Il “pragmatismo” degli Stati Uniti in Siria

 

La decisione degli Stati Uniti di rimuovere la taglia di dieci milioni di dollari su Ahmad Al-Sharaa, alias Abu Mohammad al-Jolani, leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), rappresenta un passaggio significativo nel lungo e tormentato rapporto di Washington con la Siria. Nonostante HTS resti ufficialmente nella lista nera dei gruppi terroristici di Washington, l’incontro tra la sottosegretaria di Stato per gli affari del Vicino Oriente, Barbara Leaf, e Al-Sharaa suggerisce una revisione strategica che merita un’analisi più approfondita.

Definire Al-Sharaa un “leader pragmatico” e considerare l’incontro “produttivo e dettagliato” è una scelta di parole che non lascia spazio a dubbi: gli Stati Uniti stanno cercando di ricalibrare la loro presenza in Siria sfruttando ogni leva disponibile, inclusi i leader jihadisti un tempo demonizzati. Questo cambio di tono non è casuale, ma riflette una lunga tradizione di pragmatismo spregiudicato nella politica estera americana, dove i nemici di ieri diventano strumenti utili per raggiungere obiettivi contingenti.

Leaf ha giustificato la decisione affermando che mantenere la taglia su Al-Sharaa sarebbe “incoerente”. Una dichiarazione che solleva interrogativi non solo sul passato, ma anche sul futuro della politica americana in Siria. È la stessa incoerenza che ha caratterizzato l’intervento americano nel Paese: sostenere ribelli islamisti per indebolire Bashar al-Assad, solo per poi affrontare le conseguenze di un mosaico di gruppi armati fuori controllo.

La rimozione della taglia coincide con il primo incontro diplomatico americano in Siria dal 2011. Questo suggerisce che gli Stati Uniti riconoscano la necessità di un riadattamento della loro politica, in un contesto in cui il loro ruolo nella regione è stato ridimensionato da attori come la Russia, l’Iran e persino la Turchia. Tuttavia, questa mossa potrebbe anche essere interpretata come un’ammissione di fallimento: dopo anni di sanzioni devastanti e tentativi di rovesciare Assad, gli Stati Uniti non sono riusciti a plasmare la Siria secondo i loro interessi.

Al tempo stesso, questo avvicinamento a un leader jihadista di spicco potrebbe essere letto come un tentativo di dividere ulteriormente le forze antigovernative in Siria, isolando i gruppi più radicali e cercando di cooptare quelli considerati più gestibili. È una strategia che gli Stati Uniti hanno già adottato in passato in Afghanistan e Iraq, con risultati spesso disastrosi nel lungo periodo.

La Siria, tuttavia, resta una pedina fondamentale nella scacchiera geopolitica. Per gli Stati Uniti, mantenere una presenza, anche indiretta, è essenziale per contenere l’influenza di Iran e Russia, i principali alleati di Assad. Ma le contraddizioni della politica americana sono evidenti: da un lato, si rimuove la taglia su un leader jihadista, dall’altro si mantengono sanzioni devastanti contro il popolo siriano, aggravando una crisi umanitaria senza precedenti.

La retorica sulla necessità di garantire che “i gruppi terroristici non rappresentino una minaccia” suona vuota se confrontata con le azioni sul campo. Gli Stati Uniti hanno armato e sostenuto vari gruppi ribelli durante la guerra civile, contribuendo alla frammentazione del Paese. Ora, sembrano voler riutilizzare lo stesso approccio, sperando che leader come Al-Sharaa possano essere utilizzati per arginare altre minacce, in primis quelle legate all’Iran.

Se da un lato la decisione di Washington può sembrare pragmatica, dall’altro rischia di perpetuare lo stesso ciclo di instabilità che ha caratterizzato la Siria negli ultimi dodici anni. Gli Stati Uniti sembrano disposti a scommettere su alleanze tattiche a breve termine, senza considerare le implicazioni a lungo termine di legittimare figure come Al-Sharaa. Queste scelte non solo rischiano di alienare ulteriormente la popolazione siriana, ma potrebbero anche consolidare la narrativa jihadista secondo cui i leader occidentali utilizzano il terrorismo come strumento politico.

L’incontro tra Leaf e Al-Sharaa rappresenta, nel migliore dei casi, una mossa calcolata per ottenere vantaggi tattici in una regione instabile. Tuttavia, la Siria avrebbe bisogno di un approccio completamente diverso: un impegno serio per ridurre le sanzioni, promuovere la ricostruzione e incentivare una soluzione politica inclusiva. Continuare a giocare con le alleanze instabili e sfruttare i leader jihadisti rischia solo di prolungare il conflitto e le sofferenze della popolazione.

Washington, ancora una volta, dimostra di non avere imparato dalla storia. In Siria, come altrove, il pragmatismo spregiudicato degli Stati Uniti potrebbe finire per alimentare nuovi conflitti, lasciando un Paese già devastato in balia di un futuro ancora più incerto.

 

Giuseppe GaglianoVedi tutti gli articoli

Nel 2011 ha fondato il Network internazionale Cestudec (Centro studi strategici Carlo de Cristoforis) con sede a Como, con la finalità di studiare in una ottica realistica le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l'enfasi sulla dimensione della intelligence e della geopolitica alla luce delle riflessioni di Christian Harbulot fondatore e direttore della Scuola di guerra economica (Ege). Gagliano ha pubblicato quattro saggi in francese sulla guerra economica e dieci saggi in italiano sulla geopolitica.

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