I rischi del conflitto in Medio Oriente

 

Quanto sta accadendo in Medio Oriente è una conseguenza inequivocabile delle attuali spinte alla destrutturazione dello status quo dell’ «ordine internazionale» proveniente da più parti.

Di fronte alla crisi identitaria e di credibilità dell’Occidente – la sfida Trump-Harris e le questioni interne all’ Europa divisa e irrisolta sono d’esempio  – sono stati per primi Putin e Xi a rilanciare l’idea di un nuovo ordine internazionale «multipolare», per restituire centralità – politica, economica e culturale – alla loro Eurasia trascinando anche il Global South.

In particolare, se Putin con la guerra in Ucraina può mirare a riconquistare uno ‘spazio vitale’ per una Russia che torni ai fasti dell’ex Urss, il premier israeliano Netanyahu può archiviare definitivamente il modello ‘due popoli, due Stati’ e la questione palestinese.

Bibi sta approfittando di uno scenario geopolitico a lui favorevole (elezioni presidenziali in Usa, guerra in Ucraina, etc.) e dell’ambiguità della comunità internazionale: in fin dei conti può condurre il ‘lavoro sporco’ per conto degli Stati Uniti e dello stesso Mondo Arabo sunnita per disegnare un New Order (è la denominazione dell’ultima operazione dell’IDF) in Medio Oriente.

Il progetto del ‘Grande Israele’ ispirato dalla destra messianica legata al movimento dei coloni può rivoluzionare l’assetto strategico dell’area, in cui far crollare definitivamente gli storici antagonisti dell’Occidente e dei Paesi arabi (gli iraniani non sono arabi): i sostenitori radicali della Fratellanza Musulmana sopravvissuti in Hamas e nella Jihad Palestinese, e l’Iran (con i suoi proxy), attore regionale che persegue un progetto nucleare e un disegno egemonico sulla umma musulmana.

Netanyahu ha potuto far leva sul risentimento del suo popolo per il massacro del 7 ottobre e l’accerchiamento dell’ ‘anello di fuoco’ guidato dall’Iran.

Dopo i bombardamenti con 42.000 morti a Gaza (secondo i dati di fonte palestinese) per disarticolare Hamas, è il momento del regolamento dei conti con Hezbollah in Libano. Siamo così arrivati alla minaccia diretta del premier israeliano contro le Nazioni Unite, di fatto alla comunità internazionale che aspettava risposte dopo gli attacchi alle forze Unifil. L’intimazione è stata chiara «Signor Segretario generale, mettete le forze Unifil al riparo. Dovete farlo subito, immediatamente!».

Già il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, aveva dichiarato il Segretario Guterres «persona non grata» perché «odia Israele e dà sostegno a terroristi, stupratori, assassini». C’era da sorprendersi? Da tempo Israele viola le Risoluzioni delle Nazioni Unite, ostacola gli aiuti umanitari delle sue agenzie accusate di complicità con i terroristi, e non si cura delle accuse di genocidio e di altri crimini contro l’umanità davanti alle giurisdizioni sostenute dall’Onu, la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Ora la sfida è alle forze Unifil, incurante di ciò che anche sul piano del diritto internazionale può significare.

La reiterazione delle condotte e le dichiarazioni di Netanyahu fanno escludere che i fatti possano essere derubricati a «errore o incidente».

Si tratterebbe perciò di un attacco deliberato, di fronte al quale è bene delineare l’esatto quadro della gravità della violazione al diritto internazionale. La Risoluzione 1701 (2006) ha affidato a Unifil il training e il supporto di sicurezza in favore dell’esercito regolare libanese, le Lebanese Armed Forces (LAF), nel suo rischieramento nel Sud del paese, mantenendo tra la Blue Line e il fiume Litani un’ ‘area cuscinetto’ libera da assetti armati che non fossero quelli del Governo libanese e di Unifil, in sostanza per disarmare Hezbollah e far rientrare Israele nei suoi confini.

Si tratta dunque di una operazione di peacekeeping, una missione di mantenimento della pace che opera ai sensi del Capitolo VI (Soluzione pacifica delle controversie) della Carta delle Nazioni Unite, voluta a suo tempo da tutte le parti, Israele e Libano inclusi, realizzata con la partecipazione di 40 Stati.

Sono noti i motivi per cui questo mandato non ha avuto il successo sperato, soprattutto per i problemi interni al fallimento dello Stato libanese e al disegno destabilizzante di Hezbollah.

Ma di questo Israele deve discuterne davanti alle Nazioni Unite, non certo lanciando un’offensiva contro una «forze di pace». Unifil non è infatti una operazione di peace-enforcement, di ‘imposizione’ coercitiva con l’uso della forza (es. Guerra del Golfo) ai sensi del capito VII della Carta.

Questo inquadramento ha importanti conseguenze, come è stato ben colto dal Ministro della Difesa Crosetto nel precisare che «non sussistono giustificazioni» di sorta, ancor meno la cosiddetta «necessità militare».

La nozione di «necessità militare» nel sistema attuale del diritto internazionale dei conflitti armati non può essere estesa – secondo una nota citazione di Eisenhower – arbitrariamente alla ‘convenienza militare’, ed ha assunto un significato di netta limitazione: il belligerante dovrebbe impiegare solo la quantità di forza ‘necessaria’ per sconfiggere il nemico (N. Ronzitti, Diritto internazionale di conflitti armati. Torino).

In tale quadro la forza di una «missione di mantenimento della pace» ex capitolo VI non può essere considerata belligerante e quindi ‘nemico’. Bene ha fatto dunque il portavoce della missione Unifil a ricordare che in capo a Israele – come alle altre parti – incombe l’obbligo di «garantire la sicurezza e la protezione del personale e delle proprietà dell’Onu».

Le norme di riferimento sono chiare, a cominciare dalla stessa Risoluzione ‘vincolante’ 1701 del Consiglio di Sicurezza, e dalla Convenzione sulla sicurezza del personale delle Nazioni Unite e del personale associato (New York, 9 dicembre 1994).

Fondamentale è poi l’inquadramento anche nei «crimini di guerra», nello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, il c.d. Statuto di Roma, approvato il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002.

Lo Statuto nel richiamare le Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 le ‘leggi e usi di guerra’ all’articolo 8 considera espressamente «crimine di guerra» – al para 2,  b), iii) – «dirigere deliberatamente attacchi contro personale, installazioni, materiali, unità o veicoli utilizzati nell’ambito di una missione di soccorso umanitario o di mantenimento della pace in conformità alla Carta delle Nazioni».

La norma richiede il presupposto che tali forze ONU non operino in combattimenti proattivi (cioè al di fuori della legittima difesa, consentita alle peacekeeping) affinché ad esse sia riconosciuto lo stesso «diritto alla protezione accordata ai civili e alle proprietà civili previste dal diritto internazionale dei conflitti armati»: la condizione è quella pertanto soddisfatta nei limiti del mandato ex Capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite, ed è stata certamente osservata nell’azione di pacificazione sinora espletata dalle forze Unifil con forti autolimitazioni per evitare l’escalation.

Alle proteste ufficiali, Israele deve rispondere con informazioni chiare, e la disponibilità ad un’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite e delle Corti internazionali. Rimane aperta la questione di cosa fare ora della missione Unifil, una prospettiva che pone una serie di delicati interrogativi: ritirare la forza – per proteggere i militari del contingente di pace – significa dare campo libero all’azione bellica di Israele in territorio libanese, mentre cambiare il mandato di Unifil in peace-enforcement in forza del capitolo VII aprirebbe a uno scontro senza precedenti.

L’Onu deve puntare necessariamente alla sua funzione originaria che è quella di ricercare la pace, e in questo va sostenuta dal resto della comunità internazionale – Occidente e Mondo Arabo in primis – che ha tutti gli strumenti (giuridici e d economici, applicando sanzioni e ritirando ogni sostegno militare) per costringere Israele a valutare la conseguenza delle proprie azioni.

L’Occidente farà bene a considerare anche un altro rischio elevato: dagli attuali scenari mediorientali potrebbe essere rilanciata una nuova minaccia del terrorismo nelle città occidentali.

Foto UNIFIL

 

Maurizio Delli SantiVedi tutti gli articoli

Membro della International Law Association, dell'Associazione Italiana Giuristi Europei, dell'Associazione Italiana di Sociologia e della Société Internationale de Droit Militaire et Droit de la Guerre - Bruxelles. Docente a contratto presso l'Università Niccolò Cusano, in Diritto Internazionale Penale/Diritto Internazionale dei Conflitti Armati e Controterrorismo, è autore di varie pubblicazioni, tra cui "L'ISIS e la minaccia del nuovo terrorismo. Tra rappresentazioni, questioni giuridiche e nuovi scenari geopolitici", Aracne, 2015. Collabora con diverse testate italiane ed europee.

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