In Libano e Siria la sfida tra Israele, Turchia e Iran

 

Il cessate il fuoco, molto imperfetto, in atto dall’alba del 27 novembre 2024 fra Israele e le milizie sciite Hezbollah resta fragilissimo, fra accuse di reciproche violazioni, nuove scaramucce e incursioni a singhiozzo. Ma intanto la caduta del regime di Damasco fa incassare a Israele un successo geopolitico già sfruttato con la fulminea occupazione della fascia smilitarizzata sul Golan. L’accettazione da parte di Israele della tregua con gli sciiti libanesi è stata dichiaratamente motivata col risparmiare le forze per un paese che ha aperto ancora il fronte della Striscia di Gaza e guarda sempre alla polveriera Cisgiordania e a sorprese da parte del “master” dell’alleanza ostile, l’Iran.

Ma, evidentemente non a caso, il calderone della guerra civile siriana è riesploso “magicamente” proprio nelle stesse ore in cui il fronte libanese sembrava rasserenarsi, con la coalizione guidata dal movimento d’ispirazione qaedista Hayat Tharir Al Sham lanciata verso Damasco, infine occupata l’8 dicembre. Che dietro l’offensiva jihadista in Siria ci sia solo la Turchia oppure anche i “servizi segreti ucraini”, come accusa Mosca, o “l’asse USA-Israele”, come sostengono Teheran ed Hezbollah, di certo è un evento che ha significato uno smacco per la Russia e l’asse Iran-Hezbollah. Facilitando a Tsahal, il complesso delle forze armate ebraiche, un’economia di forze nel conflitto prolungato su più fronti in atto da oltre un anno.

Tutti hanno cantato vittoria dopo la tregua, pur fragilissima e costantemente a rischio, siglata fra Israele e Hezbollah il 26 novembre 2024 ed entrata in vigore all’alba del mattino seguente, dalle 4.00 del 27 novembre.

Ma il parallelo riaccendersi della guerra civile siriana, poche centinaia di chilometri più a Nord, praticamente alle spalle dello schieramento delle milizie sciite libanesi Hezbollah, e dei loro fornitori d’armi e istruttori iraniani, ha fatto capire come, di fatto, sia Israele, finora, ad aver beneficiato dei nuovi sviluppi. Oltre, ovviamente, alla Turchia, malcelata ispiratrice dei jihadisti, che non ha voluto fare un favore alla non certo amica Tel Aviv, bensì persegue l’autonomo disegno “neo-ottomano” d’allargamento della sua influenza a ridosso del confine meridionale, per tenere a bada i curdi mirando ad almeno una parte degli antichi territori perduti nel lontano 1918, alla fine della Prima Guerra Mondiale, dall’estinto sultanato di Istanbul.

Lo stato ebraico, che rischiava di essere messo in crisi, alla lunga, da una mobilitazione permanente su troppi fronti, ha visto ribaltarsi a suo favore la situazione, con il crollo del regime del partito nazionalsocialista Baath di Bashar al-Assad, confermata l’8 dicembre dall’ingresso a Damasco dei ribelli jihadisti sunniti del fronte guidato dal movimento Hayat Tharir Al Sham (HTS), guidato dall’ex-qaedista Abu al-Jolani, alleato di formazioni come Syrian National Army e gruppi turcomanni, tutti sostenuti dalla Turchia, e dalla fuga a Mosca dell’ormai ex-presidente alleato di Russia e Iran.

Sebbene la Turchia sia considerata il “mandante perfetto” dell’offensiva di HTS e seguaci, c’è chi vi ha visto altri “zampini”, anch’essi plausibili, seppure forse in misura minoritaria.

Fonti russe, ma anche ucraine, come il Kyiv Post, hanno insinuato che anche i servizi segreti militari ucraini GUR abbiano aiutato i ribelli anti-Assad, specialmente istruendoli nell’uso di droni kamikaze a visione in soggettiva, o “FPV”, da First Person View.

Come ha scritto il 2 dicembre l’esperto Ragip Soylu di Middle East Eye: “Molti osservatori in Turchia ritengono che l’uso di droni FPV abbia dato ai combattenti dell’opposizione siriana un vantaggio importante sulle forze di Bashar El Assad in questi giorni. Tali droni hanno permesso ai ribelli di mirare a bersagli oltre la linea di fuoco, rendendo inefficaci i veicoli corazzati attraverso attacchi coordinati e facendo collassare le prime linee”.

E l’inviato presidenziale russo per la Siria, Alexander Lavrentiev, è stato fra coloro che hanno segnalato la presenza di agenti del GUR nella provincia di Idlib, a istruire i ribelli di Hayat Tharir Al Sham all’uso di simili droni.

E’ plausibile che Kiev abbia contribuito a creare una diversione per disturbare i russi, sebbene valida solo dal punto di vista politico, dato che la scarsità di forze russe presenti in Siria, di fatto rende la caduta di Damasco poco influente sulla lotta decisiva in atto sul fronte del Donbass.

Molto concreto è stato invece l’effetto sulla parallela guerra combattuta da Israele contro Hezbollah in Libano, per giunta in concomitanza con la citata tregua. Ciò conferma il carattere di “vasi comunicanti” delle guerre in Siria e Libano e rende comprensibile l’accusa iraniana a Israele di aver favorito l’offensiva jihadista che ha rovesciato Assad.

Anche perché agli israeliani non è stato certo necessario, forse, mandare agenti del Mossad sotto copertura a fare da consulenti ad Hayat Tharir Al Sham. E’ bastata la lunga, diuturna, opera di indebolimento delle forze armate siriane e di Hezbollah, portata avanti ancora nelle ultime settimane dall’aviazione ebraica.

Il 26 novembre, quando il suo governo stava per approvare il piano di cessate il fuoco in Libano, e appena un giorno prima dello scattare dell’offensiva di Al Julani, il premier israeliano Benjiamin Netanyahu, aveva, letteralmente, profetizzato: “In Siria stiamo impedendo sistematicamente i tentativi di Iran, Hezbollah e dell’esercito regolare di trasferire armamenti in Libano. Assad deve capire che sta giocando con il fuoco”. Ancora un segnale del legame indissolubile dei due conflitti.

Infine, con la fine del governo Baath in Siria, l’esultanza ebraica è stata ben espressa, l’8 dicembre, da Netanyahu: “È un giorno storico per il Medio Oriente. Il regime di Assad è un anello centrale della catena del male dell’Iran, questo regime è caduto”.

E ha aggiunto, rivendicando l’importanza del logoramento dell’asse Iran-Siria-Hezbollah dovuto ai continui attacchi di aerei e missili israeliani: “Questo è il risultato diretto dei colpi che abbiamo inflitto all’Iran e a Hezbollah, i principali sostenitori del regime di Assad. Questo ha creato una reazione a catena in tutto il Medio Oriente di tutti coloro che vogliono liberarsi da oppressione e tirannia”.

E, riconoscendo implicitamente che i rivolgimenti a Damasco sono dovuti allo zampino della Turchia e all’opera pratica di milizie jihadiste: “Questo “crea nuove opportunità, molto importanti per Israele, ma non privo di rischi”. Netanyahu ha fatto queste dichiarazioni la mattina del giorno 8, mentre visitava il Monte Bental, sulle alture del Golan.

Poche ore dopo, truppe israeliane entravano, per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur del 1973, in territorio siriano attestandosi nella fascia smilitarizzata del Golan che da oltre 50 anni faceva da cuscinetto tra i due paesi. Secondo quanto precisato il 9 dicembre da Tsahal, il complesso delle forze armate ebraiche, sono stati commandos dell’Unità 5101 Sayeret Shaldag, a entrare in Siria raggiungendo il Monte Hermon.

L’azione rientra nella costante pratica di Israele dell’assicurarsi fasce di sicurezza ovunque possibile, approfittando dei vuoti di potenza nel settore interessato e non a caso ha avuto per protagonista un’unità che anche di recente ha compiuto infiltrazioni in Siria, di cui ben conosce palmo a palmo il territorio.

L’8 settembre 2024, incursori della Sayeret Shaldag, introdotti con elicotteri mentre l’aeronautica israeliana compiva bombardamenti diversivi, hanno distrutto con un’azione di sabotaggio una fabbrica sotterranea di missili finanziata dall’Iran nella città siriana di Masyaf, nel quadro della generale interdizione dei rifornimenti destinati a Hezbollah.

Sulla permanenza delle truppe israeliane nel Golan siriano, la mattina del 9 dicembre il ministro degli Esteri Gideon Saar ha detto che “la presenza delle forze israeliane in territorio siriano è una misura limitata e temporanea per garantire la sicurezza di Israele, unico interesse che abbiamo”.

L’ingresso delle forze speciali ebraiche nella fascia smilitarizzata è avvenuto, come assicura Tsahal, “in coordinamento con il personale ONU della Forza di osservazione del disimpegno delle Nazioni Unite, UNDOF”.

Contrariata dall’ingresso degli israeliani nella zona cuscinetto del Golan è però la Giordania, il cui ministro degli Esteri, Aymane Safadi, ha riferito al Parlamento di Amman su quella che ha definito “una violazione del diritto internazionale, un’escalation inaccettabile e un attacco alla sovranità di uno Stato arabo”.

Ancor più forte è stata la reazione dell’Egitto, che in una nota del Ministero degli Esteri del Cairo ha bollato quella israeliana, come “un’ulteriore occupazione di terra siriana”, in aggiunta alla fascia di Golan di fatto già annessa a Israele fin dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Ben si capisce la preoccupazione egiziana se si considera che l’episodio del Golan possa essere un precedente che evochi future mosse unilaterali israeliane in fatto di fasce di sicurezza anche in relazione alla Striscia di Gaza e, più in generale, alla penisola del Sinai. Gli oltre 45 anni di pace tra Egitto e Israele, sono frutto degli accordi di Camp David del 1978 fra l’allora presidente egiziano Anwar El Sadat e il premier israeliano Menachem Begin, costruiti sulle fondamenta del graduale ritiro israeliano dal Sinai, che ritocchi unilaterali della frontiera israelo-egiziana metterebbero in crisi.

In parallelo, il ministro israeliano Saar ha confermato che l’aeronautica con la Stella di Davide “ha distrutto missili e armi chimiche in territorio siriano per evitare che cadano in mano ai ribelli”. L’arsenale missilistico di Assad, che conta centinaia di vettori balistici di derivazione Scud, come gli Hwasong nordcoreani, gli Shahab iraniani, senza contare vecchi vettori russi, è molto ampio ed è una delicata eredità per i nuovi padroni del paese (o almeno di parti di esso).

Non meno minaccioso è il pericolo di armi chimiche che possano essere state conservate in segreto da Assad nonostante la sua adesione nel 2013 alla Convenzione internazionale sulle armi chimiche, CWC, in base alla quale nel 2014 consegnò le circa 1000 tonnellate di iprite e gas nervini VX e Sarin in possesso di Damasco.

Ma il 7 dicembre il New York Times ha rivelato che “l’intelligence USA ritiene che le forze di Assad abbiano mantenuto limitate quantità di armi chimiche fra cui munizioni caricate con gas nervino Sarin e sta monitorando siti sospetti con arsenali chimici”.

Le incursioni aeree israeliane in aree della Siria limitrofe al Golan e ai confini con Giordania e Libano hanno interessato, secondo un comunicato del pomeriggio del 9 dicembre, depositi di armi e impianti nei paraggi di Suwayda, Daraa, Qunaytra e della stessa Damasco, fra cui gli stabilimenti del centro SSSRC, dalla sigla inglese Syrian Scientific Studies and Research Center, anche se il nome originario francese sarebbe Centre d’études et de recherches scientifiques (CERS).

E’ il complesso industriale che fin dal 1971 si è occupato della costruzione su licenza in Siria di missili russi e poi nordcoreani e iraniani, nonché dello sviluppo di testate chimiche.

Anche ipotizzando che i jihadisti del fronte Hayat Tharir Al Sham non abbiano le competenze tecniche per riprendere la produzione militare locale, la disponibilità espressa da Abu al-Jolani per un’amnistia a tutti i militari governativi rende plausibile una collaborazione tecnica sotto gli ordini del nuovo potere di Damasco.

Fra altri obbiettivi degli F-16 ed F-35 israeliani in territorio siriano, secondo l’Osservatorio siriano dei Diritti Umani, con sede a Londra ma con una rete di referenti sul territorio, “depositi di armi e munizioni antiaeree” a Latakia e Tartus, e “magazzini di armi anticarro” a Qalamoun.

E’ chiaro che il confine con una Siria in mano a milizie jihadiste sunnite, sorta di reincarnazione di Al Qaeda, pone minacce diverse da quelle di un regime filoiraniano, ma sempre pericolose, specie in termini di rischi di infiltrazione terroristica. Ma una minaccia jihadista sunnita è, per il momento, proiettata in un momento futuro e nell’immediato Israele esulta per la rottura dell’architrave Teheran-Damasco.

I raid contro gli arsenali, poi, hanno evidentemente un doppio scopo, non solo evitare che nutrite quantità di armi cadano in mano ai jihadisti di Al Julani, ma anche impedire che, nel disfacimento del vecchio regime, elementi Hezbollah e dei pasdaran iraniani ancora presenti in loco siano tentati di arraffare quanto possibile per inviarlo in Libano a rinforzare la milizia sciita.

 

Guerra a tre

Senza considerare in questa sede, per non espandere a dismisura il discorso, le ripercussioni geopolitiche in termini di arretramento delle posizioni russe nel Mediterraneo, che potrebbero, col tempo, ripiegare sulla Libia orientale, e di parallela espansione di quelle turche, l’apocalisse del regime di Assad fa mancare all’Iran e a Hezbollah il retroterra strategico che alimentava flussi di armi da Teheran alle milizie sciite libanesi, oltre ad assicurare loro basi di addestramento e depositi, nonché distaccamenti della forza Quds dei pasdaran, la divisione da proiezione estera della Guardia Rivoluzionaria iraniana, ospitati da Assad.

Insomma, Israele è in questi giorni, insieme a una Turchia non certo sua amica, il maggior beneficiario dei rivolgimenti in Siria. Si riconferma che, spesso in geopolitica e strategia, ma soprattutto nel ginepraio etnico e religioso del Medio Oriente, la polarizzazione delle contese è assai complicata e risponde, più che alla logica semplice del “duello”, cioè al confronto fra due fronti di interessi ben definiti, quella, molto più contorta, del “triello”.

All’origine c’era il concetto di “stallo alla messicana”, alias “mexican standoff”, coniato oltre un secolo fa in relazione al caos di fazioni in Messico, che era in endemica guerra civile nel XIX secolo, dopo l’intervento militare USA del 1846-1848.

Nel Medio Oriente di oggi, l’imperfezione dei rispettivi schieramenti spicca da ulteriori indizi, pur in balia di rettifiche nel montare giorno per giorno degli avvenimenti.

I palestinesi di Hamas, proprio il movimento che attaccando Israele ha scatenato il 7 ottobre 2023 l’attuale tempesta ancora in corso e che hanno coagulato attorno a sé l’alleanza “per solidarietà” con l’Iran e i suoi sodali, in primis Hezbollah e gli yemeniti Houthi di Ansarallah, hanno diffuso delle sorprendenti “felicitazioni al popolo siriano per aver realizzato le aspirazioni di libertà e giustizia”.

Un’imbarazzata Hezbollah, il 9 dicembre ha così commentato per la prima volta la caduta di Assad, per bocca del parlamentate del partito armato sciita, Hassan Fadlallah: “Quello che sta accadendo in Siria è una trasformazione importante, pericolosa e nuova, e il come e il perché di ciò che è accaduto richiedono una valutazione, e la valutazione non viene fatta sui podi”.

Sintomo di disorientamento da parte del movimento che fino a pochi giorni fa era sicuro di avere le spalle coperte a Nord.

La stessa Russia, nonostante nei primi giorni dell’offensiva jihadista, avesse bombardato i ribelli con i velivoli Sukhoi di stanza sulla pista di Hmeimm, presso Latakia, s’è probabilmente resa conto che sarebbe stato troppo oneroso continuare a sostenere Assad, mentre l’esercito siriano tendeva a ritirarsi senza contendere troppo duramente il terreno al nemico.

Già indizi di un probabile sfilarsi di Mosca dalla contesa interna siriana, pur di tentare, in un secondo tempo, di trattare col nuovo potere per la conservazione della basi in territorio siriano, si potevano leggere il 2 dicembre nei rapporti, corroborati da foto satellitari, sul ritiro delle navi russe di stanza a Tartus, col pretesto delle contemporanee esercitazioni nel Mediterraneo Orientale di una squadra capeggiata dalle due fregate Admiral Gorshkov e Admiral Golovko e dal sottomarino Novorossisk, manovre condite dal lancio di missili da crociera Kalibr e ipersonici Zircon.

Fra il 7 e l’8 dicembre i ribelli sunniti sono entrati a Tartus e Latakia, acquisendo il controllo anche del valico di Kasab, sul confine con la Turchia.

Poche ore dopo le stesse agenzie di stampa russe TASS e RIA Novosti ammettevano che “i ribelli siriani hanno garantito la sicurezza delle basi militari russe” e che “i funzionari russi sono in contatto con i rappresentanti dell’opposizione armata siriana, i cui leader hanno garantito la sicurezza delle basi militari e delle istituzioni diplomatiche russe sul territorio siriano”.

L’esistenza di trattative, ancora agli inizi, fra la Russia e la cerchia di Al Julani, per poter, nella migliore delle ipotesi, mantenere Tartus e Hmeimm parrebbe confermata dalle esternazioni del portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, il 9 dicembre: “E’ prematuro parlare del mantenimento della presenza militare russa in Siria. In ogni caso è argomento di discussione con coloro che saranno al potere in Siria. Il governo in Siria attraversa un periodo di trasformazione ed è ancora instabile. Ma le forze russe in Siria stanno facendo il necessario per garantire la sicurezza delle basi”.

L’ultimo accordo vigente fra Russia e Siria per le basi, siglato nel 2017, prevede la permanenza delle forze di Mosca per 49 anni da allora, cioè fino al 2066. Una prospettiva che i russi tenteranno se possibile di conservare se non vogliono privarsi di un prezioso trampolino aeronavale verso l’Africa, in particolare il Sahel, Suez e la regione del Corno, a meno che non vogliano traslocare nella porzione di Libia governata dal parlamento di Tobruk e dall’amico feldmaresciallo Khalifa Haftar. Un’altra regione in cui il presidente russo Vladimir Putin e quello turco Recep Tayyp Erdogan si confrontano da “amici-nemici”.

Infine, che proprio l’ambasciata siriana a Mosca sia stata la prima, a quanto si sa, a inalberare la bandiera dei ribelli, con la striscia rossa del vessillo del governo Baath rimpiazzata dalla striscia verde dell’Islam, la dice lunga sul fatto che i russi, con la priorità assegnata al conflitto in Ucraina, abbiano semplicemente pensato che, giunti a questo punto, convenga puntare sul “riciclare” nel nuovo regime tutti quei funzionari che, come il personale diplomatico accreditato in Russia, ha tradizionali buoni rapporti con la potenza eurasiatica.

A sua volta, l’Iran è deluso dal disimpegno russo nella difesa di un alleato di lunga data, ma ormai “stantio”, come Assad, sebbene anche Teheran, dopo iniziali proclami di vicinanza al governo baathista, retto dalla minoranza alawita affine allo sciismo, si sia risolta a evacuare il suo personale diplomatico e militare, anche gli ufficiali pasdaran, secondo quanto riportato il 7 dicembre dal New York Times.

A diffondere sfiducia nelle unità della Forza Quds presenti in Siria deve aver molto contribuito la perdita della base aerea T4, a Tiyas, vicino Palmira, che era una delle maggiori basi d’appoggio per l’arrivo dall’Iran di aerei cargo con a bordo armi e munizioni destinate alle forze di Assad e soprattutto agli Hezbollah.

Lo stesso esercito siriano, minato da un atteggiamento rinunciatario a cui possono aver contribuito la corruzione e il tradimento, s’è ritirato dalla base T4 il 7 dicembre. La mattina del giorno 8 i rivoltosi si sono impossessati anche dell’aeroporto di Damasco, aumentando ancor di più l’isolamento del paese dall’Iran.

Inutile s’è rivelato anche l’invio di “circa 2.000 uomini a Homs” da parte di Hezbollah, in aiuto al governo di Assad, dopo che in precedenza quelle stesse forze erano state sottratte al teatro siriano per concentrarle contro Israele. Hezbollah ha imparato così a proprie spese a non dare per scontato il fatto di avere retrovie sicure grazie ad alleati regionali potenti come Siria e Iran, ritrovandosi d’improvviso privato di santuari che, fino al recente exploit dei ribelli sunniti, erano stati bersagliati, ma non compromessi, dai raid aerei israeliani.

 

Una tregua potenziata?

I fatti siriani hanno aumentato, senza dispendio materiale di forze, una sorta di “deterrenza virtuale” di Israele nei confronti di Hezbollah, riducendo i margini di manovra degli sciiti libanesi e rendendo loro molto più difficile, e soprattutto costoso, lasciarsi andare alla tentazione di rompere la tregua nella fascia di confine con lo stato ebraico.

Di riflesso, la stessa cosa vale presumibilmente con l’Iran e con la sua mai sopita volontà di scatenare una più volte ventilata rappresaglia per gli attacchi aerei israeliani su territorio persiano dello scorso 26 ottobre.

Rappresaglia che, secondo le indiscrezioni delle scorse settimane avrebbe potuto prendere la forma di lanci di missili e droni direttamente dal territorio dell’Iraq, complici le milizie sciite locali come Kataib Hezbollah, in modo da sorprendere le difese ebraiche con ordigni lanciati da posizioni molto più vicine e con limitatissimi tempi di preavviso.

L’attuale capo di Hezbollah, Naim Qassem s’era lasciato andare con troppa facilità il 29 novembre alla consueta retorica, nel suo primo discorso pubblico successivo al cessate il fuoco: “Ho deciso di dichiarare, ufficialmente e chiaramente, che stiamo fronteggiando una grande vittoria divina che supera quella del luglio 2006. Noi abbiamo vinto poiché abbiamo impedito al nemico di distruggere Hezbollah e di annichilire o indebolire la resistenza. Le perdite di Israele sono state ampie in termini di assetti e caduti e hanno portato a un vicolo cieco a causa della resistenza. La nostra resilienza ha sbalordito il mondo”.

Qassem ha poi ribadito che “il nostro appoggio alla Palestina proseguirà nei modi appropriati”. Di fatto, accettando la tregua, ha però rinnegato quanto aveva dichiarato nelle settimane precedenti, quando, appena divenuto capo del movimento sciita dopo la morte sotto le bombe ebraiche del capo storico Hassan Nasrallah, il 27 settembre, e del suo effimero primo successore, nonché cugino, Hashem Safieddine il 3 ottobre, aveva ribadito la linea del movimento sciita, cioè cessare il fuoco solo dopo la fine delle ostilità nella Striscia di Gaza.

Non è stato così ed Hezbollah, comunque provato dall’intensificarsi delle incursioni israeliane dalla fine di settembre, nonché dall’ingresso di truppe terrestri lungo la fascia di confine, ha accettato, insieme al governo regolare libanese, la proposta di tregua avanzata da Stati Uniti e Francia, soprattutto dall’inviato per il Medio Oriente dell’uscente amministrazione del presidente americano Joe Biden, Amos Hochstein. Anche Israele l’ha accettata, sulla base del principio del poter sferrare nuovi attacchi aerei estemporanei nel caso di rilevamento di “minacce immediate”.

E ne ha dato prova già tra il 27 e il 29 novembre con bombardamenti rivolti a movimenti di Hezbollah, ma anche di civili, nella fascia compresa tra il fiume Litani, a Nord, e la Linea Blu, ossia il confine de facto Libano-Israele, a Sud, rinfocolando da parte degli sciiti accuse di violazione degli accordi.

Il patto, negoziato con l’inviato americano Amos Hochstein dal presidente del Parlamento libanese Nabih Berri, su mandato di Hezbollah, prevede che entro 60 giorni dall’entrata in vigore, ovvero entro il 27 gennaio 2025, sia i soldati israeliani sia i miliziani di Hezbollah si ritirino dalla fascia di territorio del Sud del Libano compresa fra la Linea Blu, che forma la frontiera de facto con Israele, e le sponde del fiume Litani.

Un territorio la cui ampiezza massima tocca circa 28 chilometri nell’Ovest, verso il mare, mentre a Est, nell’entroterra, tende a decrescere fino a una profondità minima di 6 chilometri. Entrambe le parti devono evitare atti ostili, ma Israele ha ottenuto il diritto di reagire con incursioni a “minacce dirette”, con tutta la vaghezza di una interpretazione soggettiva.

Le uniche forze armate ammesse nella fascia, una volta completato il ritiro di soldati ebraici e miliziani sciiti, dovrebbero essere le truppe dell’esercito regolare libanese e i caschi blu del contingente ONU UNIFIL, che conta un totale di 10.000 uomini di cui il 10% italiani.

Di fatto, l’accordo riprende a grandi linee la risoluzione 1701 dell’ONU, che dal 2006 a oggi è sempre rimasta inapplicata, sollevando leciti dubbi sulla reale possibilità dell’UNIFIL di farla applicare. UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon) vide la luce il 19 marzo 1978, con le risoluzioni 425 e 426 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, seguite alla prima invasione israeliana del Libano.

Allora l’UNIFIL contava 4000 uomini e le risoluzioni stabilivano, di fronte alla prima penetrazione delle truppe israeliane in Libano, che la forza ONU dovesse vigilare sull’auspicato ritiro israeliano, con una durata inizialmente prevista in sei mesi, ma rinnovata ripetutamente.

Le risoluzioni 425 e 426 mantennero l’inquadramento legale dell’UNIFIL negli anni seguenti, anche quando Israele, nel 1982, attuò un’invasione su maggior scala, tanto da mantenere l’occupazione su una vasta fascia di confine, a sud del fiume Litani, fino al 2000. Fu quando Israele, nel maggio 2000, decise unilateralmente di ripiegare dal Libano del Sud, in omaggio alla n.425, che l’UNIFIL identificò la linea di ritiro israeliano come confine informale noto col nome “Linea Blu”.

Con la guerra del luglio 2006 l’ONU decise di rafforzare la missione con la nuova risoluzione 1701 dell’11 agosto 2006 secondo cui l’UNIFIL doveva aiutare il governo libanese a riaffermare la sua sovranità, facendo rispettare la Linea Blu e soprattutto impedendo che a sud del fiume Litani ci fossero gruppi armati diversi dall’esercito regolare di Beirut, ovvero Hezbollah oppure truppe israeliane.

A seguito della 1701, l’UNIFIL è stata rafforzata e, in particolare, il contingente italiano ha garantito un costante presidio nella zona ovest della fascia di frontiera con la cosiddetta Operazione Leonte. Ma di fatto l’UNIFIL, oltre a presenziare come “occhio sul territorio” dell’ONU, non è in grado di costringere i belligeranti, ovvero Israele ed Hezbollah, a ritirarsi.

Non è solo un problema di regolamenti e risoluzioni, ma di mera forza militare, palesemente insufficiente. Finora, in 46 anni, l’UNIFIL ha sofferto la morte di 326 caschi blu, sacrificati sull’altare di una pace ancora lontana. Anche nel nuovo scenario della malferma tregua, resta il problema della sostanziale impotenza dei caschi blu, nelle forme attuali.

Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto lo ha ribadito schiettamente il 6 dicembre, mentre visitava, a Shama, il quartier generale delle truppe italiane inquadrate nell’UNIFIL: “Non possiamo perdere altro tempo. UNIFIL, la missione delle Nazioni Unite, è essenziale per la pace e la stabilità del Libano, ma è necessario aggiornare le sue regole d’ingaggio e permettere alla missione stessa piena e concreta libertà di agire, nel rispetto della risoluzione 1701 dell’ONU.

Fondamentale, poi, sarà, sempre di più, riuscire ad assicurare sostegno finanziario, addestramento ed equipaggiamento delle LAF, le Forze Armate libanesi. La stabilità non solo del Libano, ma dell’intera area, diventerà concreta solo quando le LAF saranno più forti di Hezbollah e in grado di difendere il loro Paese, garantendo sicurezza e rispetto dei confini. Imprescindibile è anche il maggiore e stretto coordinamento tra Comitato tecnico per cessate il fuoco e UNIFIL”.

Già dal 28 novembre, The National, giornale degli Emirati Arabi Uniti, ha pubblicato il testo completo dell’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah.

E’ un documento in 13 punti in base al quale i soldati regolari libanesi devono fare rispettare la risoluzione ONU n.1701 che vieta al partito armato sciita di disporre di armi e infrastrutture militari a sud del fiume Litani, e richiede l’invio di 10.000 soldati libanesi nella zona il prima possibile, sotto la guida di Stati Uniti e Francia. Il rispetto dell’accordo è affidato alla vigilanza tripartita tra USA, Francia e UNIFIL.

L’esercito libanese deve controllare gli accessi a sud del Litani, ma a quanto pare molti civili libanesi sono già tornati in quella fascia, talvolta scatenando raid punitivi ebraici. Il patto prevede anche una richiesta di Israele e Libano a Stati Uniti e ONU affinché favoriscano le trattative reciproche per risolvere annosi problemi relativi alla Linea Blu, che comunque non è ancora un confine ufficiale tra i due stati, ma solo una linea di contatto eredità dei conflitti passati.

 

Israele tira il fiato

“Con la tregua ci concentriamo sull’Iran, rinnoviamo le forze e isoliamo Hamas”, ha spiegato il 26 novembre Netanyahu, proseguendo: “Se Hezbollah violerà l’accordo e tenterà di armarsi, colpiremo. Se tenterà di ricostruire infrastrutture terroristiche vicino al confine, colpiremo. Se lancerà razzi, se scaverà tunnel, se porterà un camion con missili, colpiremo. Perché fare una tregua adesso? Ci sono tre motivi: concentrarsi sulla minaccia iraniana; rinnovamento delle forze e rifornimento completo (e, vi dico apertamente, ci sono stati grossi ritardi nella fornitura di armi e munizioni); terzo motivo, separare i fronti e isolare Hamas”.

E ha aggiunto: “Con una comprensione totale tra Israele e gli Stati Uniti, manteniamo la libertà militare completa. Hezbollah non è più quello di prima, lo abbiamo riportato indietro di decenni”.

I toni erano trionfali, ma di fatto, Israele aveva bisogno di tirare il fiato, e il premier lo ha in parte ammesso, impegnata com’è su più fronti, pur a diversa intensità e con ancora in corso la “grana” di Gaza.

Una guerra così lunga e così estesa è una novità assoluta nei 76 anni di esistenza dello stato ebraico, che ha un territorio e una popolazione limitati e, pur contando su un alto livello tecnologico e industriale, resta fortemente dipendente dal sostegno estero, specialmente dagli Stati Uniti, per molte forniture militari per cui le industrie locali non hanno sufficienti risorse e capacità produttive.

Solo per fare due esempi, le munizioni d’artiglieria e i missili Tamir dei sistemi d’intercettazione Iron Dome.

I costi sono stati enormi e il 4 dicembre il ministero delle Finanze di Tel Aviv ha annunciato che sono allo studio “nuove misure fiscali per il 2025”, fra cui un aumento dell’IVA di un punto percentuale al 18%, un aumento delle tariffe sugli immobili, tasse sulla proprietà, acqua ed elettricità, un aumento delle tasse nazionali.

I pagamenti assicurativi arriveranno fino a 720 shekel, cioè 190 euro, per dipendente all’anno. Assegni familiari e aliquote dell’imposta sul reddito saranno congelati. Si parla di un onere per le famiglie israeliane stimato in spese annuali aggiuntive pari a migliaia di shekel. Il tutto mentre la mobilitazione dei riservisti tiene ancora lontani dai posti di lavoro migliaia di lavoratori qualificati.

Il conflitto in Libano rischiava di arrivare a un punto morto, con Hezbollah che stava imparando, almeno in parte, a incassare i pesanti colpi di Israele. Il 23 novembre è di fatto andato storto un pesante bombardamento di precisione che l’aeronautica ha compiuto sul quartiere Basta El Faouqa di Beirut.

I caccia F-35 hanno sparato cinque missili dalle testate perforanti bunker-buster su un edificio di 8 piani devastandolo. Per l’intelligence israeliana nella zona si trovavano il capo di Hezbollah, Naem Qassem, il capo delle operazioni di Hezbollah, Muhammad Haydar, e un altro alto comandante, Talal Hamiya.

L’attacco ha causato 15 morti, che sommati ad altri avutisi in altre zone della capitale libanese, come il rione Al Hadath vicino all’università, hanno portato a un bilancio di 30 vittime a Beirut per quel giorno.

Ma secondo Haaretz “l’attacco è fallito” e i capi nemici sarebbero rimasti incolumi. Il 25 novembre, Hezbollah ha dichiarato perfino la distruzione in un solo giorno di “6 carri armati israeliani Merkava nel sud del Libano”. Di essi, cinque “alla periferia orientale della città di Bayada” e uno “nella regione di Deir Mimas”, a circa 2,5 chilometri dal confine israelo-libanese.

Le distruzioni di carri Merkava da parte dei miliziani Hezbollah si sarebbero fatte preoccupanti per l’esercito ebraico. Può sembrare esagerata la cifra rivendicata dai miliziani sciiti, di “50 Merkava annientati” in totale a partire dal 1° ottobre 2024, di cui 10 solo negli ultimi giorni prima della tregua, dal 22 al 27 novembre.

Ma l’adozione della tattica di doppi lanci simultanei di missili anticarro Kornet da rampe binate Tharallah, l’uso di droni in impatto sulla verticale della torretta e probabilmente anche la preparazione di potenti mine sepolte lungo passaggi obbligati, per sventrare i carri dal fondo, potrebbero verosimilmente aver causato perdite non troppo lontane dalla cifra indicata da Hezbollah. Riguardo alle perdite umane, Israele ammette circa 60 morti e 900 feriti.

Le forze di Tsahal, dal canto loro, all’inizio della tregua hanno pubblicato un bilancio di oltre un anno di campagna in Libano, che, lo ricordiamo, è stata quasi solo aerea dall’8 ottobre 2023 al 1° ottobre 2024, quando è iniziata la penetrazione di truppe israeliane nella fascia di confine, finché il 26 novembre, alla vigilia della tregua, le avanguardie hanno raggiunto effettivamente il fiume Litani.

In quasi 14 mesi, le forze israeliane hanno colpito 12.500 obiettivi di Hezbollah, tra cui 1.600 centri di comando e 1.000 depositi di armi. Nell’offensiva terrestre dell’autunno 2024 sono state mobilitate 14 brigate di fanteria e forze speciali, che hanno compiuto oltre 100 operazioni speciali uccidendo almeno 2.500 miliziani di Hezbollah, ma si stima possano essere anche 3.500.

Fra i caduti eccellenti spiccano il capo storico del movimento, Hassan Nasrallah e 13 alti dirigenti. Ma anche 4 comandanti a livello di divisione, 24 comandanti di brigata, 27 comandanti di battaglione, 63 comandanti di compagnia e 22 comandanti di plotone.

Risultano catturati 12.000 dispositivi esplosivi e droni; 13.000 razzi, lanciatori e sistemi missilistici anticarro e antiaerei; e 121.000 pezzi di apparecchiature di comunicazione e computer. Il governo regolare libanese quantifica invece, senza distinguere fra civili ed Hezbollah, le perdite in 3.961 morti e 16.520 feriti, stando al ministero della Salute di Beirut.

Non ci si fanno troppe illusioni, la tregua resta fragile, anche se l’effetto del rivolgimento in Siria ha reso più insicuri Hezbollah e l’Iran, che avrà molte più difficoltà a rifornirlo.

Stando a quanto riportato il 28 novembre dal sito di notizie Ynet, fonti delle truppe di Tsahal hanno sostenuto che “esistono il 50% di probabilità che la guerra in Libano riprenda” e che è per tale motivo che il governo di Tel Aviv non ha ancora chiesto ai residenti della Galilea evacuati per sfuggire ai razzi di Hezbollah di rientrare a casa.

L’esercito ebraico ha pure esso accusato Hezbollah di aver già violato l’accordo spostando suoi miliziani nella fascia da cui invece dovrebbe ritirarsi. A tal proposito è intervenuto lo stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha minacciato il movimento filoiraniano libanese di una “guerra massiccia” se sgarrerà.

Per l’esattezza, parlando in un’intervista il 29 novembre per la rete ebraica Channel 14, “Benji” ha detto: “L’accordo con il Libano è stato firmato ora proprio perché abbiamo ottenuto esattamente ciò che cercavamo di ottenere. Colpiremo Hezbollah con un colpo fatale e creeremo le condizioni per il ritorno dei nostri residenti nel nord. Se necessario, ho dato una direttiva all’esercito affinché si prepari nel caso in cui si verificasse una violazione dell’accordo di cessate il fuoco, di far scattare una guerra massiccia”. E nello spiegare il quadro generale del conflitto: “Hamas sperava che gli Houthi sarebbero venuti a salvarli, ma non è successo, ma soprattutto sperava che Hezbollah venisse a salvarli. Non esiste Hezbollah. Ecco perché penso che le condizioni siano cambiate molto in meglio per Israele”.

 

Ancora sangue

Già il 28 novembre 2024, un giorno dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco, un drone israeliano ha attaccato autoveicolo, probabilmente di civili che intendevano rientrare alle loro case nella fascia “proibita” dal fiume Litani alla Linea Blu.

E’ accaduto nel villaggio di Markaba, come rilevato dal comunicato dell’esercito ebraico: “E’ stato identificato l’arrivo di sospetti, alcuni con veicoli, in diverse aree del Libano meridionale, il che costituisce una violazione del cessate il fuoco”. In concomitanza, l’esercito regolare di Beirut ha avvisato i cittadini sfollati intenzionati a tornare nelle loro residenze nei distretti di Tiro, Bint Jbeil e Marjayoun, di non avvicinarsi alle aree in cui si trovano le forze israeliane, poiché potrebbero essere esposti al fuoco nemico.

Sempre il 28 novembre caccia israeliani hanno bombardato un sito Hezbollah: “Terroristi di Hezbollah stavano operando dentro un sito con missili a medio raggio nel sud del Libano. Un raid aereo ha sventato la minaccia”.

L’indomani, Israele ha fatto pubblicare dal portavoce militare Avichay Adraee un avviso sul web: “Vietati spostamenti a sud linea centri abitati fino a nuovo avviso a sud di una linea di villaggi: Shebaa, Al-Habbariyeh, Marjayoun, Arnoun, Yahmar, Al-Qantara, Shaqra, Bara’shit, Yater, Al-Mansouri”.

Adraee ha specificato: “L’IDF non intende prendervi di mira, quindi in questa fase vi è vietato tornare alle vostre case da questa linea a sud fino a nuovo avviso. Chiunque si muova a sud di questa linea si espone al pericolo”. Il 1° dicembre l’agenzia di stampa statale libanese National News Agency ha riferito che un drone israeliano ha bombardato il villaggio di Rub Thalatheen e ucciso due persone, ferendone altre due.

Un altro attacco di droni ha centrato un’automobile nel villaggio di Majdal Zoun, dove secondo il Ministero della Salute libanese sono rimasti feriti tre civili, tra cui un bambino di sette anni. L’esercito israeliano ha giustificato i raid con la necessità di “allontanare sospetti” nella regione. Lo stesso giorno, l’artiglieria di Israele ha tartassato le città di Itarun e Al Khyam contro presunte posizioni dei miliziani sciiti.

Una giornata assai intensa è stata quella del 2 dicembre, quando, per la prima volta, è stato Hezbollah a violare la tregua. Gli sciiti hanno sparato due razzi su postazioni militari israeliane al confine con il Libano, nella zona del monte Dov.

Lo hanno riferito sia Hezbollah, sia Tsahal. Gli ordigni sono esplosi in radure disabitate senza fare danni, ma Israele ha reagito con attacchi aerei di caccia su vari villaggi libanesi di confine, nonché con un drone che ha colpito un bulldozer dell’esercito libanese, ferendo un militare di Beirut.

Il ministro della Difesa ebraico Israel Katz ha commentato: “Abbiamo promesso di agire contro ogni violazione del cessate il fuoco da parte di Hezbollah, ed è esattamente ciò che faremo”. E Netanyahu: “Il lancio di Hezbollah verso il Monte Dov rappresenta una grave violazione della cessazione delle ostilità, e Israele risponderà con forza”.

Dal canto loro, gli Stati Uniti e l’inviato americano Amos Hochstein hanno accusato Israele: “Ci sono state violazioni israeliane della tregua, principalmente con il ritorno visibile e udibile dei droni israeliani nei cieli di Beirut. Occorre moderazione da tutte le parti”. Secondo la Francia, l’altra potenza promotrice della tregua, al 2 dicembre le forze ebraiche s’erano già rese responsabili di “52 violazioni del cessate il fuoco”.

La sera stessa del giorno 2, l’aviazione ebraica ha compiuto raid di rappresaglia per razzi di Hezbollah su una postazione israeliana sulle alture contese di Kfarchouba. I raid hanno ucciso in totale 9 persone. Cinque sono state uccise a Haris, vicino Bint Jbeil, e le altre quattro a Tallousa, presso Marjeyoun.

Secondo le fonti libanesi, tra le vittime c’erano famiglie appena rientrate dopo l’evacuazione. Il 3 dicembre, ancora Katz accusava invece l’esercito libanese di non fare abbastanza per smilitarizzare la fascia dalla presenza di Hezbollah: “L’esercito libanese deve far rispettare la propria parte dell’accordo di cessate il fuoco, tenere Hezbollah lontano, oltre il fiume Litani e smantellare tutte le sue infrastrutture. Se non lo faranno e il cessate il fuoco finirà, allora la realtà sarà molto chiara. Se torniamo in guerra, agiremo con forza, andremo più a fondo in Libano”.

Le schermaglie sono proseguite nei giorni successivi. Il 7 dicembre un drone israeliano ha ucciso nel villaggio di Deir Siryan un miliziano di Hezbollah che “rappresentava una minaccia per le truppe dispiegate nella zona e aveva violato l’accordo tra Israele e Libano”.

Secondo un video diffuso da Israele, il miliziano è stato colpito mentre viaggiava in moto. Intanto l’inviato speciale americano Hochstein, spiegava all’agenzia Reuters: “Ciò che sta accadendo ora in Siria crea una nuova debolezza per Hezbollah, perché rende difficile il trasferimento di armi dall’Iran, mentre Teheran si sta allontanando da Assad. Non abbiamo distrutto Hezbollah. Forse l’organizzazione non è abbastanza forte per attaccare Israele o sostenere Assad, ma non si è ancora arresa. Gli Stati Uniti devono intensificare il loro sostegno all’esercito libanese, e così dovrebbero fare tutti gli altri. Il collasso della Siria non è una sorpresa, ma le ultime due volte, due grandi potenze sono arrivate in suo aiuto”.

L’8 dicembre fonti ufficiali delle IDF rivendicavano che le operazioni nel Sud del Libano avvenivano in “conformità con la tregua”. E in particolare: “In conformità con l’intesa tra Israele e Libano, Tsahal sta attualmente operando nel Libano meridionale per impedire lo spiegamento di Hezbollah e per rimuovere le minacce.

Sono stati individuati e smantellati depositi contenenti centinaia di razzi anticarro, mortai, granate e un veicolo equipaggiato con un lanciarazzi, nonché diversi cunicoli sotterranei”. Poche ore dopo, il 9 dicembre, ben 4 soldati israeliani sono stati uccisi nel sud del Libano da un’esplosione mentre ispezionavano un deposito di armi catturato a Hezbollah, presso un tunnel scavato dai miliziani sciiti a Labbouneh. I quattro soldati erano appena scesi nella galleria quando lo scoppio li ha uccisi e sepolti. Tutto, nel Sud del Libano, è ancora appeso a un filo.

Foto: IDF, Anadolu, CNN, UNIFIL, TASS e Ministero Difesa russo

Mappe: Institute for the Study of the War

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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