Una nuova strategia per la vittoria di Israele
di Daniel Pipes da L’informale 20 dicembre 2016
La diplomazia israelo-palestinese sfortunatamente coincide con quella che è la classica descrizione della pazzia: “fare la stessa cosa ancora e ancora aspettandosi di ottenere risultati diversi”. A discapito del loro fallimento, gli stessi presupposti-la terra in cambio della pace e la soluzione dei due stati-con l’onere principalmente sulle spalle di Israele, restano permanentemente dove sono.
Decenni di quello che gli addetti ai lavori chiamano “il processo di pace” hanno lasciato le cose peggio di come erano al principio, ciononostante le grandi potenze persistono, inviando un diplomatico dopo l’altro a Gerusalemme e a Ramallah, continuando a sperare che il prossimo turno di negoziazioni porterà a un elusivo punto di svolta. Il tempo è arrivato per un nuovo approccio, un ripensamento sostanziale del problema. Si basa sulla strategia di Israele nei suoi primi 45 anni e sui successi conseguiti. Il fallimento della diplomazia israelo-palestinese dal 1993 a oggi, suggerisce questo approccio alternativo, con un’enfasi sulla tenacia di Israele nel volere perseguire la vittoria. Ciò, paradossalmente, potrebbe essere di beneficio per i palestinesi e rinforzare il sostegno americano.
La Quasi impossibilità del Compromesso
Dalla Dichiarazione Balfour del 1917 in poi, i palestinesi e gli israeliani hanno perseguito obbiettivi statici e opposti. Negli anni precedenti il venire in essere del nuovo stato, il mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, enunciò una politica di rifiuto di Israele e di eradicazione di qualsiasi traccia di presenza ebraica in quello che è oggi il territorio dello Stato ebraico1. Questa politica è ancora in vigore. Le mappe in arabo che mostrano la “Palestina” rimpiazzare Israele simboleggiano questa aspirazione persistente. Il rifiuto è così profondo da non governare solo la politica palestinese ma gran parte della sua stessa vita.
Con continuità, energia e perseveranza, i palestinesi hanno perseguito il rifiuto tramite tre approcci fondamentali: demoralizzando i sionisti attraverso la violenza politica, danneggiando l’economia israeliana in virtù dei boicottaggi commerciali e indebolendo la legittimità di Israele tramite l’acquisizione dell’appoggio estero. Le differenze tra le fazioni palestinesi tendono a essere tattiche: Interloquire con gli israeliani allo scopo di ottenere concessioni oppure no? Mahmoud Abbas rappresenta il primo atteggiamento e Khaled Mashal il secondo.
Da parte israeliana quasi tutti sono d’accordo sulla necessità di acquisire l’accettazione da parte palestinese (e di altri arabi e musulmani). Le differenze sono ancora una volta tattiche. David Ben-Gurion propose un approccio, quello di mostrare ai palestinesi quello che potevano ottenere dal sionismo. Vladimir Jabotinsky sviluppò una posizione opposta, sostenendo che i sionisti non avevano altra scelta se non quella di piegare l’intrattabile volontà palestinese. I loro approcci rivali rimangono il riferimento del dibatto politico israeliano relativo alla politica estera, con Isaac Herzog erede di Ben Gurion e Benjamin Netanyahu erede di Jabotinsky.
Questi due approcci-il rifiuto e l’accettazione-sono rimasti fondamentalmente inalterati da un secolo. Oggi l’Autorità Palestinese, Hamas, il partito laburista e il Likud sono i discendenti di Husseini, Ben-Gurion e Jabotinsky. La variazione delle ideologie, degli obbiettivi, delle tattiche, delle strategie e degli attori significa che i dettagli sono mutati, anche se i fondamentali sono rimasti sorprendentemente al loro posto. Le guerre come i trattati sono arrivate e se ne sono andate conducendo solo a piccoli mutamenti. Le numerose fasi del conflitto hanno avuto poco impatto sugli obbiettivi a lungo termine, mentre i negoziati formali (come gli Accordi di Oslo del 1993) hanno solo aumentato l’ostilità nei confronti dell’esistenza di Israele e sono dunque stati controproducenti.
Il rifiuto palestinese o l’accettazione di Israele è binario: sì o no, senza vie di mezzo. Ciò rende un compromesso quasi impossibile perché la risoluzione esige che una parte abbandoni completamente il proprio obbiettivo. O i palestinesi rinunciano al loro rifiuto lungo un secolo dello Stato ebraico o i sionisti rinunciano al loro obbiettivo lungo 150 anni di avere uno stato nazionale. Qualsiasi altra cosa ad eccezione di questi due esiti rappresenta un accordo instabile il quale serve unicamente come premessa per una fase conflittuale.
Il “Processo di Pace” che è fallito
La deterrenza, sarebbe a dire il convincere i palestinesi e le nazioni arabe ad accettare l’esistenza di Israele minacciando dolorose rappresaglie, è ciò che sottostà al formidabile primato di Israele fatto di visione strategica e arguzia tattica nel periodo dal 1948 al 1993. Lungo questo periodo, la deterrenza funzionò al punto che gli stati arabi nemici di Israele giunsero a vedere il paese in modo molto diverso dal principio. Nel 1948 gli stati invasori arabi si aspettavano di soffocare lo Stato ebraico alla nascita, ma nel 1993 Arafat si sentì obbligato a firmare un accordo con il Primo Ministro israeliano.
Detto ciò, la deterrenza non ha esaurito il proprio compito. Mentre gli israeliani hanno costruito uno stato moderno, democratico, agiato e potente, il fatto che i palestinesi, gli arabi e i musulmani e la sinistra (sempre più) l’abbiano rigettata è diventato una fonte di frustrazione crescente. L’impaziente popolazione di Israele si è stancata delle caratteristiche poco allettanti della deterrenza, la quale è per natura passiva, indiretta, dura, lenta, noiosa, umiliante, reattiva e costosa. Ed è anche internazionalmente impopolare.
Questa impazienza ha condotto al processo diplomatico che è culminato con la stretta di mano a suggello della firma degli Accordi di Oslo alla Casa Bianca nel settembre del 1993. Per un breve periodo, “La Stretta di Mano” (come venne scritta in lettere maiuscole) tra il leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin servì come simbolo della mediazione di successo che diede a entrambi le parti quello che desideravano di più: la dignità e l’autonomia per i palestinesi, il riconoscimento e la sicurezza per gli israeliani. Tra molte lodi, Arafat, Rabin e il Ministro degli Esteri israeliano, Shimon Peres, vinsero il Nobel per la Pace. L’accordo, tuttavia, deluse in fretta entrambe le parti. Infatti, mentre gli israeliani e i palestinesi non sono d’accordo su praticamente niente altro, lo sono con quasi completa unanimità sul fatto che Oslo sia stato un disastro.
Quando i palestinesi vivevano ancora sotto il controllo diretto israeliano prima di Oslo, l’accettazione di Israele era aumentata nel corso del tempo insieme alla diminuzione della violenza politica. I residenti della West Bank potevano viaggiare localmente senza posti di blocco e raggiungere i luoghi di lavoro dentro Israele. Potevano beneficiare dello stato di diritto e contare su una economia che era più che quadruplicata senza dipendere dall’aiuto estero. Emersero scuole e ospedali funzionanti e alcune università.
Yasser Arafat promise di trasformare Gaza nella “Singapore del Medioriente” ma il suo despotismo e l’aggressione contro Israele invece trasformarono il suo feudo in un incubo più somigliante al Congo che a Singapore. Indisponibile ad abbandonare la rivoluzione permanente e a diventare il leader ordinario di uno stato oscuro, sfruttò gli Accordi di Oslo per infliggere ai palestinesi la dipendenza economica, la tirannia, istituzioni fallimentari, la corruzione, l’islamismo e il culto della morte.
Per gli israeliani Oslo non portò alla sperata fine del conflitto ma all’esacerbata ambizione palestinese di eliminare lo Stato ebraico. La rabbia palestinese crebbe esponenzialmente. Furono assassinati più israeliani nei cinque anni dopo Oslo che nei quindici anni precedenti.
I discorsi incendiari rivolti al popolo e le azioni violente aumentarono, e continuano senza sosta 23 anni dopo. In aggiunta gli sforzi di delegittimazione palestinesi fecero pagare un prezzo a Israele sulla scena internazionale quando la sinistra gli voltò le spalle. Presero quindi vita novità antisioniste come la Conferenza Mondiale contro il Razzismo a Durban promossa dalle Nazioni Unite e il Movimento BDS.
Dalla prospettiva di Israele, i sette anni della pacificazione di Oslo, 1993-2000, disfecero 45 anni di deterrenza efficace, quindi sei anni di ritirate unilaterali, 2000-2006, seppellirono ulteriormente la deterrenza. Il decennio dal 2006 non ha prodotto alcun cambiamento rilevante. L’esperimento di Oslo ha mostrato la futilità delle concessioni israeliane ai palestinesi quando quest’ultimi non rispettano i propri impegni. Nell’evidenziare la debolezza di Israele, Oslo ha peggiorato una brutta situazione. Quello che è chiamato convenzionalmente il “processo di pace”, dovrebbe essere soprannominato, “il processo di guerra”.
La falsa speranza di perfezionare la vittoria
Come mai le cose sono andate così storte in quello che sembrava essere un accordo promettente? La responsabilità morale per il crollo degli accordi di Oslo ricade su Yasser Arafat, Mahmoud Abbas e il resto della leadership dell’Autorità Palestinese. Finsero di abbandonare la loro politica del rifiuto e di accettare l’esistenza di Israele, ma di fatto, perseguirono la sua eliminazione in forme nuove e più sofisticate, sostituendo la forza con la delegittimazione. Detto questo, gli israeliani fecero un profondo errore, essendo entrati nel processo di Oslo con una falsa premessa. Yitzhak Rabin spesso riassunse questo errore con la frase “Non si fa la pace con gli amici.
La si fa con nemici molto sgradevoli”2 In altre parole, si aspettava di concludere la guerra attraverso le buone intenzioni, la conciliazione, la mediazione, la flessibilità, la moderazione, la generosità e il compromesso, siglati con firme sui documenti ufficiali. In questo spirito, il suo governo e tutti i suoi successori furono d’accordo su un’ampia varietà di concessioni, anche al punto di permettere una milizia palestinese, sempre sperando che i palestinesi avrebbero ricambiato accettando uno Stato ebraico.
Non lo fecero mai. Al contrario, il compromesso israeliano aggravò l’ostilità palestinese. Ogni ulteriore gesto radicalizzò, esaltò e mobilitò il corpo politico palestinese. Gli sforzi israeliani di “fare la pace” vennero recepiti come segni di scoraggiamento e debolezza. Le “concessioni dolorose” ridussero il timore palestinese nei confronti di Israele e fecero sì che lo Stato ebraico apparisse vulnerabile, ispirando sogni irredentisti di annichilimento. Retrospettivamente ciò non sorprende. Contrariamente allo slogan di Rabin, non si “fa la pace con amici molto sgradevoli” ma la si fa con quelli che erano amici molto sgradevoli, cioè nemici che sono stati sconfitti.
Ciò ci porta al concetto chiave del mio approccio, che è la vittoria, o l’imposizione della propria volontà sul nemico, obbligandolo attraverso la perdita a rinunciare alle sue ambizioni di guerra. Le guerre finiscono, la storia insegna, non attraverso le buone intenzioni, ma attraverso la sconfitta. Colui che non vince, perde. Le guerre di solito terminano quando il fallimento fa sì che uno dei due contendenti sparisce, quando esso ha abbandonato i propri propositi di guerra e ha accettato la sconfitta, e quando la sconfitta ha esaurito la sua volontà di combattere. All’opposto, fintanto che entrambi i combattenti continuano a sperare di raggiungere i propri obbiettivi di guerra, o il combattimento prosegue o prima o poi ricomincerà.
Pensatori e guerrieri nel corso delle epoche si sono trovati d’accordo sull’importanza della vittoria come obbiettivo del conflitto. Per esempio, Aristotele, scrisse che “la vittoria è il fine del generale” e Dwight D. Eisenhower disse, “In guerra non c’è alcun sostituto per la vittoria”. Il progresso tecnologico non ha modificato questa perenne verità umana.
I conflitti del Ventesimo secolo che sono finiti in modo decisivo includono la Seconda Guerra Mondiale, il conflitto tra la Cina e l’India, quello tra l’Algeria e la Francia, quello tra il Vietnam del Nord e gli Stati Uniti, tra la Gran Bretagna e l’Argentina, tra l’Afghanistan e l’Unione Sovietica e, insieme a loro, la Guerra Fredda.
La sconfitta può essere ottenuta o tramite una disfatta militare o tramite un insieme di misure economiche e politiche. Non richiede una completa perdita militare o la distruzione economica, e men che meno la distruzione di una popolazione. Per esempio, l’unica sconfitta nella storia americana, quella nel Vietnam del Sud nel 1975, occorse non a causa del crollo economico o per il venire meno degli armamenti o a causa di un fallimento sul campo di battaglia (gli americani stavano vincendo sul terreno) ma perché gli americani persero la loro volontà di combattere.
Di fatto il 1945 segna una linea di demarcazione. Prima di allora, una schiacciante superiorità militare annichiliva la volontà del nemico di continuare a combattere, da allora in poi grandi successi sul terreno di guerra sono avvenuti raramente. La superiorità militare non si traduce più come avveniva una volta nello spezzare la volontà di combattere del nemico.
Nei termini di Clausewitz, il morale e la volontà sono adesso il centro di gravità, non i carrarmati e le navi. Malgrado i francesi superassero in numero di uomini e armamenti i loro avversari in Algeria, così come gli americani in Vietnam e i sovietici in Afghanistan, tutte queste potenze persero le loro guerre. Al contrario, le perdite sul campo di battaglia sofferte dagli stati arabi nel 1948-82 dalla Corea del Nord nel 1950-53 e dall’Iraq nel 1991 e nel 2003 non si tradussero in una resa e in una sconfitta.
Quando la parte soccombente preserva i suoi obbiettivi, la ripresa della guerra resta una possibilità molto probabile. I tedeschi mantennero il loro obbiettivo di dominare l’Europa dopo la loro sconfitta nella Prima Guerra Mondiale e guardarono a Hitler per un’altra occasione, spingendo gli alleati a impegnarsi per una vittoria totale in modo da essere sicuri che non ci avrebbero provato una terza volta. La guerra di Corea terminò nel 1953 ma il Nord e il Sud hanno entrambi mantenuto i loro propositi di guerra. Ciò significa che il conflitto potrebbe riprendere in qualsiasi momento, come potrebbe accadere con i conflitti tra l’India e il Pakistan. Gli arabi hanno perso ogni fase di guerra contro Israele (1948-49, 1956, 1967, 1973 e 1982) ma hanno visto le loro sconfitte come transitorie occasioni per un ulteriore tentativo.
Il duro lavoro di vincere
Come potrebbe Israele indurre i palestinesi ad abbandonare il rifiuto nei suoi confronti? Come antipasti, ecco una colorita esposizione di piani (che si escludono a vicenda) per terminare il conflitto a favore di Israele, apparsi nel corso dei decenni.3
Partendo dal più morbido al più duro, essi includono:
• Il ritiro territoriale dalla West Bank o un compromesso territoriale al suo interno.
• Affittare I terreni israeliani nella West Bank.
• Trovare modi creativi di dividere il Monte del Tempio.
• Sviluppare l’economia palestinese.
• Incoraggiare un buon governo palestinese.
• Utilizzare forze internazionali.
• Raccogliere fondi internazionali (sul modello del Piano Marshall)
• L’unilateralismo (costruire un muro)
• Insistere che la Giordania è la Palestina.
• Escludere i palestinesi sleali dalla cittadinanza israeliana.
• Espellere Ii palestinesi dai territori controllati da Israele.
Il problema è che nessuno di questi piani è indirizzato alla necessità di spezzare la volontà palestinese di combattere. Si tratta di gestire il conflitto, senza risolverlo. Si tratta di aggirare la vittoria con un trucco. Così come sono falliti i negoziati di Oslo, fallirà qualsiasi altro schema che eviterà il duro lavoro di vincere.
L’andamento storico suggerisce che Israele ha solo un’opzione per conquistare l’accettazione palestinese: un ritorno alla sua vecchia politica di deterrenza, punendo i palestinesi quando aggrediscono. La deterrenza ammonta a più di un insieme di tattiche dure che ogni governo israeliano persegue, essa richiede politiche sistematiche che incoraggino i palestinesi ad accettare Israele e a scoraggiare il rifiuto nei suoi confronti. Richiede una strategia a lungo termine che promuova un ripensamento.
Indurre un ripensamento non è un processo amabile o piacevole ma è basato su una politica di risposta commisurata e graduata.
Se i palestinesi trasgrediscono moderatamente, ne pagheranno moderatamente le conseguenze, e così via. Le risposte dipendono dalle circostanze specifiche. Quelli che seguono sono solo alcuni suggerimenti ed esempi per Washington da proporre, i quali vanno dai più moderati ai più duri.
Quando i “martiri” palestinesi causano danni materiali, le riparazioni devono essere pagate prelevando i soldi dai circa 300 milioni di dollari in tasse che il governo di Israele trasferisce ogni anno all’Autorità Palestinese. Alle attività il cui scopo è quello di isolare e indebolire Israele internazionalmente bisogna rispondere limitando l’accesso alla West Bank. Quando un aggressore palestinese viene ucciso, bisogna seppellire il suo corpo silenziosamente e in modo anonimo in un campo di sepoltura. Quando la leadership dell’Autorità Palestinese incita alla violenza, bisogna impedire ai suoi rappresentanti di farvi ritorno dall’estero. Quando vengono assassinati degli israeliani bisogna espandere le cittadine ebraiche nella West Bank. Quando armi riconosciute ufficialmente come appartenenti all’Autorità Palestinese vengono usate contro Israele bisogna requisirle e proibirne di nuove e se ciò si ripete bisogna smantellare l’infrastruttura di sicurezza dell’AP. Se la violenza prosegue, bisogna ridurre e poi bloccare del tutto l’erogazione dell’acqua e dell’elettricità che Israele fornisce. Nel caso di fuoco armato, di bombardamenti e di razzi, bisogna occupare e controllare le aree dalle quali essi originano.
Naturalmente questi passi vanno in una direzione esattamente opposta all’opinione consensuale oggi egemone in Israele secondo la quale la priorità è quella di mantenere i palestinesi inattivi. Ma questo punto di vista miope si è formata sotto l’incessante pressione dall’esterno, e quella del governo americano, in modo speciale, finalizzata a soddisfare l’Autorità Palestinese. La rimozione di questa pressione potrà indubbiamente incoraggiare Israele ad adottare le tecniche più assertive qui delineate.
Il vero processo di pace significa trovare modalità che obblighino i palestinesi a un ripensamento, rigettando il rifiuto di Israele, accettando gli ebrei, il sionismo e Israele. Quando un numero sufficiente di palestinesi avranno abbandonato il sogno di eliminare Israele, faranno le concessioni necessarie . Per terminare il conflitto, Israele deve convincere il 50 % dei palestinesi, se non di più, che essi hanno perso.
L’obbiettivo qui non è l’amore dei palestinesi per Sion, ma la chiusura dell’apparato di guerra e delle fabbriche dei suicidi, la fine della demonizzazione degli ebrei e di Israele, il riconoscimento del legame ebraico con Gerusalemme e la “normalizzazione” delle relazioni con gli israeliani. L’accettazione palestinese di Israele verrà raggiunta quando, oltre un periodo protratto e con totale costanza, la violenza avrà fine. Simbolicamente il conflitto terminerà quando gli ebrei residenti a Hebron (nella West Bank) non avranno più bisogno della sicurezza più dei palestinesi residenti a Nazareth (in Israele).
A coloro i quali reputano che i palestinesi siano troppo fanatici per essere sconfitti, rispondo, se è stato possibile sconfiggere i tedeschi e i giapponesi, non meno fanatici e molto più potenti durante la Seconda Guerra Mondiale e successivamente trasformati in cittadini normali, perché non i palestinesi oggi? In aggiunta, i musulmani hanno ripetutamente dovuto darla vinta agli infedeli lungo il corso della storia una volta messi a confronto con una forza superiore, dalla Spagna ai Balcani al Libano.
Israele gode di due elementi favorevoli. Primo, il suo sforzo non deve cominciare dal nulla. I sondaggi e altri indicatori suggeriscono che il 20% dei palestinesi e altri arabi accettano lo Stato ebraico. Secondo, deve dissuadere solo i palestinesi, degli attori molto deboli, e non l’intera popolazione araba o musulmana. Malgrado siano fiacchi in termini oggettivi (economia, potere militare) i palestinesi capeggiano la guerra contro Israele, quindi, quando abbandoneranno il rifiuto dello Stato ebraico altri (come i marocchini, gli iraniani, i malesi) trarranno ispirazione da loro e, nel corso del tempo, probabilmente li seguiranno.
I palestinesi si avvantaggeranno dalla loro sconfitta
Per quanto possano beneficiare dal concludere il loro residuale problema palestinese, gli israeliani vivono in un paese moderno e di successo che ha assimilato la violenza e la delegittimazione che gli è stata imposta4 I sondaggi mostrano che gli israeliani sono tra le popolazioni più felici e il tasso crescente di natalità conferma questa impressione.
In contrasto, i palestinesi sono impantanati nella miseria e costituiscono la popolazione più radicalizzata al mondo.
I sondaggi di opinione mostrano la loro costante scelta a favore del nichilismo. Quali altri genitori celebrano i loro figli quando diventano terroristi suicidi? Quale altro popolo conferisce una priorità maggiore nel danneggiare i propri vicini al posto di migliorare la propria condizione? Sia Hamas che l’Autorità Palestinese governano regimi autoritari i quali reprimono i loro soggetti e perseguono obbiettivi distruttivi. Nella West Bank e a Gaza l’economia dipende, molto più che altrove, dal denaro che arriva dall’estero, il quale crea dipendenza e risentimento. Le usanze palestinesi sono arretrate e diventano progressivamente più medioevali. Un popolo abile e ambizioso è imprigionato all’interno della repressione politica, di istituzioni fallimentari e di una cultura che propaga illusioni, estremismo e l’autodistruzione.
Una vittoria di Israele libera i palestinesi. La sconfitta li obbliga a venire ai termini con le loro fantasie irredentiste e la vuota retorica della rivoluzione. La sconfitta li mette anche nelle condizioni di migliorare le proprie vite. Affrancati da un’ossessione genocida nei confronti di Israele i palestinesi possono diventare un popolo normale e così sviluppare la propria politica, economia, società e cultura. I negoziati potrebbero finalmente cominciare seriamente. In tutto, dato il loro punto di partenza assai inferiore, ironicamente i palestinesi potrebbero guadagnare anche più dalla loro sconfitta di quanto gli israeliani lo possano fare dalla loro vittoria.
Detto questo, il cambiamento non sarà né facile né rapido. I palestinesi dovranno passare per l’amaro crogiolo della sconfitta, con tutta la sua privazione, distruzione e disperazione per ripudiare la lercia eredità di Amin al-Husseini e riconoscere il loro errore lungo un secolo. Ma non ci sono scorciatoie.
Il bisogno del sostegno americano
I palestinesi impiegano una squadra eccezionale a livello globale la quale consiste nelle Nazioni Unite, un vasto numero di giornalisti, attivisti, educatori, artisti, islamisti e militanti di sinistra. Non sono un fronte di liberazione africano ma costituiscono la causa rivoluzionaria preferita a livello mondiale. Tutto ciò rende il compito di Israele lungo, difficile e dipendente da alleati fedeli, in primis il governo degli Stati Uniti.
Per Washington essere d’aiuto significa non trascinare i partiti in ulteriori negoziazioni ma nel dare un robusto sostegno alla vittoria di Israele. Ciò non si traduce nel supportare le episodiche manifestazioni di forza israeliane ma in uno sforzo internazionale e sistematico di collaborazione con Israele, di selezione degli stati arabi e di altri per convincere i palestinesi della futilità del loro rifiuto di Israele. Israele è lì, è permanente e gode di un ampio sostegno.
Ciò significa sostenere Israele nell’intraprendere i passi difficili delineati sopra, dal seppellire anonimamente i corpi degli assassini, a chiuderla con l’Autorità Palestinese. Significa supporto diplomatico per Israele, come concludere la farsa dei “rifugiati palestinesi” e rigettare la richiesta di Gerusalemme come capitale palestinese. Ciò implica anche mettere fine ai benefici di cui godono i palestinesi a meno che non operino al fine di una piena e permanente accettazione di Israele: nessuna diplomazia, nessun riconoscimento come stato, nessun sussidio economico, e certamente nessun’arma, e ancora meno alcun addestramento di una milizia.
Una diplomazia israelo-palestinese è prematura fintanto che i palestinesi non accetteranno lo Stato ebraico. I punti principali degli Accordi di Oslo (confine, acqua, armamenti, luoghi santi, comunità ebraiche nella West Bank, “rifugiati palestinesi”) non potranno essere utilmente dibattuti fintanto che una parte rigetterà l’altra. Ma i negoziati possono riaprirsi e riprendere i temi di Oslo nel momento favorevole in cui i palestinesi accetteranno lo Stato ebraico. Questa prospettiva, tuttavia, si trova in un futuro lontano.
Per ora, Israele ha la necessità di vincere.
1 Ho analizzato questo argomento per Commentary nel dicembre del 1997 nel mio articolo, “Sul Rifiuto Arabo”.
2 Che è curiosamente la perifrasi della dichiarazione di un leader dell’OLP, Said Hammami, 15 anni prima.
3 Ho esaminato in dettaglio queste proposte per Commentary nel febbraio del 2003 in “Israele ha bisogno di un piano?”.
4 Le ferite e i decessi causati da incidenti stradali in Israele nel periodo 2000-2005, per esempio, ammontano a 30.000 mentre i danni relativi a episodi di terrorismo sono nel numero di 2.000.
Articolo in lingua originale inglese: The Way to Peace: Israeli Victory, Palestinian Defeat
Traduzione di Niram Ferretti
Foto: Getty Images, AP, AFP e Reuters
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