Stati Uniti ed Europa: una verità sottaciuta
L’unione Europea non potrà diventare una federazione, un’entità sovranazionale, una realtà geopolitica univoca perché si metterebbe in diretta concorrenza con la superpotenza dominante. Questa ha fatto esplicitamente sapere, anche pubblicandolo a chiare lettere nei documenti nazionali di indirizzo strategico, che lo scopo principale dei suoi governi e delle sue istituzioni è di impedire che la sua leadership planetaria venga messa in pericolo da chicchessia. Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti favorirono la nascita e il consolidamento della UE in funzione antisovietica, mettendo la fida Gran Bretagna a fare da cane da guardia perché il processo non si spingesse troppo in là.
Caduto il Muro, non c’è nessuna ragione, da parte di Washington, per continuare a sponsorizzare un’integrazione che sottrarrebbe gli stati del Vecchio Continente all’egemonia anglosassone del mondo e, come già detto, farebbe nascere l’unico attore internazionale capace di disputare nel medio termine agli Stati Uniti la supremazia che ha ancora in mano, seppure non in modo unipolare, ormai.
Nel lungo termine questo ruolo potrebbe spettare anche e soprattutto alla Cina, se sopravviverà alle proprie labilità e si consoliderà. Con il doppio degli abitanti dell’Europa e degli USA combinati (solo un po’ di meno se ad essi si aggiunge anche la Russia) e la potenza economica che già si intravede, potrebbe tornare ad essere l’Impero del Cielo, la maggiore superpotenza del pianeta. Ma non è certo, al momento e neanche probabile.
Gli europei devono comunque sapere che l’anelito verso l’unificazione del loro continente è di fatto considerato a Washington come una minaccia neanche troppo subliminale alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, soprattutto se essa avverrà sotto l’egida tedesca, cosa inevitabile dato la sproporzione fra la potenza e la solidità germanica e la precarietà degli altri partner UE, chi più chi meno.
L’abbandono britannico, al di là della sue asserite motivazioni economiche e demografiche (lacci e lacciuoli di Bruxelles ai vitali “animal spirits” della patria di Adamo Smith, nonché invasione dei continentali e dei migranti extraUE via canali europei), ha un fondamentale significato geopolitico e strategico: il limes fra i popoli di lingua inglese e gli altri egemoni “bianchi” giudeo-cristiani, russi ed europei continentali, è stato definito chiaramente.
Finchè l’Europa rimarrà una zona di libero scambio, poco male, purchè non esageri nella protezione dei propri interessi vis a vis di quelli americani. Viceversa, qualsiasi seria e determinata iniziativa per stringere i legami UE, istituzionali, strategici e militari, soprattutto, verrà ostacolata e contrastata con tutti i mezzi che le circostanze permetteranno. Soft se possibile, hard se necessario. Esistono oggi decine, forse centinaia di modi per concretizzarli senza troppa fanfara, almeno inizialmente.
Non si spendono quasi 700 miliardi di dollari in armamenti e tecniche di destabilizzazione del prossimo che assicurano – solo loro, ormai, a parte l’infotainment, che però è in declino, sia quello californiano che quello newyorkese – il primato geopolitico, per consentire ad un competitore il sorpasso, ancorchè pacifico e apparentemente non minaccioso.
L’Europa ha una capacità di fascinazione e un appeal socio – politico e culturale che, solo che lo volesse o, piuttosto, lo potesse, sarebbe in grado di sostituire dovunque gli equivalenti americani, che da almeno tre quarti di secolo hanno dominato e plasmato la scena internazionale e i moduli comportamentali di tutti e di ciascuno.
Sotto questo aspetto, l’Europa è largamente superiore anche alla Cina, che è limitata dalla sua cultura, dalla sua storia e dagli stilemi rappresentativi di entrambi, in primis la scrittura, la filosofia esistenziale, la weltenshauung dominante, l’ateismo sostanziale, la difficoltà ad inserirsi nei circuiti ideologici esistenti e i costumi dei suoi abitanti, largamente inesportabili. La cucina cinese, per quanto splendida, si regge sulla punta delle sue bacchette e non può competere urbi et orbi con i McDonald’s, gli Eatitaly o i Chez Clement.
La consapevolezza di tutto ciò non è diffusa presso la pubblica opinione europea, e anche se lo fosse probabilmente non determinerebbe quel sussulto di consapevolezza e quella levata di scudi che sarebbero auspicabili, almeno da parte dei fautori dell’Unione. Le sensibilità e i nervosismi sono altri, nelle patrie europee e potrebbero già far parte degli effetti di una information warfare che è in atto da molto tempo e che ha ottenuto risultato politici e anche economici di tutto rilievo. La popolarità del processo di unificazione europea, dell’Euro in primis, che ne è diventato il simbolo, non è mai stato così basso e questo a prescindere dei risultati obbiettivi di tutto il processo, che non possono certo essere considerati negativi.
Al di là di tante geremiadi ed isterismi la UE ha assorbito in pochi anni, senza troppe scosse, la porzione orientale del continente, ha superato con successo una crisi economica epocale, ha metabolizzato un nuovo assetto monetario che ha generato e consolidato la seconda divisa planetaria, è sopravvissuta ad una grave crisi di identità, particolarmente acuta dopo l’abbandono referendario franco-olandese dei sogni di una costituzione europea, ha salvato dalla bancarotta la Grecia e steso una efficace cortina di protezione per i friabili paesi latini e non ha subito sostanziali contraccolpi strategici dalle gravi crisi in atto ai suoi confini orientale e meridionale.
Favorendo in aggiunta l’integrazione e l’europeizzazione delle nuove generazioni su scala continentale, con i programmi Erasmus et similari. Alla lunga, solo quest’ultimo risultato potrebbe rovesciare, nel tempo, un trend disfattista che sembra irresistibile. Tutto questo con l’ordinaria amministrazione, senza particolari mobilitazioni e rimanendo testa di serie internazionale nell’industria, nell’export, nelle dimensioni economiche e nell’equità sociale.
Se non è una storia di successo questa, non si sa cosa lo possa essere. E non si venga a dire che 500 milioni di europei ragionevoli e generalmente privi, almeno da quasi un secolo, di pulsioni storiche di tipo autenticamente xenofobo possono essere “contaminati”, e la loro identità profondamente annacquata, da due o trecentomila extracomunitari che ogni anno penetrano nei Paesi dell’Unione.
Chi lo sostiene non sa far di conto, è un superficiale o è in malafede. Idem per una disoccupazione gigantesca che affligge molti dei paesi europei (non quelli più efficienti e solidi, peraltro) che è dovuta all’innovazione tecnologica che ha rivoluzionato il mondo del lavoro e alla non disponibilità di molti giovani europei a svolgere mansioni apparentemente poco pregiate (ma essenziali). L’Europa non c’entra niente con questo fenomeno, e anzi consente una facile migrazione di giovani, sopratutto, verso le aree più labour intensive e i mestieri più richiesti e appetibili, dovunque essi si trovino.
Il fatto che mai come in questo momento, viceversa, sia vivo nel Vecchio Continente il malcontento e la delusione che alimentano movimenti politici di nebulosa origine e inaspettata paternità, i quali rischiano di scardinare le fondamenta di un’Unione che forse non vedremo a breve, come sognavano i Padri Fondatori – ma che prima o poi ci sarà, se non impazziremo tutti – può essere attribuito a fenomeni di miopia e presbiopia storica.
Ovvero non ci si rende conto di come vanno bene le cose rispetto al passato e a coloro che ci circondano, anche nei paraggi – ma anche a sofisticate offensive mediatiche e telematiche, in buona parte eterodirette, che accentuano i problemi e le difficoltà. O addirittura li creano ex novo. “La guerra è cosa troppo seria per lasciarla ai generali”, diceva Clemenceau, e si potrebbe aggiungere che la Grande Strategia è diventata troppo sofisticata, complessa e politicamente scorretta per i leader politici di oggi, che sono soprattutto dei portavoce e dei collettori di consensi elettorali esposti ai quattro venti.
Ciò non toglie che gli interessi degli Stati continuano ad essere le supreme leggi ai quali i governanti, reali o virtuali, si devono attenere, a prescindere da trattati, patti, accordi e altri pezzi di carta che, sosteneva Bettman-Hollweg (il cancelliere tedesco nel 1914) ma anche il semplice buonsenso, non possono condizionare più di tanto la libertà d’azione di una nazione. Non c’è dubbio che coloro che sono in grado di farlo, si attengono a tali principi e prassi. Va da sé gli Stati Uniti sono ancora oggi il soggetto internazionale che ha maggiore libertà di azione, mezzi, lucidità e lungimiranza strategica per poterlo fare.
Tanto per non lasciare zone d’ombra, fra i protocolli di fronte ai quali non possono essere sacrificati gli interessi degli Stati Uniti è del tutto chiaro che il posto d’onore spetta al Trattato del Nord Atlantico, firmato a Washington il 4 aprile 1949. Finché servirà alla Repubblica Stellata, il presidente Trump o qualsiasi suo collega lo onorerà nella forma e nella sostanza; il giorno che cominciasse a non dover più servire, perché l’Europa non segue più le direttive del maggior azionista o magari vuol far di testa sua, per esempio accordandosi col suo maggior fornitore energetico, la Russia, le cose potrebbero rapidamente cambiare, cominciando dalle concretezze.
C’è da chiedersi – richiamando quanto accennato in precedenza – se qualche accenno di tale mutamento sia già in atto o sia stato azzardato nel recente passato (ognuno ha diritto ai suoi sospetti). Quello che appare pressocché certo che oggi gli europei non hanno la convinzione, la forza, la capacità, il consenso condiviso e l’energia per procedere speditamente in tale direzione, che fra le tante difficoltà e interrogativi che suscita potrebbe innescare conseguenze del tipo ipotizzato.
E più probabile che i più lungimiranti e consapevoli fra di essi, specie di estrazione germanica, mirino ai tempi lunghi, sia per un wait and see che nel nostro caso ha poche controindicazioni, che in vista di quel possibile maxi progetto di integrazione nordatlantico (con un inevitabile egemonia statunitense) che aleggia da sempre sullo sfondo. Senza contare la recente e più malaugurante aspettativa di una crisi sistemica del gigante nordamericano in tempi non biblici, sul tipo di quella preconizzata da qualche politologo, sopratutto di scuola russa. Alla quale crisi, occorre aggiungere, si potrebbe anche dar qualche modesto contributo, senza troppa pubblicità….A’ la guerre comme à la guerre, actually…
Business as usual, quindi, in attesa delle novità? Bella domanda e difficile risposta. Quello che appare certo è che è cominciata una fase nuova delle relazioni internazionali, caratterizzata dalla massima, mutevole e cangiante libertà d’azione di tutti i soggetti, a prescindere da come cantano le Carte, e da un indifferenziato e reciproco “dagli amici mi guardi Iddio…” Nelle relazioni transatlantiche non era mai successo ma non si vede come possa non avvenire adesso.
Foto: EPA, The Commentator e Ue
Andrea TaniVedi tutti gli articoli
Ufficiale di Marina in spirito ma in congedo, ha fatto il funzionario Nato e il dirigente presso aziende attive nel settore difesa. Scrive da quasi un quarantennio su argomenti navali, militari, strategici e geopolitici per pubblicazioni specializzate e non. Vive a Roma.