UNIFIL: la missione dell’ONU in Libano ora non ha più senso

 

La pezza è peggio del buco. La giustificazione con cui la Difesa israeliana ha motivato i primi attacchi ad alcune postazioni dei caschi blu della United Nations Interim Force in Lebanon, (UNIFIL) lungo il confine tra Israele e Libano appare davvero poco convincente e ben difficilmente potrà placare l’ira di diverse nazioni europee, Italia inclusa, che schierano i propri soldati nel Libano meridionale.

Nei giorni scorsi il comando delle Israeli Defence Forces (IDF) ha affermato in una nota di aver colpito la posizione dell’UNIFIL dopo aver aperto il fuoco contro una “minaccia” vicina alle forze di pace nel sud del Libano. Le esplosioni in cui sono rimasti feriti due caschi blu dello Sri Lanka e due indonesiani sono conseguenza di una “minaccia imminente che i soldati israeliani che operavano nel sud del Libano avevano identificato contro di loro.

Un primo esame indica che una postazione dell’UNIFIL, situata a circa 50 metri dalla fonte della minaccia, è stata colpita durante l’incidente”, si legge nella nota.

“Diverse ore prima dell’incidente, l’esercito israeliano aveva informato il personale dell’UNIFIL di rifugiarsi in aree protette e di rimanervi e questa istruzione era ancora valida” al momento dei fatti, aggiunge l’IDF che continua a “esaminare le circostanze dell’incidente”.

Di fatto quindi i militari israeliani sostengono di aver sparato contro gli avamposti dei caschi blu per difenderli e hanno accusato Hezbollah di aver “deliberatamente” messo in pericolo i soldati dell’UNIFIL. In un’altra dichiarazione in cui esprime “profonda preoccupazione”, l’esercito israeliano ha assicurato che “sta conducendo un esame approfondito al più alto livello di comando per stabilire nei dettagli cosa sia successo”.

Una risposta insoddisfacente per Francia, Italia e Spagna ma anche per il comando di UNIFIL, il contingente di 10.400 caschi blu (1.100 sono italiani) guidato oggi dal generale spagnolo Aroldo Lázaro Sáenz che non aveva lamentato attacchi da parte di Hezbollah. Anzi, già il giorno prima degli attacchi israeliani la milizia libanese aveva accusato le IDF di schierarsi a ridosso delle basi dell’ONU utilizzando i caschi blu come scudi umani.

Il 10 ottobre il portavoce di UNIFIL, Andrea Tenenti, aveva riferito che “la situazione è preoccupante, quello accaduto oggi è un atto voluto e deliberato da parte dell’IDF. La nostra presenza rimane. Siamo rimasti anche quando gli israeliani ci hanno chiesto di muoverci dalle postazioni vicino alla linea blu, cosa che ci è stata chiesta quotidianamente, di postarci su postazioni lontane dalla Linea Blu.

È importante che ci sia una presenza, oggi di oltre 10.400 soldati da 50 Paesi. La presenza è al momento voluta non solo per il monitoraggio, ma anche per l’assistenza alla popolazione locale: la maggior parte della popolazione sfollata se n’è andata dal sud del Libano, ma ci sono migliaia di persone bloccate nei vari villaggi. Portare assistenza umanitaria a questi villaggi è sicuramente molto importante. Ed è quello che stiamo cercando di fare, in situazioni molto difficili”.

Se poi si tiene conto che nelle ultime ore gli attacchi israeliani all’UNIFIL sono continuati e lo stesso premier Netanyahu non ha usato mezzi termini per “suggerire” ai caschi blu di sgombrare il campo, il contesto intimidatorio non poteva che provocare risposte preoccupate e richieste di chiarimenti da parte di molti governi che schierano truppe in Libano, inclusi Francia, Spagna e Italia.

Durissime Madrid e Parigi, che hanno sospeso le forniture di armi a Israele, ma toni fermi si registrano anche a Roma dove tutte le massime cariche del governo hanno espresso preoccupazione. Dopo i primi attacchi israeliani ai caschi blu, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha detto chiaramente che “non si parla di ritiro delle truppe italiane dalla missione UNIFIL. Qualunque decisione comunque viene presa dalle Nazioni Unite”.

Crosetto ha poi aggiunto sarcasticamente: “Ai miei colleghi israeliani ho chiesto: cosa succede la prossima volta? Dobbiamo rispondere? Era una domanda provocatoria per far capire la gravità dell’atto” compiuto da Israele.

il 13 ottobre il premier Giorgia Meloni ha chiamato Netanyahu trasmettendogli “in maniera chiara e netta tre messaggi”: gli attacchi all’Unifil sono “inaccettabili”, la missione dell’Onu “non si ritira”, va garantita la sicurezza di tutto il personale.

La risposta è giunta dall’ufficio del capo del governo di Tel Aviv: “dopo le atrocità del 7 ottobre, Israele non permetterà mai più a un’organizzazione terroristica genocida di avvicinarsi ai nostri confini. Né a Gaza né in Libano”.

Il primo ministro esprime “rammarico” per i danni di questi giorni e assicura che “Israele farà tutto il possibile per impedire che l’Unifil subisca vittime”, ma riafferma che “farà tutto il necessario per vincere la guerra”. Netanyahu ha poi riferito al capo del governo italiano di aver detto al segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres che “è arrivato il momento che le forze dell’UNIFIL si ritirino dalle roccaforti di Hezbollah e dalle zone dei combattimenti”.

Meloni concorda però con i vertici dell’ONU, ha rinnovato l’impegno dell’Italia per UNIFIL dicendosi convinta che attraverso la piena applicazione della Risoluzione 1701 si possa contribuire alla stabilizzazione del confine israelo-libanese e garantire il ritorno a casa di tutti gli sfollati, come precisa una nota di Palazzo Chigi.

Crosetto è intervenuto di nuovo, denunciando la “grave violazione”, chiedendo “al capo di Stato maggiore, generale Luciano Portolano, di mettersi in contatto con al suo omologo, il generale Herzi Halevi, per ribadire la necessità di evitare ulteriori azioni ostili”.

Al di là delle lamentele, delle richieste e delle condanne degli attacchi israeliani due elementi sembrano ben chiari: il primo è che Israele vuole massima libertà d’azione sul campo di battaglia per affrontare un nemico che sarà ben più ostico di Hamas mentre il secondo è che Tel Aviv intende perseguire i suoi obiettivi militari anche a costo di pregiudicare le relazioni con nazioni amiche quali l’Italia e la Francia.

A sgombrare ulteriormente il campo da dubbi e incertezze circa la situazione nel Libano del Sud, divenuto ormai un campo di battaglia senza esclusione di colpi, ha contribuito anche il portavoce di Hezbollah, Mohammad Afif. “Al momento la nostra priorità assoluta è sconfiggere il nemico e costringerlo a mettere fine alle sue aggressioni. Qualsiasi sforzo politico interno o esterno per raggiungere questo obiettivo è lodevole, purché sia compatibile con la nostra visione complessiva della battaglia, le sue circostanze e i suoi risultati”, ha aggiunto. In precedenza Hezbollah aveva subordinato la fine delle ostilità al ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza.

La missione UNIFIL risente del mancato rispetto di una parte rilevante della Risoluzione dell’ONU 1701, che prevedeva il disarmo e il ritiro di tutte le milizie dalla regione del Libano meridionale compresa tra il confine israeliano (la Linea Blu) e il fiume Litani.

Hezbollah non ha mai ceduto le armi né si è mai ritirato a nord del fiume Litani (dove peraltro le milizie sunnite non gradirebbero questa ingombrante presenza), né le truppe di Beirut o i caschi blu hanno mai imposto di farlo. Del resto le forze armate libanesi mantengono una presenza poco incisiva che non si è mai posta come alternativa a Hezbollah.

Un contesto che ha visto e vede Hezbollah lanciare razzi su Israele da postazioni vicine ai villaggi e alle basi dei caschi blu, esposte da sempre alla risposta di aerei e artiglieria israeliani.

Che Israele punti a far sloggiare le forze dell’ONU per avere mano libera è quindi comprensibile anche tenendo conto del fatto che i rapporti tra Palazzo di Vetro e governo israeliano non sono mai stati così tesi, specie dopo l’ultimo infuocato intervento di Benyamin Netanyahu all’assemblea dell’ONU.

La recrudescenza degli scontri lungo il confine e le penetrazioni israeliane contrastate con successo dagli Hezbollah lasciano intendere che la guerra per il sud del Libano sarà lunga e sanguinosa e vede i caschi blu fungere da testimoni esposti al fuoco dei belligeranti ma senza essere protagonisti del conflitto né disporre di vere capacità di autodifesa.

La forza dell’ONU dispone di armamento leggero oltre a qualche blindato e mortai ma non è disposta sul terreno in assetto tattico: le sue basi non sono fortificate ma dispongono di rifugi per proteggere il personale. UNIFIL non è schierata per combattere ma per pattugliare il territorio.

I peacekeeper “sono sempre più in pericolo e la loro sicurezza è sempre più a rischio” ha detto Jean-Pierre Lacroix, capo del Dipartimento per le Operazioni di pace dell’ONU (DPKO) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

“Il continuo impegno dei paesi che contribuiscono con le truppe all’UNIFIL, così come il continuo sostegno unito di questo Consiglio sono più importanti che mai”, ha aggiunto. I peacekeeper “restano nella loro posizione mentre i rischi sono in fase di valutazione”.

Pragmaticamente, la battaglia in atto destinata ad ingigantirsi con il progredire della penetrazione israeliana in territorio libanese, rende di fatto vana e inutilmente pericolosa la presenza dei caschi blu in quella regione.

Per comprenderlo basta osservare quali compiti affida a UNIFIL la Risoluzione 1701 dell’agosto 2006:

  • sorvegliare la cessazione delle ostilità tra Israele e Hezbollah
  • affiancare e sostenere le forze libanesi nel loro dispiegamento nel sud, compresa la zona di confine della Linea Blu
  • coordinare le proprie attività con il governo del Libano e il governo di Israele;
  • estendere la propria assistenza per contribuire a garantire l’accesso della popolazione civile agli aiuti umanitari e il ritorno degli sfollati;
  • assistere le forze armate libanesi in operazioni mirate alla definizione dell’area prevista nel paragrafo 8 (compresa tra la Linea Blu e il fiume Litani);
  • assistere il governo del Libano, se da questo richiesto, all’implementazione del paragrafo 14 (cioè il controllo dei confini e tutti gli altri varchi d’accesso per impedire che armi e materiali siano importati in Libano senza il suo consenso)

Non è difficile osservare che nessuno di questi compiti è oggi espletabile nell’attuale contesto bellico.

Si è parlato molto in questi giorni di implementare la risoluzione 1701 e di cambiare le regole di ingaggio dei caschi blu. Ma in pratica cosa vuol dire?

Che le truppe dell’ONU disarmeranno Hezbollah? A parte l’assurdità di voler implementare in un momento di guerra aperta una risoluzione che non è stata implementate in tempo di pace, appare evidente che il compito è impossibile per UNIFIL e lo sarebbe anche se fosse una forza da combattimento mentre a oggi i militari dell’ONU possono sparare solo per autodifesa o per difendere i civili.

E poi verso chi dovrebbero volgere le armi? Contro Israele che invade il Libano? Contro Hezbollah che non consegna le armi e non si ritira? Contro entrambi? I caschi blu, quando scoppia la guerra, non hanno mezzi, munizioni, assetto tattico o forze per affrontare un nemico.

Prima di avventurarsi in valutazioni circa la trasformazione di UNIFIL da forza di pace a forza da combattimento  all’occorrenza aggressiva che risponda con le armi alle forze israeliane e disarmi (con la forza) Hezbollah, sarebbe meglio che i governi europei ed extra-europei  che schierano contingenti in UNIFIL definissero prima all’opinione pubblica quanti caduti ritengano siano accettabili.

È giusto protestare con Israele perché spara contro i soldati dell’ONU ma in caso di guerra aperta tra Israele e Hezbollah la loro presenza non ha più senso, come ha detto oggi il ministro dell’Energia di Israele Eli Cohen che su ‘X’ ha scritto che ”lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire la sicurezza dei suoi cittadini e, se l’ONU non è in grado di aiutare, almeno non dovrebbe interferire e dovrebbe spostare il suo personale dalle zone di combattimento”.

Non si può ignorare che per Israele la missione dell’UNIFIL è ”inutile”, perché non è riuscita a proteggere i cittadini israeliani dagli attacchi di Hezbollah né si può pragmaticamente pretendere, come invocano diversi leader europei, che l’incolumità dei caschi blu venga “garantita” dai belligeranti in un contesto di guerra ad intensità crescente.

Meglio sarebbe quindi provvedere al ritiro immediato o via strada attraversando il Fiume Litani su percorsi prestabiliti per scongiurare di finire sotto il fuoco dei belligeranti, oppure via mare dal porto di Tiro.

Forse oggi nessuno può fermare Israele (a parte i combattenti di Hezbollah) anche se si può discutere se qualcuno in Occidente abbia davvero intenzione di farlo. Gli Stati Uniti a parole esortano Tel Aviv a fermarsi per soddisfare l’elettorato democratico a poche settimane dal voto, ma poi fanno affluire le munizioni indispensabili a Israele per continuare l’offensiva.

Non si tratta di fare il tifo a favore o contro lo Stato ebraico oppure Hezbollah ma di constatare che non esiste pragmaticamente un’opzione diversa dal ritiro, a meno che, per salvare ciò che resta del suo prestigio e contrastare Israele, le Nazioni Unite decidano che qualche decina di caschi blu siano eventualmente sacrificabili.

La determinazione a lasciare i militari dell’ONU rintanati nei loro rifugi sotto il fuoco può risultare infatti giustificata solo dalla volontà dei vertici delle Nazioni Unite, umiliati dall’atteggiamento di Tel Aviv, di non darla vinta allo Stato ebraico. Giustificazione comprensibile ma che sarebbe difficile spiegare ai familiari dei caschi blu che dovessero cadere inutilmente sul campo di battaglia in una guerra non loro e in cui non hanno un ruolo da ricoprire se non quello delle vittime.

@GianandreaGaian

Foto UNIFIL

 

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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