studio aveva anche scoperto che, quando le guerre interstatali durano più di un anno, si estendono in media a oltre un decennio. Anche quelli che durano meno di dieci anni possono essere eccezionalmente distruttive.

La guerra Iran-Iraq, ad esempio, era durata quasi otto anni, dal 1980 al 1988, provocando quasi mezzo milione di morti in combattimento e circa altrettanti feriti. Ed è proprio la previsione di una durata indefinita della guerra a presentare le conseguenze più allarmanti secondo l’analisi. Una lunga guerra tra Russia e Ucraina sarebbe molto problematica per gli Stati Uniti e i suoi alleati, “poiché manterrebbe il rischio di una possibile escalation (sia verso l’uso del nucleare russo che verso una guerra russo-NATO) al suo attuale livello elevato”.

L’Ucraina si troverebbe su un sostegno economico e militare quasi totale da parte dell’Occidente, il che alla fine causerebbe sfide di bilancio per i paesi occidentali e problemi di prontezza per le loro forze armate. Le ricadute economiche globali della guerra, compresa la volatilità dei prezzi dei cereali e dell’energia, persisterebbero.

Gli Stati Uniti non sarebbero in grado di concentrare le loro risorse su altre priorità e la dipendenza russa dalla Cina si approfondirebbe. Ed è in questo contesto che trova spazio l’armistizio coreano del 1953, che “si occupava esclusivamente dei meccanismi di mantenimento di un cessate il fuoco e lasciava tutte le questioni politiche fuori dal tavolo”. Sebbene la Corea del Nord e la Corea del Sud siano ancora tecnicamente in guerra, ed entrambe rivendichino l’intera penisola come loro territorio sovrano, l’armistizio ha in gran parte tenuto. “Un risultato così insoddisfacente è il modo più probabile in cui questa guerra finirà”, sentenziava l’articolo e “pur riconoscendo che Kiev alla fine prenderà le proprie decisioni, gli Stati Uniti e i loro alleati, in stretta consultazione con l’Ucraina, possono iniziare a discutere e presentare la loro visione per la fine dei giochi”.

Secondo questa ipotesi, lo scenario coreano prevederebbe tre requisiti da soddisfare: in primo luogo, bisogna essere disposti a combattere e negoziare contemporaneamente, usando la pressione sul campo di battaglia per far rispettare le richieste al tavolo dei negoziati. Storicamente, combattere e, allo stesso tempo, negoziare è stata una pratica comune nelle guerre.

Durante la guerra di Corea, alcuni dei combattimenti più intensi ebbero luogo durante i due anni di colloqui per l’armistizio, con un elevatissimo tasso di perdite. In secondo luogo, i negoziati dovrebbero includere le Nazioni Unite, dal momento che gli arbitri neutrali (se ancora esiste una possibilità che questi esistano) sono una risorsa. Infine, dovrebbero condizionare la futura assistenza alla sicurezza e il sostegno postbellico all’Ucraina alla volontà di Kiev di fare alcune concessioni.

 

Un anno dopo: i modelli norvegese e tedesco 

A un anno di distanza i principi di base di questa analisi rimangono validi, a parte il fatto che la situazione sul campo di battaglia per Kiev è veramente molto difficile se non disperata, altrimenti il Ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba non sarebbe volato in Cina per esplorare le opportunità che Pechino può offrire come mediatrice di un possibile negoziato. Oggi non si tratta più della volontà di Kiev di fare concessioni, ma dell’inevitabile divisione del paese imposta dall’andamento favorevole a Mosca delle operazioni, e del limite oramai raggiunto della sostenibilità dello sforzo bellico da parte del blocco occidentale già abbondantemente previsto un anno fa.

Di fatto, capovolgendo le premesse dell’analisi di Foreign Affairs, i russi possono scegliere di continuare a combattere non perché perdenti ma, al contrario, perché le dinamiche della guerra di logoramento pongono Mosca in una posizione di assoluto vantaggio. Rimane però da vedere se il Cremlino condivide le stesse esigenze di “chiudere la partita” nei termini generali definiti dall’occidente. Questi ultimi, sono stati aggiornati con il successivo contributo di pensiero “estivo” della rivista statunitense, realizzato in occasione del settantacinquesimo anniversario della fondazione della NATO https://www.foreignaffairs.com/ukraine/better-path-ukraine-and-nato. In questo caso le soluzioni per la fine della guerra dovrebbero creare le condizioni per l’ingresso di Kiev nell’Alleanza Atlantica, e la storia militare contemporanea offrirebbe altri due esempi di best practice esportabili.

Settantacinque anni fa, analizza l’articolo, la Norvegia voleva ciò che l’Ucraina vuole oggi: diventare un alleato nonostante confinasse con la Russia (allora in Unione Sovietica). Anche se Mosca non stava invadendo la Norvegia in quel momento, o mai (in effetti, l’Armata Rossa aveva persino aiutato a liberare alcuni territori norvegesi settentrionali dai nazisti) i norvegesi avevano ricordi amari di come la loro neutralità di un tempo fosse finita con la brutale occupazione nazista. E rimasero inorriditi quando la Cecoslovacchia, un altro paese precedentemente occupato tra Est e Ovest, cadde sotto il controllo di Mosca nel 1948. Queste esperienze diminuirono l’attrattiva della neutralità continua.

I norvegesi discussero quindi due possibili opzioni: una più forte cooperazione nordica in materia di difesa o un’alleanza transatlantica, nonostante il rischio di diventare l’unico membro fondatore della NATO con un confine sovietico, assumendosi così la responsabilità di portare l’alleanza alla porta della Russia. La Norvegia optò per la seconda opzione emettendo una dichiarazione unilaterale il 1º febbraio 1949, due mesi prima della formazione dell’alleanza, affermando che non avrebbe “messo a disposizione delle forze armate delle potenze straniere basi sul territorio norvegese, fino a quando la Norvegia non fosse attaccata o soggetta alla minaccia di attacco”.

In seguito, avrebbe aggiunto restrizioni simili sulle armi nucleari. Nonostante le molte differenze tra la Norvegia nella Guerra Fredda e l’Ucraina di oggi, il modello norvegese rimarrebbe attuale, perché mostra come un paese che condivide un confine con la Russia possa aderire alla NATO ritagliandosi eccezioni mirate e unilaterali per mitigare il rischio di una risposta ostile da parte di Mosca.

Il percorso della Germania Ovest verso l’adesione nel 1955 sarebbe rilevante per una ragione diversa, poiché mostrerebbe come un paese possa diventare un alleato nonostante sia diviso. Sostenere questo modello implica che l’Ucraina non ripristinerà mai più i confini del 1991, fatto oramai divenuto inevitabile e accettato dall’anglosfera come base di partenza per qualunque ipotesi di lavoro, scenario coreano compreso.

In pratica, viene proposto che l’Ucraina decida a quali territori rinunciare, e poi il resto, sotto il controllo di Kiev, formi un proprio nuovo stato a cui sarebbe permesso di entrare nella NATO. La prospettiva sarebbe quella che, proprio come la Germania Ovest è stata alla fine riunificata con l’Est, l’Ucraina potrebbe “resistere” con la promessa di riunificazione con il territorio che ha perso in un futuro indeterminato.

I leader degli Stati membri della NATO dovrebbero quindi incoraggiare Kiev a realizzare tre iniziative: innanzitutto, definire un confine provvisorio e militarmente difendibile. In secondo luogo, imporre un limite significativo al numero e tipologia d’infrastrutture militari sui territori non occupati (come lo stazionamento permanente di truppe straniere o armi nucleari) con l’importante clausola norvegese che questi limiti sono validi solo finché l’Ucraina non è sotto attacco o minaccia di attacco.

Infine, impegnarsi a non usare la forza militare oltre quel confine se non per autodifesa, come fecero i tedeschi occidentali, al fine di assicurare agli alleati della NATO che non si troveranno improvvisamente in guerra con la Russia non appena l’Ucraina ne diventerà membro. Il costo di questo passo sarebbe l’accettazione di una divisione a tempo indeterminato, ma il vantaggio sarebbe quello di dare alla maggior parte dell’Ucraina un rifugio sicuro nell’Alleanza Atlantica. Il problema è che l’intero impianto concettuale non presenterebbe nulla di sostanzialmente diverso dai precedenti accordi di Minsk. Quale possibile incentivo avrebbe la Russia ad accettare un accordo che congela il conflitto e avvicina ancora di più la NATO al territorio russo, raggiungendo così di fatto l’esatto opposto degli obiettivi principali della Russia nella guerra?

 

Gli scenari non bastano

È probabile che eventuali e possibili accordi per la cessazione delle ostilità in Ucraina possano includere uno o più aspetti che sono stati sino ad ora descritti nei macro-modelli proposti. Tuttavia, l’analisi deve elevare lo sguardo verso una dimensione strategica concernente una soluzione permanente della questione Ucraina, ma in un contesto globale che manca sia negli Stati Uniti e, a maggior ragione in Europa, La Russia non prenderà in considerazione soluzioni che non comportino una rielaborazione dell’intera architettura di sicurezza dell’Europa. Un’architettura che comprenda un ampio quadro di garanzie e di garanti del nuovo sistema, che tiene conto della prospettiva espressa dai BRICS di ridiscutere le modalità e i ruoli delle Nazioni Unite e delle altre istituzioni globali.

Putin vuole ridisegnare le modalità di funzionamento del sistema internazionale alla luce delle nuove relazioni di sicurezza. La Russia vuole cogliere l’opportunità di sviluppare un nuovo modello delle relazioni internazionali del dopo guerra fredda, partendo dall’Ucraina. I negoziati saranno possibili solo se rifletteranno non solo la situazione sul campo (divisione del Paese), ma anche quella del nuovo sistema di sicurezza ponendo le premesse per la sua realizzazione.

Per l’Occidente, comprendere il punto di vista russo e definire il ruolo che Mosca deve giocare nel futuro dell’Europa è strategico e vitale. Tuttavia, non esiste alcun dibattito, ricerca o analisi al riguardo, poiché non esiste alcuna volontà di affrontare l’argomento, decisamente troppo impegnativo per l’attuale leadership politico militare europea.

Gli Stati Uniti hanno usato l’Ucraina per chiudere la partita del confronto egemone con Mosca, e non hanno alcun interesse ad elevare lo sguardo nel senso che abbiamo indicato. L’Europa sarebbe dotata teoricamente di tutti gli strumenti culturali, economici e intellettuali per affrontare la sfida. Strumenti che, in virtù della propria storia, sono immensamente superiori a quelli disponibili oltre oceano.

Tuttavia, l’UE preferisce la logica del confronto e delle sanzioni a tutti i costi e, con buona pace della clausola norvegese la Germania, divenuta oramai assiema alla Polonia e ai Paesi baltici, una delle maggiori sostenitrici della linea dura contro Mosca, ha recentemente siglato con Washington l’accordo che permetterà lo schieramento su suolo tedesco, a decorrere dal 2026, di missili a medio e corto raggio.

Un ritorno sconcertante agli anni Settanta e Ottanta con le crisi degli euromissili, nel contesto di una politica escalativa delle tensioni tra Russia e Occidente che, oggi, non è comprensibile. Putin non ha fretta di concludere la guerra poiché il suo è un obiettivo da conseguire nel lungo termine, e gli orizzonti temporali russi non sono quelli del blocco occidentale. Ma, soprattutto, le risorse da impiegare per gestire il confronto senza fine che stiamo vivendo non giocano a nostro favore, e lavorare sugli scenari non è certamente sufficiente.

Foto: Ministero della Difesa Ucraino e Ministero della Difesa Russo

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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