Medio Oriente: poche opzioni per evitare l’escalation

 

Un ricorso, in una fase post conflittuale, a screditate istituzioni internazionali come soluzione transitoria per la gestione della sicurezza a Gaza appare improbabile; più accettabile per contendenti, dalle posizioni inconciliabili nel breve termine, un eventuale intervento internazionale legittimato dal Consiglio di Sicurezza Onu. Un intervento militare e civile basato beninteso su un approccio pragmatico, su linee guida, procedure e forze in campo, completamente diverse da quanto tristemente sperimentato per decenni con risultati fallimentari.

 

Israele, Gaza, Libano

In questa area il conflitto propone sfaccettature ben più complesse rispetto a quelle che caratterizzano l’attacco jihadista nel Sahel e altri Paesi limitrofi, pur denotando una strategia simile. Da oltre un decennio sono cresciuti vistosamente l’influenza, la sponsorizzazione, i finanziamenti, il trasferimento di armi sempre più sofisticate, dall’Iran verso il braccio armato Hezbollah in Libano, Hamas e gruppi della Jihad islamica a Gaza e territori palestinesi in Cisgiordania. La crescita dell’influenza e delle azioni iraniane in tutto il Medioriente ha verosimilmente contribuito alla messa a punto dei Patti di Abramo, quindi ad una inedita alleanza fra Israele, Marocco e Stati arabi considerati moderati. Formalmente manca ancora oggi l’Arabia Saudita per cementare il blocco sunnita con Israele, in contrapposizione agli sciiti iraniani e loro alleati.

Non trascurabile in chiave di contrapposizione politica e ideologica l’influenza dei Fratelli Musulmani organizzazione politica islamista considerata illegale e terrorista in Egitto, Arabia Saudita, Siria, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, sostenuta apertamente per molti anni, ora più blandamente, dalla Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan.

In uno scenario così complesso non dovrebbe meravigliare più di tanto la svolta dei Patti di Abramo, l’esigenza reciproca da parte degli Stati Arabi sunniti cosiddetti moderati e Israele di stringere apertamente rapporti di collaborazione contro una minaccia comune. Invero ciò avviene da anni, la novità sta nel dichiararlo apertamente. Allo stesso tempo non dovrebbe stupire il tentativo di far naufragare, con ogni mezzo, una simile alleanza da parte di Iran e alleati vari.

E’ pur vero che una importante mediazione cinese nel 2023 ha in qualche modo ravvicinato le posizioni dei contendenti sciiti e sunniti, permettendo una ripresa del dialogo politico e dei rapporti commerciali. Restano tuttavia le diffidenze, le tipiche ambiguità mediorientali, la diversità dell’interpretazione Coranica, soprattutto uno scontro di influenze non facilmente risolvibile. Solo col tempo, con una eventuale evoluzione chiara e decisa o con una frenata dei Patti di Abramo, si potrà forse intravedere un percorso diverso.

Un attacco militare in territorio israeliano così ben preparato come quello del 7 ottobre non può essere frutto solo delle capacità di Hamas, così come conseguenze e risposta israeliana non possono non essere state preventivate, forse addirittura auspicate dai terroristi e entità alleate.

L’Iran ha negato di aver ricevuto informazioni preventive da Hamas sull’attacco del 7 Ottobre scorso, e non sembra disposto finora ad esporsi agendo direttamente e pesantemente contro Israele. Preferisce operare attraverso le milizie satelliti bene armate e addestrate: Hezbollah, milizie scite in Iraq e Siria e Houthi yemeniti.

Quando è stata necessaria una risposta ai blitz preventivi israeliani, per non perdere la faccia e la credibilità, le azioni sono state così ben calibrate da apparire quasi come fossero state concordate direttamente o indirettamente con Stati Uniti e Israele.

Alla luce delle variabili così complesse e spesso incontrollabili, ritornare alla realtà e al pragmatismo più ortodosso immune da deviazioni ideologiche dovrebbe essere la priorità della comunità internazionale e delle stesse parti in conflitto. La soluzione auspicata da tutti, o quasi, è quella dei due Stati con il riconoscimento accelerato di uno Stato di Palestina pronto a convivere, a riconoscere senza ambiguità il vicino Stato di Israele.

Può essere fattibile una tale pur logica e auspicata soluzione? Sicuramente non nel breve termine dal momento della sospensione delle ostilità. Criticità sorgono anche sul medio periodo. Al di là degli auspici incombono problematiche così rilevanti da frenare gli ottimismi di facciata.

 

Sicurezza per Israele e per gli stessi palestinesi

Oggettivamente difficile immaginare uno sviluppo positivo senza un’esclusione sostanziale e politica di Hamas e della Jihad islamica. Ovvero di quella componente così brutale e omicida, incurante di una prospettiva di convivenza fra i due popoli, da minacciare non solo Israele ma gli stessi palestinesi che ne rifiutassero l’ideologia della distruzione e del martirio.

Le dichiarazioni ufficiali dei capi politici e operativi di Hamas relative alla necessità di avere più vittime fra la popolazione civile palestinese al fine di far trionfare la rivoluzione contro Israele non lasciano dubbi di sorta. Dichiarazioni indifendibili per gli stessi negoziatori egiziani e qatarioti, parte della squadra negoziale con americani e israeliani, ma sostenute da Iran e nella sostanza dal Presidente turco Erdogan.

Con queste premesse non solo un Primo ministro criticato come Netanyahu, ma qualsiasi altro Primo ministro non potrebbe che ribadire una linea di fermezza israeliana. Purtroppo anche la posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese espressa dal sempre più debole e isolato Abu Mazen ha confermato il regime di terrore instaurato da Hamas e Jihad islamica perfino in Cisgiordania.

Pur criticando Israele, l’ANP avrebbe potuto lanciare segnali di distacco dalle posizioni di Hamas anche per incoraggiare gli stessi palestinesi stufi dei ricatti del terrore. Infine le dichiarazioni rilasciate a seguito della morte di Haniyeh, il leader politico di Hamas, hanno tolto qualsiasi dubbio. Non può essere l’uomo di una eventuale transizione, non può rappresentare validamente i palestinesi, non ha visione e coraggio, lontano anni luce dal Presidente Arafat.

Il fatto che per recarsi a Gaza abbia richiesto una protezione internazionale, più che da Israele dai seguaci di Hamas, la dice lunga su relazioni e rapporti di forza fra le fazioni palestinesi nonostante l’intesa firmata a Pechino da 14 fazioni palestinesi che dovrebbe aprire la strada a una politica unitaria.

Per contro, va chiarito che nonostante le devastazioni subite dalla Striscia di Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre, Hamas gode oggi della massima popolarità tra i palestinesi a Gaza come in Cisgiordania e sarebbe con ogni probabilità il vincitore a mani basse in caso di elezioni.

I tempi si allungheranno e non sarà certo un vantaggio per i palestinesi procrastinare l’ambiguità di fondo, come non lo sarà per Israele continuare a tollerare le frange estremiste dei Coloni e dei Partiti religiosi più radicali a loro connessi. La risposta alla violenza con altra violenza, espropri di case e terreni, inviti messianici alla battaglia da parte di ministri di un governo eletto democraticamente, allontanano le prospettive di compromessi negoziali per una futura convivenza che dovrà pur materializzarsi prima o poi.

 

La transizione post conflittuale a Gaza.

In questo contesto si gioca, a parere di chi scrive (memore di una intensa esperienza di vita e lavoro a Gerusalemme e Gaza per oltre un lustro negli anni di Rabin, Peres, Arafat, Nabil Shaat, Olmert, del primo mandato di Netanhiayu), la vera partita per una prospettiva, sia essa più o meno realistica e ravvicinata, di uno Stato palestinese che garantisca una sicurezza reciproca con il vicino e che rifugga da influenze e finanziamenti legati al terrorismo da parte di Stati stranieri.

Difficile ricomporre una prospettiva di convivenza nel breve periodo. Con molte probabilità il futuro nella striscia di Gaza verrà definito nella fase post conflittuale.

Non riguarderà solo la questione prioritaria della sicurezza, dell’eliminazione, perlomeno della capacità di azione, provocazione, influenza preponderante di Hamas e Jihad islamica, piuttosto nel medio termine saranno dirimenti le fasi di ricostruzione del tessuto economico e sociale, di una nuova leadership palestinese pronta ad assumere le responsabilità di un ritorno al dialogo, alle prospettive generate dagli Accordi di Oslo. In parallelo da parte israeliana non si dovrebbero più tollerare l’aggressività dei coloni, l’espansionismo, l’accaparramento di terre e le provocazioni degli stessi.

La strada per una pur fragile ricomposizione fra le parti dovrà necessariamente passare per la fase di transizione post conflittuale. Una fase, inutile nascondersi dietro retoriche o dichiarazioni ideologiche, in cui sarà necessario concordare con Israele i termini ritenuti accettabili per procedere.

Da parte israeliana sembra probabile l’accettazione, accanto a selezionati contingenti di Paesi NATO, egiziani e giordani in funzione di garanti per entrambe le parti. Di sicuro appare decisamente ridimensionato un ruolo di primo piano per l’ONU. Se non come importante copertura giuridica internazionale, una risoluzione, che autorizzi contingenti scelti dai negoziatori e da Israele ad operare sul territorio con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.

Formalmente è possibile che vengano accettati i caschi blu magari integrati da osservatori della UE ai confini con l’Egitto per questioni di immagini e simboli.  Nella sostanza una logica conseguenza della perdita di credibilità, della debolezza dell’Istituzione internazionale che in tempi passati sarebbe stata la soluzione, non il problema. Il coinvolgimento di elementi del personale locale dell’UNRWA nel sostegno, perfino nell’attuazione del proditorio attacco terroristico del 7 ottobre scorso, è stato riconosciuto recentemente dalla stessa Agenzia Onu a seguito di una inchiesta interna e dei relativi susseguenti provvedimenti disciplinari.

Come da chi scrive segnalato in un articolo prima che le denunce israeliane fossero rese note, è stato inoltre evidenziato il grave problema della scarsa vigilanza, della limitata esperienza culturale e professionale di una larga fetta del personale internazionale della stessa Agenzia. Personale presupposto qualificato che avrebbe dovuto capire, vigilare, agire da anni a tutela della neutralità dell’Agenzia Onu e degli stessi rifugiati palestinesi a cui vengono garantiti servizi rilevanti dal 1949. Purtroppo non è andata come sarebbe stato lecito attendersi, lo scandalo ha infine coinvolto nel discredito altre Agenzie Onu operanti nell’area con maggior efficienza e personale più adeguato.

Al di là dei tempi negoziali, delle vittime civili, della sorte degli ostaggi, di un drastico ridimensionamento della struttura Hamas Jihad islamica, del coinvolgimento più diretto o meno dell’Iran, di Hezbollah, del fronte libanese, di un eventuale nuovo Primo Ministro israeliano, delle incognite non preventivabili, gli scenari ipotizzabili da cui ripartire potrebbero così delinearsi­:

  • Una ridotta presenza militare israeliana nell’area di Gaza presidiata, controllata da una forza multinazionale, legittimata dal Consiglio di Sicurezza Onu, comprendente probabilmente contingenti Usa, forse Canada, difficilmente truppe britanniche storicamente poco gradite dalle popolazioni arabe dell’area, Italia, uno o più Paesi scandinavi, Francia, Spagna, Egitto, Giordania, eventualmente EAU, Qatar.
  • una nuova Autorità palestinese radicalmente riformata in grado di riavviare un dialogo costruttivo con gli israeliani sulla base di comuni interessi economici, sociali, assumere in un primo tempo, la responsabilità amministrativa di Gaza, la gestione assieme ai donatori della ricostruzione economica e sociale dell’area, ridurre ai minimi termini una residuale presenza dei sostenitori di Hamas e Jihad islamica unitamente al rifiuto dell’abbraccio mortale con Paesi stranieri sostenitori del terrorismo e della distruzione di Israele. In tale ottica come successori di Abu Mazen oltre a Marwan Barghouti popolare leader della storica seconda Intifada palestinese tuttavia condannato in seguito a 5 ergastoli dalla giustizia israeliana per l’organizzazione di 5 attentati mortali, riemerge il nome di Mohammad Dahlan, stretto collaboratore di Arafat, all’epoca responsabile della sicurezza di Gaza quindi anche del coordinamento con i servizi israeliani. Ricordo, nel 1996-97 quando ero in servizio con un’Agenzia Onu a Gerusalemme e Gaza, come Dahlan, su istruzione di Arafat, colpisse duramente l’insorgere del radicalismo di Hamas fiutandone il pericolo.

La stessa protezione ravvicinata del Rais era affidata a elementi scelti palestinesi e israeliani, a testimonianza di una cooperazione non di facciata. Dahlan combatté i Fratelli musulmani di cui Hamas resta un’emanazione, riuscendo in breve tempo a riscuotere fiducia da israeliani, Usa, donatori occidentali, Egitto, Paesi del Golfo. Pur essendo stato nelle carceri israeliane, fu uno dei primi, assieme ad Arafat, ai negoziatori di Oslo, Nabil Shaat, Abu Ala e altri, a sostenere la necessità della convivenza di due Stati. Alla morte di Arafat il suo potere cominciò ad estendersi anche in Cisgiordania per cui un debole e già screditato Abu Mazen pensò bene di toglierselo di torno accusandolo della preparazione di un colpo di stato e addirittura della morte per avvelenamento di Arafat.

In un colpo solo, con Dahlan costretto a rifugiarsi negli Emirati Arabi Uniti in cui divenne un ricco uomo d’affari e consigliere personale dell’Emiro, il Presidente dell’Anp preparò la disfatta di Gaza da cui fu violentemente cacciato da Hamas, peggiorò i rapporti con Israele, riuscì a indebolire Fatah e l’Anp perfino in Cisgiordania favorendo Hamas, fino ad allora marginale, con una politica ambigua di pessimo cabotaggio.  A meno che dal cilindro non escano nomi nuovi per dirigere la nuova ANP, i più accreditati candidati Barghouti e Dahlan saranno comunque costretti a convivere con il rischio di possibili attentati pianificati dagli oltranzisti islamisti e dai loro finanziatori.

  • Un ruolo politico marginale per l’UE la quale non potrà comunque sottrarsi a importanti finanziamenti per la ricostruzione civile. Conseguenza della irrilevanza della politica estera e di difesa comune della stessa Ue nell’area.
  • Un ruolo importante per singoli Stati europei garanti credibili più neutrali agli occhi dei palestinesi e dei Paesi arabi moderati, nonché degli israeliani.
  • Un sistema di controllo sulle attività ben più rigoroso sia da parte dei contingenti militari di interposizione, sia da parte delle amministrazioni civili locali che da quelle internazionali.

 

Rilevanza della presenza Italiana

L’Italia ha già annunciato la sua eventuale partecipazione ad una forza multinazionale di transizione nella striscia di Gaza qualora questa opzione venisse approvata dalla Comunità internazionale e dalle Parti in causa. Una presenza credibile che offrirebbe al nostro Paese la possibilità di rivestire un ruolo di primo piano nelle fase post conflittuale.

La tradizionale vicinanza al mondo arabo non ha impedito di migliorare ulteriormente le strette relazioni con Israele, rendendo oggettivamente l’Italia più ascoltata e gradita di altri importanti Paesi europei. Sarà auspicabile, dal momento del dispiegamento di un contingente militare, di ricavarne anche rilevanti posizioni civili internazionali nell’area, cosa mai avvenuta a livello Onu e Ue da almeno 30 anni. Per essere chiari ad un impegno finanziario e militare, ad esempio UNIFIL in Libano, di tutto rilievo fra Territori Occupati e Libano non si è mai riusciti a pretendere e ottenere un incarico civile apicale fra negoziatori e responsabili ONU e UE.

Il comandante militare di UNIFIL, spesso italiano, non ha mai avuto il peso politico di un Coordinatore del processo di pace, del Rappresentante o dell’Inviato speciale del Segretario generale dell’ONU in Libano, del Coordinatore di tutte le Agenzie Onu operanti nei Territori Occupati. Si è così passati con costi a volte inutilmente esorbitanti e risultati deludenti dal lunghissimo incarico del norvegese Larsen, a Tony Blair, a francesi in Libano e altri, mai un italiano se la memoria non ci tradisce.

La nomina Ue dell’ex ministro Luigi Di Maio nei Paesi del Golfo non ha avuto peso ne’ rilevanza nell’area del Vicino Oriente. Sarebbe largamente giunto il momento di riscuotere crediti ultra decennali per contare realmente a livello delle Istituzioni internazionali, rendendo concreta una maggiore influenza italiana auspicata spesso dagli stessi interlocutori mediorientali.

Foto: IDF e Hamas. Mappe Institute for the Study of the War

 

E' uno dei maggiori esperti italiani di operazioni internazionali di stabilizzazione, peacebuilding, cooperazione e comunicazione nelle aree di crisi. Dagli anni 80 ha ricoperto incarichi di responsabilità crescenti per l’Onu, la UE e il Ministero degli Esteri in Africa (13 anni), Medio Oriente e Balcani. Specialista di negoziati complessi, è stato Sindaco Onu in Kosovo della città mista di Kosovo Polje dal 1999 al 2001, ha guidato, primo non americano, il PRT di Nassiriyah in Iraq nel 2006 ed è stato Portavoce e Capo della comunicazione della missione europea di assistenza antiterrorismo EUCAP Sahel Niger fino al 2016. Destinatario di un’alta onorificenza presidenziale Senegalese, per l’editore Fermento ha scritto "Alla periferia del Mondo". Scrive su riviste specializzate ed è un apprezzato commentatore per radio e tv.

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