Guerra e tregua in Ucraina

 

di Alessandro Politi

La sventurata guerra iniziata da Vladimir Putin nel febbraio 2022 ha riservato non poche sgradite sorprese a belligeranti, non-belligeranti e neutrali. Iniziata come un Blitzkrieg con la speranza di una facile annessione in mezzo al prevedibile crollo di una nazione ucraina, profondamente divisa tra le sue componenti, insoddisfatta del suo presidente e dubbiosa del suo futuro, si è trasformata in una guerra d’attrito ad alta intensità.

Contrariamente persino alle aspettative statunitensi (si era già preparata l’evacuazione del presidente ucraino Volodymir Zelensky), Kiev ha sfoderato ai danni delle armate russe l’“effetto Valmy”, lo stesso che aveva sorpreso Saddam Hussein nella sua aggressione all’Iran rivoluzionario nel 1980. Nel 1792 l’esercito largamente raccogliticcio della Francia rivoluzionaria fermò nei pressi del villaggio di Valmy, le ben armate ed addestrate forze prussiane, salvando Parigi; le monarchie reazionarie avevano sottovalutato la coesione patriottica non solo dei soldati repubblicani, ma anche di quelli monarchici ormai sotto il tricolore del nuovo stato.

Nella difensiva le truppe ucraine, più agili, meglio coordinate e con una logistica più semplice di quella farraginosa ed insufficiente dei russi, inflissero pesanti perdite, scompaginando il dispositivo d’attacco nemico.

Tuttavia, in maggio il porto chiave di Mariupol viene finalmente espugnato dopo un lungo e cruento assedio, permettendo a Mosca di realizzare la continuità territoriale dalle autoproclamate e non riconosciute repubbliche del Donbass sino alla penisola della Crimea.

È la prima svolta importante del conflitto, insieme ad una diffusa sensazione nell’opinione pubblica russa che, davanti alle avversità, bisogna tener duro “come i battellieri del Volga”, un canto tradizionale musicato nel 1866 e reso celebre dai cori dell’Armata Rossa.

Nel settembre 2022 una grande controffensiva ucraina prende in contropiede le deboli difese russe e compie una fulminea avanzata nella regione di Kharkov, provocando una crisi nella direzione strategica di Putin. Sarà costretto ad annunciare il richiamo alle armi di 300.000 coscritti, provocando la fuga di circa 200.000 renitenti, che sarebbero stati ancor di più se la Polonia e gli stati baltici non avessero sconsideratamente chiuso le loro frontiere ai “turisti” russi.

Nel giugno 2023 la crisi russa si acuisce ancor di più con la rivolta della forza mercenaria Gruppo Wagner, una dimostrazione di forza che viene rapidamente soffocata.

In seguito il fallimento della grande controffensiva ucraina del giugno 2023. I russi hanno imparato nel settembre 2022 la lezione impartita dalla manovra di sfondamento e dalle moderne artiglierie in dotazione agli ucraini, accoppiate alla temibile ricognizione dei droni: seguendo l’esempio dei loro predecessori sovietici nel 1943 nella battaglia di Kursk, si sono trincerati dietro una triplice linea difensiva. Lo sforzo ucraino, disperso su troppi assi, mal coordinato tatticamente e logisticamente, si esaurisce senza penetrare in modo significativo le fortificazioni.

A partire dal dicembre 2023, a partire dal villaggetto di Avdeyevka si mette in moto lo schiacciasassi russo. Innovazioni tecnologiche dei due contendenti a parte (droni, missili balistici e da crociera, guerra cibernetica, armi controcarro e corazzature, coordinamento satellitare, ecc.), questa modalità operativa è veramente primigenia per quella cultura militare, visto che già nel 1914 si parlava del “rullo compressore zarista”.

Le Forze Terrestri della Federazione Russa continuano a subire perdite pesanti per ogni chilometro quadro guadagnato, ma da allora hanno condotto gli attacchi in modo sistematico, lento, metodico, minacciando ogni obbiettivo d’accerchiamento per costringere i difensori a sgomberare. È ormai chiaro che, a parte una fallita puntata verso Kharkov, il nemico russo ha come priorità di conquistare tutto il Donbass, in modo da consolidarne gli stati-fantoccio e presentare una “vittoria” convincente alla propria élite.

Con un comprovato valore, eroismo ed audacia tattico-operativa, le forze ucraine realizzarono il 6 agosto 2024 una formidabile puntata in territorio nemico, occupando la città di Sudzha, cogliendo completamente di sorpresa gli aggressori moscoviti, respinti rovinosamente sul suolo della madrepatria. Inutile ricordare il forte simbolismo della penetrazione in un paese sinora inviolato dal 31 dicembre 1944 ed anche il battage mediatico sull’“offensiva nel Kursk” (involontario sostegno alla propaganda russa, perché il nome ricorda una vittoria contro i nazisti); nei fatti si creò un saliente senza nessun ulteriore risultato operativo e politico.

L’anonima Sudzha ha un valore molto più strategico di quanto s’immagini perché è una stazione di misurazione del gas trasmesso dal gasdotto Druzhba (Fratellanza), miracolosamente distribuito ad Austria, Italia, Moldavia, Slovacchia ed Ungheria sino ad oggi. Purtroppo, i gol della bandiera pesano poco sul tavolo delle trattative, come del resto molti dei guadagni territoriali verso le sanguinose fasi finali di una guerra. Ciò riguarda anche le conquiste russe nell’ottobre 2024, superiori a tutte quelle dal luglio 2022.

Concretamente Putin ha conquistato territori di valore sia economico (Donbass) che strategico (Crimea), riuscendo a rinviare almeno di un quinquennio (e forse di una decade) l’ingresso dell’Ucraina nella NATO e minimo di un decennio quello nell’Europa.

A questo punto, prima d’entrare nel balletto delle soluzioni e cercando d’uscire dalla ridda propagandistica, s’impone una domanda politica e strategica: “ne valeva davvero la pena?”.

Putin ha subito, piaccia o no, una sconfitta strategica rispetto agli obbiettivi dichiarati della sua operazione militare speciale: non ha “de-nazificato” il governo ucraino e non lo ha disarmato. Nel tempo, a questi obbiettivi ha aggiunto la protezione del Donbass e della madrepatria, restando però sempre più vago sugli obbiettivi ultimi. Alla fine si è capito che le dichiarazioni pubbliche russe aiutano poco a capire cosa vogliano veramente e che solo nel corso dei negoziati si avrà davvero un quadro chiaro.

A quale prezzo? In ordine crescente: l’allungamento delle frontiere con la NATO di 1.300 km (quanto la penisola italiana, a causa di Finlandia e Svezia nell’Alleanza); la creazione di un odio generazionale antirusso; la rimilitarizzazione continuata dell’Ucraina; la completa distruzione del sistema di sicurezza condiviso continentale; la perdita dei pregiati clienti energetici europei possibilmente per un decennio; la definitiva perdita del controllo sull’Estremo Oriente russo rispetto all’immigrazione cinese; l’accresciuta dipendenza dall’alleato cinese.

Se la Russia non si fosse impuntata nel 2014 contro l’accordo d’associazione europeo verso Kiev, le cui conseguenze pratiche erano gestibili anche per gl’interessi economici moscoviti, avrebbe evitato la polarizzazione (poco importa se spontanea e/o pilotata) che incrinò il governo Yanukovich, costringendo poi alla fulminea e ben preparata operazione ibrida in Crimea ed a quella più improvvisata nel Donbass. Persino nel 2022, il potere di condizionamento russo sulla politica ucraina era considerevole, come dimostrava la malleabilità di Zelensky nel periodo prebellico. La decisione di Putin di entrare in guerra è stata dettata molto dalla disperazione di una presunta inarrestabile spirale pro-NATO: in definitiva, egli ha danneggiato l’interesse nazionale russo.

E per i capi di Euromaidan durante la fatale notte del 21 febbraio 2014? Valeva davvero la pena di accettare la violenza armata di un gruppuscolo destrorso, silurando il compromesso raggiunto dai ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia con il governo Yanukovich?

A danno fatto, l’ex consigliere presidenziale ucraino Oleksiy Arestovych, pose nel 2019 il crudo dilemma: per entrare nella NATO il prezzo sarebbe stata una grande guerra (vinta) oppure l’assorbimento da parte russa nel giro di 10-12 anni. No, la guerra non è stata vinta come si voleva, l’assorbimento russo non è ad oggi molto probabile ed il prezzo pagato è il coma demografico ed economico quasi irreversibile per il prossimo ventennio.

Una riflessione a parte andrebbe fatta sulla dimensione economica prima e durante la guerra: a quanto pare la stretta interdipendenza economica non ha impedito la decisione di entrare in guerra e le sanzioni non hanno creato gli effetti necessari, sperati nel breve termine. La prima illusione, non solo tedesca (finita peraltro con la forte reazione russa alla crisi georgiana nel 2008), ha radici vecchie quanto la Belle Epoque; in effetti prima della Grande Guerra il mondo civilizzato, colonie incluse, era assai interdipendente, eppure alla fine i timori incrociati favorirono la caduta in guerra dell’Europa intera, seguita dagli Stati Uniti.

La seconda illusione legata alle sanzioni ha origine nella Società delle Nazioni, ma soprattutto è rimasta pervicacemente perdurante, nonostante l’intera Guerra Fredda ed il trentennio successivo ne abbiano dimostrato ampiamente i limiti. Il Sudafrica dell’apartheid non è finito per le sanzioni, mentre Corea del Nord, Cuba, Iran, Nicaragua, Siria e Venezuela non hanno cambiato linea politica o strategica dopo decenni di blocco economico.

Asciuttamente, la macchina bellica di Putin si è alimentata nonostante 14 pacchetti di sanzioni europee ed il suo regime non è stato sinora scalfito da questi strumenti. Concretamente, è il momento di togliere le sanzioni più inutili ed autolesioniste, mantenendo quelle più significative sia a tempo indefinito sia come pegno di scambio. Non è una decisione politicamente facile, ma la compattezza del consenso politico e sociali in una lunga partita, anche postbellica, si alimenta con decisioni sensate.

E adesso, che fare? Fermare la guerra innanzitutto, perché la vera posta in gioco non è per ora il territorio, ma il tempo, per tutti. Una sospensione delle ostilità (tregua, congelamento, forse pace provvisoria) che: non riconosca le annessioni russe; non impedisca un approfondimento dei rapporti ucraini con l’Europa a tutti i livelli, in cambio di un progressivo allentamento delle sanzioni; non precluda (come oggi) la “politica della porta aperta” in un futuro e che, intorno ai confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina ed alle linee del fronte, sia in grado di favorire una smilitarizzazione monitorata da organizzazioni multilaterali, parte di un più vasto complesso di garanzie reciproche.

La Russia e l’Ucraina hanno bisogno di tempo per ricostruirsi, non solo nelle forze militari, ma soprattutto a livello socio-economico per evitare ulteriori fragilità dei loro sistemi politici. L’UE e gli USA hanno bisogno di tempo per recuperare o rafforzare il loro dinamismo economico, senza il quale non avranno né il burro per stabilizzare le rispettive società, né per comprare i cannoni necessari ad una credibile deterrenza convenzionale, né per aiutare l’Ucraina a qualunque livello. La Cina ha bisogno di tempo per ricomporre la sua struttura economica in crisi e per superare le conseguenze indirette della guerra.

È vero che i due belligeranti hanno presentato piani di pace o di “vittoria”, molte delle cui richieste sono spesso non ricevibili od irrealistiche, ma è compito delle diplomazie ricondurre al buon senso i rispettivi massimalismi e far adottare le misure più urgenti in grado di alleviare le sofferenze di gente normale (rimpatrio dei prigionieri, assistenza alle fasce sociali vulnerabili, ricostruzioni d’infrastrutture condivise a fini umanitari, ecc.).

La grande, amara lezione del 1945 è stata che, dopo una grande guerra, non ci sono vincitori, ma diversamente perdenti.

Foto: Telegram, Ministero Difesa Ucraino e Ministero Difesa Russo

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