Il Medio Oriente tra Erdogan, Netanyahu e Trump
Con la caduta del regime siriano degli alawiti dell’ex presidente Assad nuove incognite si addensano su un’area mai così tempestosa.
Una premessa appare necessaria per frenare i peana fin troppo ottimisti sul fulmineo cambio di regime e sulle aspettative di svolte gradite alla comunità internazionale e alla popolazione da parte di fazioni eterogenee a maggioranza islamiste, tranne curdi e drusi. Come per i Balcani vale la saggia massima: Nulla è come appare.
In parole povere la svolta potrebbe portare a due conseguenze opposte. Un’ influenza sostanziale dei seguaci dei Fratelli Musulmani rafforzata dalla presa del potere in uno Stato importante come la Siria. Una inattesa moderazione con apertura alla laicità per non sovvertire le tradizioni, la convivenza fra etnie e religioni diverse, tratto distintivo della Siria. In entrambi i casi la Turchia con il suo abile Presidente manovratore sarà lo Stato protettore, garante della stabilità del nuovo regime.
Tutti sembrano dimenticare o voler ridimensionare la stabilità, la laicità, le libertà di culto garantite per oltre 50 anni dagli Assad padre e figlio. Tiranni spietati con i nemici interni ma non dissimili da altri uomini forti succedutisi al potere in Siria, nel vicino Iraq, spesso in Egitto. Chi ha vissuto e frequentato il Medioriente arabo sa che le stesse popolazioni sono attratte da uomini forti al potere, idealmente, per quanto consentito, illuminati, possibilmente con un moderato culto della personalità.
Le tradizioni, finora, di grandi civiltà abituate da sempre a mescolanze di popoli, etnie, culti religiosi hanno sempre rispettato convivenze di etnie e culti diversi purché non venisse intaccata la stabilità dello Stato forte. In pratica la legge islamica più stringente, la Shaaria non veniva né poteva essere imposta, al contrario sono stati contrastati i seguaci dei Fratelli Musulmani e gli islamisti più radicali.
Considerazioni realistiche dovrebbero altresì riconoscere che l’ex Presidente alawita Basher el Assad non aveva torto quando a partire dal 2011, a maggior ragione dal 2013, dichiarò a più riprese che la Siria combatteva contro fazioni di islamisti e terroristi e non una guerra civile come si voleva far credere per accelerare una sua uscita di scena. Anche allora la regia turca premeva per il cambio di regime.
In piena transizione in uno Stato che non appare più tale causa fazioni, gruppi irredentisti, islamisti, lembi di territorio dell’uno o dell’altro, è opportuno attendere ulteriori sviluppi.
Le dichiarazioni in un certo senso di apertura da parte di Al Jolani, l’uomo forte designato o autodesignatosi, con il decisivo sostegno turco, come capo unificatore delle fazioni unitesi per rovesciare gli alawiti, vanno prese con una buona dose di realistica prudenza. In effetti i primi segnali non sono confortanti.
I curdi prima di confluire nelle nuove Forze Armate unificate intendono negoziare una loro eventuale adesione, drusi, cristiani e alawiti, questi ultimi in stato di ribellione e agitazione a seguito delle prevaricazioni subite subito dopo il crollo del regime, non sono certamente propensi a sostenere un nuovo regime islamista, sia pure moderato.
Al-Jolani, ex convinto sostenitore di al-Qaeda per accreditarsi come vincitore a livello regionale e internazionale, per non spaventare popolazione e Stati limitrofi, principalmente Israele e Giordania, non poteva fare diversamente, pena immediate reazioni di contrasto interne ed esterne.
In questo senso la Turchia del Presidente Recep Tayyp Erdogan ha certamente imposto la linea di azione e comunicazione. Resta da verificare quanto potrà essere mantenuta con convinzione una linea politica di equilibrismo tale da non scontentare gruppi etnici, culti religiosi diversi finora conviventi nel Paese.
D’altra parte un crollo così rapido di un regime consolidato con il sostegno della Federazione Russa e dell’Iran, e per quanto riguarda la stabilità regionale da una tacita non interferenza reciproca con Israele, sarebbe difficile da spiegare senza accordi sottobanco, dietro le quinte, di spartizione di aree di influenza tra i principali attori esterni Turchia, Federazione Russa, Usa e Israele. Ue non pervenuta, esclusa per irrilevanza.
Effetto Trump, effetto Erdogan
L’esito delle elezioni in Usa ha di fatto contribuito a chiarimenti ed accelerazioni di processi forse ineluttabili la cui tempistica con un diverso esito elettorale sarebbe stata più che mai incerta con le conseguenze immaginabili.
Gli attuali conflitti regionali, in particolare la guerra russo ucraina, la situazione mediorientale, i risvolti conflittuali nel Sahel, l’irrisolta questione libica, vanno considerati come un insieme di minacce che confluiscono in un’unica grave minaccia globale destabilizzante per gli assetti fin qui conosciuti, ma anche per un’eventuale concreta ricerca di nuove forme di equilibrio fra le potenze globali.
Quel che sembrerebbe/dovrebbe prevalere nel presente a prescindere da risvolti ideologici, retorici, è la risoluzione pragmatica di conflitti, mai così ad alto grado di intensità, tali da compromettere sicurezza e stabilità mondiale (non solo quindi quella occidentale come continuano ad asserire i cosiddetti pacifisti, la disinformazione inconscia o prezzolata, gli antagonisti in larga prevalenza con patente antioccidentale).
In questo contesto se portasse a soluzioni più rapide e non a conflitti di altre dimensioni, ben venga l’irruenza, la determinazione, l’imprevedibilità, il peso di un Presidente come Trump.
Gli interlocutori principali, protagonisti, nel bene e nel male, dello scenario che viviamo quotidianamente sembra lo abbiano capito, ben prima della burocrazia Ue la quale infatti, in attesa di serie riforme operative, resta irrilevante.
Più positiva presenza in uno scenario mai così conflittuale stanno mostrando bilateralmente Paesi come l’Italia favorita da un declino palpabile di Francia e Germania ma anche più attiva, pronta ad esporsi, meno delegante del recente passato.
I fatti indicano che i messaggi chiari non ambigui lanciati da Donald Trump siano stati presi sul serio. Il Presidente della Federazione Russa ha confermato di essere pronto per un incontro, il Presidente ucraino capita l’antifona del nuovo corso si affida ad una solida mediazione Usa, più che ad un’azione Ue, per avviare le trattative che pongano fine al distruttivo conflitto, pronto quindi ad accettare compromessi finora esclusi.
Sul fronte Mediorientale gli obiettivi del nuovo corso trumpiano appaiono delineati e ben recepiti da amici e avversari. Innanzitutto formalizzare al più presto l’adesione dell’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo, al fine di rendere più operativa l’alleanza economico militare fra Stati Arabi moderati ed Israele in funzione anti Iran e sostenitori del terrorismo.
Sarebbe la vera svolta epocale e un monito per coloro che sostengono troppo apertamente i Fratelli Musulmani (si intenda la Turchia di Erdogan), le loro varie affiliazioni, una islamizzazione progressiva e forzata in Siria, gli Hezbollah, gli Houthi.
Inoltre il ridimensionamento dell’Iran potrebbe vedere forse un crollo del regime degli Ayatollah, rafforzando l’asse Israele- Paesi Arabi moderati nel novero degli alleati dell’Occidente. A parere di chi scrive anche la Federazione Russa dovrebbe essere della partita, certamente escluderla sarebbe un errore di visione, di prospettiva strategica nel medio lungo termine.
Per quanto concerne Erdogan, l’operazione attuata in Siria è risultata vincente senza alcun dubbio. La sua visione espansionistica fra Nord Africa, Sahel e Medio Oriente prosegue apparentemente senza grandi intoppi. A creare qualche difficoltà sono piuttosto le tensioni socio economiche interne.
Ankara dovrebbe procedere da ora in avanti con più prudenza, non oltrepassare i limiti delle concessioni, che si è già preso, consentite dall’importanza strategica della Turchia nel Fianco Sud della NATO. Tuttavia forse alla lunga il gioco apertamente ambiguo coltivato con sagacia dal Presidente turco dovrà probabilmente ridimensionarsi.
Le questioni Siria, Fratelli Musulmani, lotta ai Curdi, zona cuscinetto fra Siria e Turchia, Libia, rientro dei migranti, finora ospitati in Turchia grazie a importanti finanziamenti Ue, nei loro Paesi, provocazioni nel Mediterraneo contro gli alleati Italia e Grecia, verranno probabilmente gestite in maniera meno aggressiva.
Lo stesso rapporto non sempre limpido con la Federazione Russa basato su determinati interessi comuni ed altrettante divergenze su altri fronti risulterebbe meno ambiguo se non venisse commesso l’errore di ridimensionare vistosamente l’influenza russa nell’area mediorientale.
La complessità delle crisi e dei rapporti in divenire è tale che ad esempio per l’Italia sarebbe forse più conveniente che la Federazione Russa installasse una base navale importante in Libia, qualora dovesse abbandonare Tartus in Siria, al fine di ridimensionare la prepotente influenza turca mella nostra ex colonia che risulta più preoccupante per gli interessi italiani.
Vincitori e vinti, effetto Netanyahu
In attesa delle mosse della nuova amministrazione Usa per un riassetto mediorientale auspicato, quali considerazioni trarre dallo scenario presente?
Sic stantibus rebus sono da considerare sconfitti con pochi margini di ripresa, Hamas, Jihad islamica, Hezbollah, Houthi, fazioni minori e il loro principale sponsor; l’Iran. La Repubblica Islamica ha tuttavia avuto l’accortezza, una prudenza forzata, di non scontrarsi direttamente con Israele limitandosi a lanci missilistici, più che altro per salvare la faccia, pur incassando severe ritorsioni anche sul suo territorio, senza contare le eclatanti operazioni israeliane di soppressione dei vertici e di alti responsabili di Hamas, Hezbollah, compiute perfino sul territorio iraniano.
Sconfitta con qualche margine di ripresa l’Autorità Palestinese e qui va aggiunto “purtroppo”, poiché non riesce a cogliere le occasioni per smarcarsi inequivocabilmente dalle fazioni terroristiche, da Hamas, da coloro che hanno comunque causato danni irreversibili alla stessa popolazione palestinese usata, ricattata in funzione del martirio e degli sporchi interessi di terroristi senza scrupolo alcuno.
L’ANP non riesce a dimettere né a rimpiazzare il suo Presidente Abu Mazen. Sconfitto, indebolito in primo luogo dalle fazioni islamiste palestinesi poi anche in Cisgiordania dal suo popolo in maggioranza poco incline al radicalismo senza speranze.
Le eventuali controparti israeliane non lo hanno certamente aiutato ma Abu Mazen avrebbe dovuto cogliere le occasioni, riformare completamente struttura amministrativa, linea politica, risorse umane per poi lasciare ad altri più giovani, competenti, meno chiacchierati.
Cosa che fece il compianto Arafat, restando al potere ma inserendo nell’amministrazione anche giovani funzionari, ministri competenti e rispettati. Tutti progressivamente rimossi dal suo successore il quale, in tal modo, ha incrementato nepotismo, clan, faide interne votandosi a sconfitte su sconfitte senza peraltro rafforzare, tantomeno avvicinare al popolo un’amministrazione criticata perfino in Cisgiordania.
Ricordo bene tanti giovani funzionari e ministri competenti con cui ebbi a lavorare quotidianamente fra il 1995 e il 1997, all’epoca ero responsabile sul terreno di un’Agenzia Onu, fra Gerusalemme, Ramallah e Gaza. Il Ministero della cooperazione internazionale, in pratica fungeva da Ministero degli esteri, diretto dall’economista Nabil Shaa’t costituiva un modello vincente anche nel dialogo con gli israeliani.
Ai pochi alti funzionari dell’epoca ancora in servizio, di cui con alcuni ricordo ancora le frequentazioni amichevoli fuori dal lavoro, probabilmente non è stato consentito di incidere, di guidare un nuovo corso.
Senza profondi ricambi e volontà di riforme sostanziali, non di facciata, l’Autorità Palestinese non sarebbe oggettivamente in grado di assicurare una gestione di una transizione preparatoria ad un’assunzione di responsabilità richieste per dirigere uno Stato svincolato da pressioni islamiste, moderato, pronto ad una convivenza costruttiva.
Una realtà, interna all’ Autorità, purtroppo cruda, non ideologica, ovviamente poco raccontata, che esula da colpe, torti, problema dei coloni, responsabilità dirette israeliane. Paradossalmente sembra sia stato fatto di tutto per dar ragione alla linea dura israeliana sulla futura gestione di Gaza e sulla creazione a breve termine di uno Stato palestinese funzionante.
Fra gli sconfitti, a parere di chi scrive, non si può per ora includere la Federazione Russa. Si potrebbe indicare un temporaneo ridimensionamento in attesa di una ridefinizione di equilibri e di accordi, anche dietro le quinte, con gli Usa, Israele, Turchia.
Fra i vincenti oltre ai già menzionati Trump e Erdogan va, senza ombra di dubbio, indicato il Primo ministro israeliano. Quest’ultimo, criticato anche in Patria, ha tuttavia, in risposta ad un gravissimo attacco terroristico senza precedenti, perseguito una linea dura, intransigente che alla fine ha spezzato e continua a farlo un asse del male veramente pericoloso, non solo per Israele. Va forse ricordato che una strategia politico militare valida per ogni luogo e in ogni tempo prevede, anche in risposta ad un attacco, che iniziata una guerra la si conduce per vincerla, sia sul campo che al tavolo negoziale.
In attesa di Donald Trump e in considerazione della irrilevanza della Ue, egli ha preparato il terreno, per successive trattative, per la piena operatività degli Accordi di Abramo e per un riequilibrio della situazione nel Vicino e Medio Oriente. Situazione per ora caotica, sfavorevole al terrorismo e al principale sponsor. Il pieno successo verrebbe raggiunto con un cambio di regime in Iran e con la liberazione del Libano dalla ingombrante, ricattatoria presenza militare degli Hezbollah e jihadisti vari.
Netanyahu dovrà comunque risolvere in qualche modo problemi non di poco conto quali la questione ostaggi, ultraortodossi divisivi nella compagine governativa, coloni sempre più intolleranti e aggressivi, problemi giudiziari personali sia per lui che per la consorte.
Temporaneamente con una grande speranza per il popolo libanese dovremmo inserire anche il martoriato Libano fra i potenziali vincenti qualora riuscisse finalmente ad eleggere un nuovo Presidente, a ristabilire la propria autonomia, preparare le condizioni per ritornare ai fasti, al dinamismo economico del Libano di un tempo, esempio di convivenza fra comunità e religioni diverse.
Il ruolo dell’Italia
Nel vuoto europeo, inteso come Ue, della crisi mediorientale, rientrare bilateralmente in una partita complessa e caotica a poca distanza dai nostri territori appare più costruttivo e produttivo per gli interessi nazionali. E’ quello che sta facendo il nostro Paese al di là delle ideologie, della retorica e delle diverse posizioni partitiche spesso di breve respiro.
Con il ridimensionamento francese anche in Medio Oriente, emerge un possibile ruolo rilevante per l’Italia che per tradizione ha sempre mantenuto ottime relazioni sia con i Paesi Arabi che con Israele. Il problema del passato è stato sempre la mancata valorizzazione delle nostre potenzialità, riconosciute dagli interlocutori ma paradossalmente frenate quasi nascoste a noi stessi per una eccessiva, controproducente delega al multilateralismo di Onu e Ue.
Quasi non fossimo tra i principali donatori delle due Istituzioni internazionali. E’ stato un errore continuato negli anni che questo governo oggettivamente non sembra voglia perseguire. In precedenti articoli sul tema abbiamo già ricordato quanto saremmo in credito con gli organismi internazionali certamente necessari ma non tali da frenare o sottostimare un Paese come l’Italia a livello di decisioni e soprattutto di posizioni da attribuire a livello internazionale ai nostri connazionali.
Ben venga quindi una incisiva azione bilaterale con Israele, decisamente in rotta di collisione con alcune Agenzie Onu e non del tutto a torto, e con Paesi quali Siria e Libano dove abbiamo sempre operato con consenso e rispetto di governi e popolazioni. In fondo pur nella attuale irrilevanza in un auspicabile riequilibrio di forze in Medio Oriente non si potrà fare a meno dell’Europa, dei suoi finanziamenti soprattutto, prendere quindi un forte posizionamento bilaterale gioverebbe agli interessi nazionali non solo nel breve periodo ma in prospettiva.
Foto: IDF, Anadolu e T4legram
Ugo TrojanoVedi tutti gli articoli
E' uno dei maggiori esperti italiani di operazioni internazionali di stabilizzazione, peacebuilding, cooperazione e comunicazione nelle aree di crisi. Dagli anni 80 ha ricoperto incarichi di responsabilità crescenti per l’Onu, la UE e il Ministero degli Esteri in Africa (13 anni), Medio Oriente e Balcani. Specialista di negoziati complessi, è stato Sindaco Onu in Kosovo della città mista di Kosovo Polje dal 1999 al 2001, ha guidato, primo non americano, il PRT di Nassiriyah in Iraq nel 2006 ed è stato Portavoce e Capo della comunicazione della missione europea di assistenza antiterrorismo EUCAP Sahel Niger fino al 2016. Destinatario di un’alta onorificenza presidenziale Senegalese, per l’editore Fermento ha scritto "Alla periferia del Mondo". Scrive su riviste specializzate ed è un apprezzato commentatore per radio e tv.