In Siria il punto di congiunzione tra le guerre in Ucraina e Medio Oriente (AGGIORNATO)
(Aggiornato alle ore 23,55)
L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste guidate dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo noto come Fronte al-Nusra e inserito nella rete di al-Qaeda, finora sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib, non può essere valutata solo per il suo aspetto di conflitto regionale.
La situazione in cui ha ripreso il via su vasta scala il conflitto siriano deve infatti venire collocato nel più ampio contesto conflittuale e di destabilizzazione che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria, da Israele all’Iran.
I miliziani raccolti intorno all’HTS con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un’offensiva-lampo contro le forze governative siriane, conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l’aeroporto militare di Abu Dhuhur (tra Hama e Aleppo), ed espugnando gran parte della città di Aleppo anche se in quella città sono ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde.
Le forze di autoprotezione curde (YPG – nella foto qui sopra), che con alcune milizie tribali sunnite costituirono le Forze Democratiche Siriane (FDS), sostenute dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di combattere l’ISIS e controllare i territori orientali, sono oggi impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori e dai quartieri della città caduti nelle mani dei jihadisti che hanno riconquistato anche Tal Rifaat, a nord di Aleppo, da anni in mano alle milizie curde.
Il comandante delle FDS, Mazloum Abdi ha detto il 1° dicembre che “gli eventi nella Siria nord-occidentale si sono sviluppati rapidamente e all’improvviso, mentre le nostre forze hanno dovuto affrontare attacchi intensi da più parti. Con il crollo e il ritiro dell’esercito siriano e dei suoi alleati, siamo intervenuti per aprire un corridoio umanitario tra le nostre regioni orientali, Aleppo e la regione di Tal Rifaat per proteggere la nostra gente dai massacri. Ma gli attacchi dei gruppi armati appoggiati dall’occupazione turca hanno interrotto questo corridoio”, ha affermato Abdi. “Continuiamo a resistere per proteggere la nostra gente nei quartieri curdi di Aleppo“, ha aggiunto.
Le forze curde siriane si sono dispiegate anche nelle città di Nubl e Al Zahraa, nella periferia nord-occidentale di Aleppo, oltre che all’aeroporto internazionale istituendo posti di blocco tra Al Shahbaa e Aleppo e nel quartiere di Al Ashrafiyah avanzando verso le città di Tel Hafer, Tel Aaran, Tel Hasil e altri villaggi a est di Aleppo.
Migliaia di civili curdi sono arrivati oggi nella Siria orientale, nell’area di Raqqa (che fi la “capitale” dello Stato Islamico), utilizzando veicoli di ogni tipo inclusi trattori agricoli provenienti per lo più da Tell Rifaat. Per il momento le forze filo-turche hanno lasciato libero un corridoio a sud-est di Aleppo per far defluire il flusso di civili in fuga. Questo corridoio collega la zona di Aleppo con la regione di Tabqa e di Raqqa, a est del fiume Eufrate, sotto controllo delle forze curdo-siriane.
Ombre ucraine
L’offensiva dei ribelli ha visto coinvolte milizie jihadiste kirghize, uzbeke e di altre nazionalità inclusi i ceceni del gruppo salafita Ajnad al Kavkaz, già impegnato nella guerra civile siriana, poi trasferito sul fronte ucraino ed ora rientrato nel nord della Siria.
Proprio ai ceceni e forse agli uomini dell’intelligence militare ucraina (GUR), la cui presenza tra i ribelli siriani viene da tempo segnalata da fonti russe, ucraine, turche e curde, si devono alcune modalità tattiche adottate dai ribelli che hanno espanso il più possibile la loro presenza sul territorio impiegando droni-kamikaze e utilizzando social e media per tentare di dimostrare la rapida conquista di diverse località.
Da tempo ormai uomini del GUR sono stati segnalati (anche per ammissione dello stesso ’intelligence ucraino) in diverse aree di contrasto alla Russia, dal Sudan al Mali, dalla Siria alla Georgia.
Come ha ricordato Clara Statello su L’Antidiplomatico, gli uomini del GUR ucraino hanno “firmato” già diversi attacchi contro le forze russe in Siria. Il 15 settembre avrebbero attaccato una base militare russa di droni nella periferia nord-orientale di Aleppo. Il Kyiv Post ha pubblicato un filmato esclusivo dell’intelligence militare, senza però la conferma ufficiale.
A partire da giugno ci sarebbero stati diversi attacchi contro posti di blocco, postazioni, pattuglie e colonne russe. A fine luglio, le forze speciali ucraine avrebbero attaccato i russi presso l’aeroporto di Kuweires a est di Aleppo. I filmati sono stati pubblicati dal Kyiv Post. Negli stessi giorni l’agenzia russa Ria Novosti ha riferito dell’arrivo di 250 istruttori delle forze armate ucraine nella provincia siriana di Idlib, per addestrare miliziani dell’HTS.
I contatti tra l’intelligence ucraina e HTS sono stati documentati da fonti curde, siriane e turche. In base a quanto rivelato a fine agosto dalla rivista curda Lekolin, il 18 giugno 2024 il leader di HTS Heysem Omeri avrebbe incontrato a Idlib una delegazione ucraina, per concludere un accordo per la fornitura di 75 droni da utilizzare sul territorio siriano contro obiettivi militari russi.
Oggi a New York l’ambasciatore della Russia all’ONU, Vassily Nebenzia, ha accusato l’Ucraina di sostenere militarmente i combattenti del gruppo islamico Hayat Tahrir al-Sham.. “Vogliamo attirare l’attenzione in particolare sulle tracce identificabili che riconducono alla Direzione Principale dell’intelligence ucraina (GUR) nell’organizzazione delle ostilità e nella fornitura di armi ai combattenti nel nord-ovest della Siria”, ha detto Nebenzia al Consiglio di Sicurezza.
Interessi sovrapposti
Per l’offensiva in Siria settentrionale sono state di fatto riunite tutte le milizie dell’internazionale del jihad che costituirono la “legione straniera” di al-Qaeda e più tardi dello Stato Islamico, jihadisti che oggi con qualche imbarazzo vengono considerati combattenti legittimi o “ex terroristi” da turchi e occidentali.
Nulla di nuovo a ben guardare: durante la guerra civile che sconvolse la Siria tra il 2012 e il 2020 le milizie dello Stato Islamico ricevettero per un periodo ampio supporto dalla Turchia (dove l’ISIS vendeva il petrolio estratto clandestinamente in Siria e Iraq) mentre molte milizie “moderate” addestrate in territorio turco dai consiglieri militari di Stati Uniti e alcune nazioni europee appena attraversato il confine siriano confluivano nelle milizie qaediste o dell’Isis.
Per Bashar Assad l’offensiva dei ribelli jihadisti filo-turchi nel nord della Siria è un tentativo di “ridisegnare la mappa della regione” mentre il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan (ex capo dell’intelligence di Ankara), ha affermato che le attuali tensioni in Siria non sono dovute all’intervento di Paesi stranieri ma a questioni risalenti alla guerra civile iniziata nel 2011 che non sono ancora state risolte. “Damasco deve trovare un riconciliazione con l’opposizione” e ha sottolineato che la Turchia può aiutare a questo proposito.
Il generale siriano Mohammed Abbas, oggi non più in servizio e noto opinionista, ha detto all’agenzia Italpress che ciò accade oggi nel nord della Siria non è altro che un’offensiva della Turchia, con l’aiuto di USA e Israele, concentrato contro il regime di Bashar al Assad dopo la fine dell’offensiva israeliana nel sud del Libano.
“Israele non è riuscita a far cadere Damasco e quindi ora utilizza il Fronte al Nusra e il cosiddetto Fronte di Liberazione del Sham dentro al quale ci sono anche i gruppi del Turkmenistan e dei ceceni che sono giunti in Siria dalle zone dell’Asia centrale” – sostiene Abbas. “Non c’è dubbio che tra loro ci sono anche terroristi siriani che operano in gruppi considerati da Damasco come dei proxy dell’esercito turco sul terreno. Queste forze approfittano di quanto avvenuto in Libano e della volontà di Israele e degli Usa di cambiare gli equilibri in Siria accendendo il fuoco a Idlib e Aleppo”.
In questo modo per il generale, “non è necessario per loro intervenire sul terreno, l’obiettivo è quello di distruggere il regime siriano e dividere il Paese in tanti cantoni”. L’analista ricorda infatti come la scorsa settimana Israele ha condotto un raid aereo proprio sulla zona sud-est di Aleppo contro una sede delle forze di Assad, nel quale ha perso la vita anche il generale di brigata delle Guardie rivoluzionarie iraniane Kioumars Pourhashemi.
Sul piano militare l’esercito siriano è stato costretto a ripiegare poiché indebolito dal ritiro delle milizie libanesi di Hezbollah che fornirono un ampio supporto alle forze di Damasco ma erano state richiamate in Libano in vista del conflitto con Israele.
Nanar Hawash, analista presso l’International Crisis Group, un think tank con sede a Bruxelles, valuta che l’opposizione siriana stia sfruttando il vuoto lasciato da Hezbollah per avanzare in Siria. “I ribelli vedono un’opportunità per testare la prima linea con l’indebolimento di Hezbollah, la pressione sull’Iran e la preoccupazione della Russia per l’Ucraina”, ha detto Hawash sottolineando che le milizie hanno fatto questo dopo aver visto “uno spostamento negli equilibri di potere”.
Nell’ultimo anno le forze combattenti di Hezbollah hanno spostato la loro attenzione verso Israele e hanno ritirato le loro forze dalla Siria al Libano, nel tentativo di compensare le perdite subite mentre il presidente Bashar al Assad si avvicinava agli stati del Golfo e ha cercato di essere meno coinvolto con “l’asse della resistenza” iraniano.
L’offensiva jihadista in Siria è stata scatenata, non certo casualmente, subito dopo il cessate il fuoco (molto instabile) tra Hezbollah e Israele. Del resto negli ultimi mesi le forze aeree israeliane si erano accanite sulle postazioni e i depositi di armi e munizioni di Hezbollah e dell’esercito siriano intorno alla città di Aleppo. Area distante dal confine israeliano a conferma che lo Stato ebraico ha volutamente indebolito le forze siriane e i suoi alleati in quella regione per favorire l’attacco jihadista.
Anche quella tra qaedisti e israeliani non è certo una “alleanza” inedita dal momento che durante la guerra civile siriana diversi ribelli salafiti rimasti feriti negli scontri con le truppe siriane nel sud della Siria sono stati curati negli ospedali militari israeliani sulle alture del Golan, territorio siriano che Israele occupa dal 1967.
Le carte coperte di Ankara
Più sorprendente può apparire invece l’intesa tra Israele e la Turchia, nazione il cui coinvolgimento nell’offensiva dei ribelli non può certo essere escluso al di là delle dichiarazioni sibilline del ministro Fidan. Ankara ha quanto meno chiuso un occhio sull’afflusso di armi e munizioni che hanno consentito ai miliziani jihadisti di scatenare l’offensiva, inclusi droni FPV e altri equipaggiamenti provenienti con ogni probabilità dagli arsenali ucraini. Armi e miliziani che possono essere transitati solo dal confine turco per raggiungere Idlib.
Del resto non è difficile riscontrare una possibile convergenza di interessi tra Turchia e lo Stato ebraico. Israele punta sulla caduta del regime di Bashar Assad per interrompere la continuità territoriale della cosiddetta “Mezzaluna scita” che unisce Iran, Iraq, Siria e Libano consentendo l’alimentazione di Hezbollah.
Allo stesso modo Recep Teyyp Erdogan sembra aver rinunciato a negoziare con Bashar Assad il rientro in Siria di almeno due milioni di profughi siriani da anni ospitati in Turchia, Vladimir Putin si era offerto di mediare la riappacificazione tra i due capi di governo ma la l’attacco jihadista certo non facilita colloqui tra i due mentre Erdogan potrebbe puntare sia a rimpatriare i profughi nelle aree sotto controllo dei miliziani sia a utilizzare questi territori per ampliare le operazioni militari contro le forze curde del Rojava, la regione siriana a ridosso del confine già in parte presidiata da truppe turche.
Ieri Erdogan ha detto che Ankara ”segue da vicino e con attenzione gli sviluppi scoppiati all’improvviso nella nostra vicina Siria negli ultimi giorni e siamo pronti a fare tutto il necessario per spegnere l’incendio nella nostra regione oggi, come lo abbiamo fatto ieri” auspicando ”che venga raggiunto un accordo e che l’instabilità in Siria possa essere risolta”.
Oggi il l presidente turco, ha esortato il regime siriano ad impegnarsi in un “vero processo politico” per evitare che la situazione peggiori, ribadendo che la priorità del suo Paese è preservare la calma oltre i suoi confini e non danneggiare la popolazione.
E’ quindi possibile che Ankara tenga le sue carte coperte puntando a incassare contropartite territoriali tramite un ‘intesa con Russia e Iran nell’ambito del cosiddetto “formato Astana”: un incontro a tre a Doha (Qatar) viene valutato in queste ore secondo quanto riferito questa mattina dal portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova.
Come è già accaduto in passato, chiunque aizzi le insurrezioni jihadiste rischia poi di incontrare molte difficoltà a controllarle. Compito a cui non possono sottrarsi invece le milizie curde schierate nel nord e nell’est della Siria che potrebbero trovarsi meno allineate con gli Stati Uniti, che sembrano avere interesse nel sostenere lo sviluppo dell’offensiva jihadista per colpire Assad e le forze russe in Siria.
Negli ultimi tempi l’amministrazione Biden ha ammorbidito le sue posizioni nei confronti della Turchia aprendo a forniture di armi fino a ieri negate, come i moderni aerei F-16 Viper o forse addirittura gli F-35, accettando quindi che Ankara schieri missili da difesa aerea russi S-400.
Un ammorbidimento inaspettato, che Erdogan potrebbe aver compensato sostenendo senza clamore (o non ostacolando) l’offensiva jihadista in Siria, anche solo lasciando transitare armi e miliziani diretti ad alimentarla. Al tempo stesso però la Turchia non ha alcun interesse nel vedere compromessa l0integrità territoriale della Siria che aprirebbe la strada alla nascita di uno stato curdo.
Nel pomeriggio del 3 dicembre l’Aeronautica Turca ha bombardato il nord della Siria, colpendo una postazione dell’YPG curdo ti di YPG, uccidendo almeno 7 miliziani, nella provincia settentrionale di Afrin, sotto il controllo turco dal 2018. Lo ha reso noto il ministero della Difesa turco.
Un altro “colpo di coda” dell’Amministrazione Biden?
Circa il ruolo degli Stati Uniti, la tempistica dell’offensiva jihadista sembra rientrare tra i “colpi di coda” dell’Amministrazione Biden, intenzionata a lasciare in eredità il maggior numero possibile di crisi da gestire. Non è un caso che dopo la vittoria elettorale di Donald Trump sia stato dato il via libera agli ucraini per colpire il territorio russo con i missili balistici ATACMS, siano esplose rivolte anti-governative in Georgia (dove a dar man forte agli insorti starebbero rientrando i volontari che hanno combattuto sul fronte ucraino) e sia stata scatenata l’offensiva jihadista in Siria.
Peraltro in Siria gli Stati Uniti mantengono da anni una presenza militare di occupazione, illegale per il diritto internazionale con circa un migliaio di militari. Delle 4 aree che controllano quella meridionale di al-Tanf è al ridosso del confine giordano e permette di proteggere diversi gruppi di ribelli anti-Assad (che oggi potrebbero tornare in azione riaprendo anche il fronte meridionale.
Le altre tre basi si trovano nella Siria Orientale, dislocate in prossimità di pozzi petroliferi che le truppe americane controllano per impedire al governo siriano di sfruttare le risorse energetiche per la ricostruzione post-bellica.
Vale la pena ricordare che nel suo primo mandato Trump si era espresso a favore del ritiro dei militari dalla Siria ma le pressioni del Pentagono bloccarono quell’iniziativa. Nei mesi scorsi però il governo iracheno ha stabilito che le truppe statunitensi e alleate schierate in Iraq dai tempi della guerra allo Stato Islamico dovranno ritirarsi entro settembre 2025. Senza le basi in Iraq non sarà più possibile mantenere quelle in Siria a meno che non vi sia un cambio di regime a Damasco.
Del resto la posizione assunta da USA, Francia, Gran Bretagna e Germania appare chiara pur celandosi dietro qualche ambiguità. Le potenze occidentali hanno chiesto una de-escalation in Siria e hanno lanciato un appello per la protezione dei civili e delle infrastrutture.
“L’attuale escalation non fa che sottolineare l’urgente necessità di una soluzione politica del conflitto a guida siriana, in linea con la Risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, si legge in una dichiarazione congiunta rilasciata dal Dipartimento di Stato statunitense, che fa riferimento alla risoluzione del dicembre 2015 che approva un processo di transizione politica in Siria e cioè la fine del regime di Bashar Assad.
Una posizione che sembra mutuata direttamente da quella di Washington, dove il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha spiegato l’offensiva dei ribelli affermando che “i principali sostenitori del governo siriano – Iran, Russia ed Hezbollah – erano tutti distratti e indeboliti da conflitti ed eventi altrove“.
L’Amministrazione Biden non sembra quindi aver perso l’occasione per contribuire alla destabilizzazione anche di questa regione colpendo così gli interessi di Russia e Iran, forse anche con l’obiettivo di aprire un nuovo fronte da inserire in future trattative per la fine delle ostilità in Ucraina.
Del resto che l’attuale dirigenza statunitense intenda sfruttare le sei settimane che le restano prima dell’insediamento di Donald Trump per giocare un ruolo anche in Siria lo dimostra l’attivazione di un canale di comunicazione tra le forze statunitensi e quelle russe schierate nel paese arabo. Lo ha reso noto al Pentagono il portavoce Patrick Ryder spiegando che la decisione è stata presa in risposta all’escalation delle tensioni nella regione, dove le forze statunitensi e russe operano in prossimità geografica.
Il coordinamento punta a prevenire incidenti e coinvolge il comando russo a Latakya e il comando della Combined Joint Task Force – Operation Inherent Resolve (CJTFOIR), la coalizione a guida statunitense basata in Iraq.
Che gli Stati Uniti abbiano un ruolo non marginale in quanto sta accadendo in Siria sembrano confermarlo anche gli attacchi delle milizie curdo-sunnite delle FDS contro le forze governative nella Valle dell’Eufrate e soprattutto nel settore di Deir Ezzor, nella Siria Orientale. Attacchi che l’agenzia di stampa turca Anadolu definisce “appoggiati dagli Stati Uniti”
L’esercito siriano ha reso noto oggi di aver respinto un attacco lanciato da forze affiliate alle Forze Democratiche Siriane nella campagna settentrionale del Governatorato di Deir Ezzor. L’impressione è quindi che si punti a sfruttare l’impegno militare del regime di Damasco nel nord per sottrarre territorio nelle regioni orientali indebolendo ulteriormente l’esercito siriano.
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani oggi aerei da combattimento statunitensi hanno bombardato posizioni di milizie filo-iraniane nella valle dell’Eufrate, proprio nell’area di Deir Ezzor. Più tardi il portavoce del Pentagono, il maggiore generale Pat Ryder, ha dichiarato che le forze statunitensi hanno condotto un attacco di autodifesa nei pressi del Mission Support Site Euphrates, una base statunitense nella Siria orientale, contro tre lanciarazzi multipli montati su camion, un carro armato T-64 e mortai che rappresentavano “una minaccia chiara e imminente” per le truppe statunitensi.
L’attacco è avvenuto dopo che razzi e mortai hanno sparato e i loro colpi sono esplosi nelle vicinanze della base, ha aggiunto Ryder precisando che il Pentagono sta ancora valutando chi sia stato il responsabile degli attacchi: ci sono sia milizie sostenute dall’Iran sia forze militari siriane che operano nella zona. Ryder ha poi sottolineato che l’attacco non è collegato all’offensiva delle milizie dell’ HTS in corso ad Aleppo.
La conquista di Dei Ezzor da parte di milizie sunnite e forze statunitensi avrebbe un valore strategico poiché interromperebbe la continuità territoriale tra il confine iracheno e Damasco e quindi le vie di rifornimento che dall’Iran raggiungono Siria e Libano. Non a caso nella regione è segnalata una crescente presenza di milizie scite a sostegno delle truppe siriane.
Gli ultimi sviluppi sul campo di battaglia
Tornando sui campi di battaglia nel nord della Siria, gli scontri sembrano aver provocato al 2 dicembre almeno 50mila sfollati e 514 morti in combattimento (secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani): 268 miliziani jihadisti, 154 tra soldati e combattenti filo-governativi e 92 civili. Nella serata di oggi la stessa fonte riferiva che le vittime erano salite a 602: 299 ribelli, 199 soldati e combattenti filo-governativi e 104 civili.
Nel pomeriggio di ieri il comando militare a Damasco ha reso noto che nelle ultime 24 ore erano stati uccisi 400 ribelli con gli attacchi aerei delle aeronautiche siriana e russa aggiungendo che le truppe dell’Esercito Arabo Siriano (SAA) si stanno mobilitando per accerchiare i ribelli nelle campagne di Aleppo, Hama e Idlib.
Come sempre tutte le notizie che giungono dai belligeranti vanno prese con le molle poiché non è possibile trovarne conferma da fonti neutrali.
Le forze aeree russe basate a Latakya sono intervenute fin dalle prime ore dell’offensiva colpendo anche centri di comando e controllo dei ribelli nell’area di Idlib dove del resto da settimane i Sukhoi russi colpivano le milizie jihadiste, forse sospettando imminenti minacce.
L’intelligence militare ucraino (GUR) ha fatto sapere che le forze russe in Siria hanno subito ingenti perdite e per questo Mosca ha deciso di cambiarne il comandante: il generale Serhiy Kissel è stato sostituito il generale Oleksandr Chaiko, che ha comandato le truppe russe in Siria dal 2017 al 2019.
Se l’obiettivo di Washington e Kiev era indurre Mosca a ritirare truppe dall’Ucraina per inviarle in Siria, almeno per ora non sembra essere stato raggiunto. I russi stanno intensificando i raid aerei e forse invieranno altre unità di forze speciali ma la rinnovata conflittualità in Siria, al pari dell’attacco ucraino alla regione di Kursk, non sembrano costringere Mosca a ridurre la pressione offensiva sui fronti ucraini. Almeno per ora.
Il grosso dei rinforzi destinati ad affiancare le truppe siriane sta affluendo dall’Iraq dove le milizie scite di mobilitazione popolare (MUP) sostenute dall’Iran ma integrate nelle forze armate di Baghdad (e già protagoniste della guerra contro l’ISIS) stanno trasferendo molti combattenti oltre il confine, nell’ambito del trattato tra Damasco e Baghdad che impegna entrambi a sostenersi a vicenda contro la minaccia terroristica.
Lo hanno confermato fonti anonime delle milizie irachene ma anche l’Osservatorio siriano per i diritti umani, ong filo-occidentale che ha sede nel Regno Unito, ha reso noto che circa 200 miliziani iracheni a bordo di pick-up sono entrati in Siria nella notte di domenica attraverso il valico di confine con l’Iraq di Bou Kamal.
Il ministero della Difesa iracheno ha confermato l’invio di “unità corazzate dell’Esercito iracheno” per rafforzare il confine dal valico di al-Qaim alla frontiera con la Giordania più a sud. Un dispiegamento analogo è stato segnalato lungo il confine più a nord con la provincia di Ninive (nella foto qui sotto).
All’agenzia France Presse hanno invece negato l’invio di rinforzi in Siria le milizie scite Kataib Hezbollah, Al-Nujaba e Kataeb Sayyid al-Shuhada, parte di Hashed al-Shaabi, la coalizione di forze paramilitari scite ora integrate nelle forze armate regolari irachene. “E’ troppo presto per questo tipo di decisioni“, ha detto all’agenzia un comandante di Kataib Hezbollah.
Questa mattina però lo stesso gruppo armato ha chiesto al governo iracheno di inviare truppe in Siria per supportare il governo di Damasco. Un portavoce di Kataib Hezbollah ha confermato che il gruppo non ha ancora deciso di schierare i propri combattenti, ma ha esortato Baghdad ad agire. “Riteniamo che il governo iracheno dovrebbe prendere l’iniziativa di inviare forze militari regolari in coordinamento con il governo siriano, poiché questi gruppi rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale dell’Iraq e della regione“, ha affermato il portavoce.
Le truppe governative siriane hanno annunciato il 1° dicembre di aver espulso i ribelli islamici da due aree della provincia di Hama, il cui capoluogo è stato colpito da droni lanciati dai ribelli.
“Le unità delle nostre forze armate che operano nella direzione del nord di Hama hanno rafforzato le loro linee difensive con ogni tipo di materiale e personale militare durante la notte, hanno affrontato le organizzazioni armate e hanno impedito qualsiasi avanzata”, ha affermato un comunicato dell’esercito che di fatto conferma come il primo obiettivo di Damasco sia contenere l’offensiva dei ribelli a sud nella regione di Hama e a est con la mobilitazione delle milizie curde.
Le unità governative sarebbero riuscite ieri a “mettere in sicurezza diverse zone dopo aver espulso i terroristi tra cui Qaleet al Madeeq e Maardes. Decine di loro sono morti e gli altri sono fuggiti”. Maardes, a nord della città di Hama, è una cittadina strategica situata sull’autostrada M5, che collega da sud a nord la Siria, spina dorsale del Paese.
Più a nord, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani e media di Damasco, le forze governative hanno ripreso il controllo del villaggio di Khanaser, che si trova su una delle strade che portano ad Aleppo, che avevano perduto il 29 novembre.
Questa mattina i ribelli dell’HTS hanno annunciato che i loro combattenti erano in grado di avanzare e controllare le città di Taybat al-Imam, Halfaya e Maardis, avvicinandosi quindi ad Hama.
L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ha reso noto questa mattina che le milizie scite sono passate al contrattacco ingaggiando le forze dell’HTS a sud-est di Aleppo, lungo la strada che collega la città a Khanaser.
L’Esercito Arabo Siriano ha costruito una linea difensiva nel nord della provincia di Hama nel tentativo di bloccare lo slancio offensivo jihadista raccogliendo tutte le forze disponibili mentre l’aeronautica siriana ha reso noto di aver distrutto il centro di comando di gruppo Hayat Tahrir al-Sham a Khan Shaykhun, nella provincia di Idlib.
Anche l’Iran potrebbe inviare reparti di pasdaran dopo il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha incontrato domenica a Damasco il presidente Assad annunciando il pieno sostegno di Teheran. Nel pomeriggio del 3 dicembre Araghchi, ha dichiarato che “in caso di richiesta ufficiale da parte di Damasco, siamo pronti a prendere in considerazione l’invio di forze in Siria”.
Di certo la presenza di più truppe iraniane in Siria non sarà gradita a Israele che ha già ammonito Teheran dal fornire altri armamenti a Hezbollah. Anche per questo il conflitto riesploso in Siria rischia di rappresentare l’anello di con giunzione tra la guerra in Ucraina e quella tra Israele e gli alleati dell’Iran.
Pure il Cremlino continua a sostenere Assad come ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. “Naturalmente continuiamo a sostenere Bashar al Assad, continuiamo i nostri contatti ai livelli appropriati e analizziamo la situazione. Sarà valutato quello che è necessario fare per stabilizzare la situazione”.
Le forze navali e aerospaziali russe hanno concluso oggi esercitazioni nel Mediterraneo orientale a cui prendono parte mille militari, dieci unità navali e 24 aerei da combattimento, inclusi Mig-31I armati con missili ipersonici Kinzhal, ha reso noto il ministero della Difesa a Mosca. Una prova muscolare e di deterrenza nei confronti delle navi statunitensi e alleate schierate in quell’area.
Foto: SAA, Lekolin, Ministero Difesa Russo, Kyiv Post, Anadolu, SANA, US DoD e Tasnim
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Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.