Il disastro africano di Macron e le opportunità (non sfruttate) per l’Italia

 

Due secoli di influenza e presenza militare francese in Africa spazzati via da due mandati presidenziali di Emmanuel Macron.

Dopo Mali, Niger e Burkina Faso, le cui giunte militari avevano cacciato le truppe francesi (ma anche quelle della UE sotto comando francese in Mali dell’Operation Barkhane e quelle tedesche e statunitensi in Niger), i militari e le basi di Parigi vengono estromessi ora anche da Senegal e Ciad, proprio mentre Macron stava mettendo a punto un piano per ridimensionare la presenza nelle nazioni africane che ancora accettano la sempre più ingombrante “tutela” francese.

 

Il Senegal caccia i francesi

Il 27 dicembre il primo ministro senegalese Ousmane Sonko, durante una “dichiarazione di politica generale” in Parlamento, ha annunciato la “prossima chiusura di tutte le basi militari straniere in Senegal”: frase che in modi non esplicito significa la cacciata delle truppe della Francia, unica nazione straniera a disporre dui basi nel paese dell’Africa Occidentale.

Sonko ha precisato che questa decisione è stata presa dal presidente della Repubblica, Bassirou Diomaye Faye, senza rendere nota la data ma garantendo che ciò avverrà presto.

“È arrivato il momento che il Senegal gestisca la propria difesa e il proprio territorio, senza influenze esterne”, ha affermato Sonko chiarendo che questa misura fa parte “della volontà di rafforzare l’autonomia nazionale in materia di sicurezza”.

Già nel maggio scorso Sonko aveva messo sul tavolo la possibilità di chiudere le basi militari francesi – dove si trovano circa 350 militari – dopo aver sostenuto, a meno di un mese dal suo insediamento, che la sovranità nazionale del Paese “è incompatibile con la presenza delle basi militari straniere”.

In un’intervista pubblicata da Le Monde, il presidente Faye ha detto che “solo perché i francesi sono qui dai tempi della schiavitù non significa che sia impossibile fare altrimenti”.

 

Francesi via dal Ciad entro gennaio

Il governo del Ciad, considerato il partner più stabile e leale della Francia in Africa, ha annunciato il 28 novembre la fine della cooperazione militare con Parigi allo scopo di “ridefinire la propria sovranità”, imponendo così ai francesi il ritiro di tutte le forze presenti, un migliaio di militari e una dozzina di velivoli.

Il 26 dicembre il ministero della Difesa di N’Djamena ha reso noto che le truppe francesi avevano abbandonato la base aerea di Faya Largeau, 780 chilometri a nord della capitale, la prima delle tre basi detenute dai militari di Parigi nella nazione del Sahel.

“Il Ciad e la Francia continueranno a lavorare strettamente per assicurare un ritiro rapido e rispettoso delle forze francesi, preservando allo stesso tempo la sovranità di ciascun Paese” si legge in un post.

I militari di Parigi, circa una cinquantina, hanno lasciato la base di Faya, nel nord del Paese, con un convoglio composto da 54 veicoli in direzione della capitale ciadiana dove all’aeroporto sono schierate le forze aeree francesi con UAV Reaper, velivoli da combattimento e arei da trasporto. Lo Stato maggiore francese ha precisato che il ritiro “è avvenuto sulla base del calendario e delle condizioni concordate con il Ciad”.

Mezzi e attrezzature verranno trasferiti con lunghi convogli nel porto camerunense di Douala per il rientro in Francia mentre la gran parte del personale verrà rimpatriato in aereo.

Le forze francesi restano al momento presenti nelle basi nella città orientale di Abeche (un centinaio di militari) e nella capitale N’Djamena (circa 700), dove sono in corso i preparativi per il ritiro dell’intero contingente aereo e terrestre. Un primo reparto di 120 militari francesi è già stato rimpatriato da N’Djamena prima di Natale e dallo stesso aeroporto erano rientrati in Francia il 10 dicembre 2 cacciabombardieri Mirage 2000.

Il Ciad era rimasto l’ultimo bastione della presenza francese nel Sahel dopo che Mali, Burkina Faso e Niger avevano aperto la porta alla presenza militare russa e alla cooperazione militare anche con Cina e Turchia.

Nell’aprile scorso il Ciad aveva interrotto anche la cooperazione militare con gli Stati Uniti, allontanando il centinaio di militari americani di aeronautica e forze speciali presenti a N’Djamena. Il 20 dicembre il governo del Ciad ha chiesto a Parigi di accelerare le operazioni per completarle entro il 31 gennaio.

“E’ ora per il Ciad di affermare la sua piena sovranità e di ridefinire i suoi partenariati strategici, sulla base delle sue priorità’ nazionali”, ha dichiarato in un comunicato il ministro degli Esteri, Abderaman Koulamallah, precisando che la decisione non rimette in questione “le relazioni storiche e il legame di amicizia fra i due Paesi“.

Il ministro ha affermato che il Ciad si impegna a collaborare con le autorità francesi ad assicurare “una transizione armoniosa” e “rimane determinato a mantenere relazioni costruttive con la Francia in altri ambiti di interesse comune”.

Koulamallah ha espresso “gratitudine alla Repubblica francese per la cooperazione condotta nel quadro dell’accordo” e ha aggiunto che il Ciad “rimane aperto ad un dialogo costruttivo per esplorare nuove forme di partenariato“.

 

Una débacle per Parigi

Gli annunci di Senegal e Ciad sono arrivati ​​mentre la Francia stava cercando di rilanciare la sua influenza in declino in Africa. “La decisione del Ciad segna l’ultimo chiodo nella bara del dominio militare postcoloniale della Francia nell’intera regione del Sahel”, ha affermato Mucahid Durmaz, analista senior presso la società di consulenza sui rischi globali Verisk Maplecroft, intervistato dall’Associated Press.

Le decisioni del Senegal e del Ciad “fanno parte della più ampia trasformazione strutturale nell’impegno della regione con la Francia, in cui l’influenza politica e militare di Parigi continua a diminuire”, ha aggiunto Durmaz.

Jean-Marie Bockel, inviato personale di Macron per l’Africa, in novembre ha presentato all’Eliseo un rapporto sull’evoluzione della presenza militare francese in Africa i cui dettagli non sono stati divulgati ma tre alti funzionari francesi citati dall’agenzia AP, parlando in condizione di anonimato, hanno affermato che la Francia mirava a una forte riduzione della presenza militare in tutte le sue basi in Africa, ad eccezione di Gibuti, dove Macron si è recato il 20 dicembre in visita alla guarnigione di1.500 militari con i quali il presidente ha trascorso la vigilia e la cena di Natale.

L’esercito francese all’inizio del 2024 ha istituito un Comando per l’Africa, sulla falsariga dello statunitense AFRICOM con sede a Stoccarda (Germania).

Il comandante delle forze francesi in Africa, il generale di brigata Pascal Ianni, (nella foto sopra) è specializzato in Info-Operations e guerra d’influenza, un’esigenza evidenziata dalla crescente presenza della Russia in Africa, dove la Francia schiera ancora 600 militari in Costa d’Avorio e 350 in Gabon, oltre ai 1.500 a Gibuti e 900 a Mayotte, l’isola dell’Oceano Indiano colpita recentemente da un uragano che ha visto un rilevante intervento di soccorso delle forze armate francesi.

 

Valutazioni

La cacciata dei francesi dall’Africa rappresenta una disfatta per Macron anche se rientra nel crollo generale di credibilità dell’Occidente nel continente africano acceleratosi dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Un crollo che non ha risparmiato dall’estromissione dal Sahel anche forze statunitensi e tedesche.

L’Italia, unica nazione occidentale a mantenere la presenza militare in Niger, non sembra però in grado di porsi come alternativa alle altre potenze occidentali cadute in disgrazia in Africa, lasciando così senza rivali la penetrazione militare, politica ed economica di Russia, Cina e Turchia.

In questo contesto il cosiddetto “Piano Mattei” costituisce un’opportunità mancata a causa di un approccio troppo incentrato sugli aspetti umanitari e che vede gli investimenti dispersi nell’ambito di progetti sovranazionali in cui l’Italia non né protagonismo né visibilità.

I sei pilastri del Piano Mattei (Istruzione e formazione, Agricoltura, Salute, Energia, Acqua e Infrastrutture) non includono Difesa e Sicurezza che emergono però platealmente come le prioritarie esigenze espresse dai governi africani. Naturale quindi che vengano preferiti i pacchetti offerti dalla Russia (consiglieri militari, istruttori, contractors e armamenti) o da Turchia e Cina.

Anche osservando i finanziamenti di 600 milioni di euro destinati ai primi progetti del Piano Mattei appare evidente che “l’italianità” viene molto annacquata all’interno di iniziative targate USA, UE, Banca Mondiale e altri organismi.

Tra i 22 progetti finanziati, quello più rilevante (fino a 300 milioni) è costituito dalla Fase 2 di sviluppo del “Corridoio di Lobito”, la nuova connessione ferroviaria tra l’Angola e la regione mineraria del rame in Zambia, progetto guidato da USA e UE.

Altri 71 milioni sono destinati al Kenya dal Fondo italiano per il clima per l’ampliamento della produzione di olio vegetale per biocarburanti avanzati, il cui esecutore è Eni Kenya in partenariato con il ministero dell’Agricoltura locale. I fondi italiani amplificano un finanziamento di 128 milioni dell’International Finance Corporation (Banca Mondiale), per un pacchetto complessivo di circa 200 milioni. Circa altri progetti è stata evidenziata la sinergia con il Global Gateway dell’UE.

Paradossale quindi che i pochi fondi che l’Italia può rendere disponibili vengano diluiti in progetti che portano le bandiere di USA e UE, sempre meno popolari nel continente africano e soprattutto nelle nazioni di maggiore interesse per l’Italia, cioè quelle di Nord Africa e Sahel.

Senza un pilastro per la Sicurezza e la Difesa e senza progetti interamente italiani sviluppati con i governi africani le possibilità di una reale penetrazione dell’influenza di Roma in Africa rischiano di restare del tutto irrisorie.

@GianandreaGaian

Foto: Ministére des Armées Francese

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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