Il “grande gioco” iraniano in Siria
Nella guerra contro lo Stato Islamico e le milizie jihadiste in Siria e in Iraq, l’Iran sta giocando un ruolo chiave, suggellato dalla battaglia semi-decisiva di Aleppo. La vittoria sul campo ha consegnato a Teheran le chiavi per un’influenza longeva sul nord della Siria.
Una zona altamente strategica per i ‘persiani’, tanto per la valenza storico-religiosa, quanto per il simbolismo politico. Aleppo è sempre stata approdo mediterraneo fra i principali della via della Seta. Nella sua provincia si ergono millenari molti santuari sacri agli sciiti, dal Mausoleo della Goccia di sangue della testa di Hussein, per non dimenticare il Dharih Muhsin ibn al-Imam al-Hussein.
Altrettanto innegabile è la portata geopolitica dell’area, soprattutto per i piani iraniani di un corridoio geografico pan-sciita fra Teheran e gli alleati storici in Siria e in Libano. Un progetto vitale, che l’Iran vagheggia da anni e che è ormai in itinere dal 2014, fra alti e bassi.
La direttrice geografica attraversa territori parzialmente instabili e sembra scontrarsi con gli appetiti turchi e le resistenze geopolitiche di Israele e dei petro-emirati del Golfo. Si tenga infatti presente che quel corridoio penetra in Iraq, innestandosi sulla rotta storica del contrabbando, creata nel 2003 in concomitanza con l’invasione americana della Mesopotamia.
In principio, vi passavano gli approvvigionamenti per i tanti movimenti irregolari sciiti che lottavano contro le forze americane, come i guerriglieri di Asa’ib al-Haq e Kata’ib Hezhollah, poi riconvertitesi al jihad contro Daesh. Entrambi i movimenti figurano nella black list del Dipartimento di Stato americano, che li bolla un po’ anacronisticamente come terroristi. Ma torniamo alla geopolitica iraniana.
Passando per Bakuba, il continuum pan-sciita penetra a Shirkat, si adima a Sinjar e varca la frontiera a Rabia. Tutte località strappate all’ISIS fra il 2014 e il 2016, sia dalle forze regolari irachene che dai peshmerga. E qui cominciano i problemi, perché si entra in territori non sciiti. Sembra che gli iraniani stiano negoziando diritti di transito con le tribù locali dello sceicco al-Shamari, influentissimo dignitario del Consiglio provinciale di Ninive, un feudo sunnita.
Contatti sarebbero in corso anche con il PKK, inviso ai turchi ma molto attivo nella regione e nel nord siriano, con la costola ineludibile del PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat). Gli iraniani sono abili negoziatori, da sempre.
Conoscono il terreno e gli attori in campo. In Siria, il loro progetto attraversa da est a ovest il Rojava semi-autonomo, in mano al PYD/YPG. Ne tocca Qashimili, la capitale in potenza, l’indomita Kobane e scende poi verso sud, aggirando l’emirato qaedista di Idlib, per raggiungere Homs e Latakia, sancta sanctorum alauita sotto tutela russa.
Quanto il corridoio possa tenere nel lungo periodo è dubbio. Oggi come oggi mancano le condizioni di sicurezza generali, vista la fluidità della situazione militare. I turchi si sono messi di traverso, più o meno indirettamente con l’operazione Scudo dell’Eufrate, che incunea forze ostili fra Azaz e Jarabulus, 90 km più a est, in pieno Kurdistan siriano. Forse sono proprio i turchi l’avversario principale del disegno di Teheran. Pur intralciandolo, non lo annullano.
Vero dominus di Aleppo, l’Iran proietta ormai un’influenza regionale inedita. Piaccia o meno, è una potenza ineludibile, con una forza demografica e una potenza naturale invidiabili, fatte di abbondanza di risorse energetiche e acqua, se i grandi piani di investimento nel settore andranno a buon fine.
L’alleanza Teheran-Damasco
La sua alleanza con la Siria è una costante storica e un partenariato strategico data dal 1979, anno del defenestramento della dinastia Pahlavi. È una relazione privilegiata, che ruota intorno a tre fattori: l’ostilità verso Israele, il contro-bilanciamento dell’influenza occidentale in Medioriente e il contenimento del sunnismo revanscista.
Un piccolo viaggio a ritroso aiuta a capire meglio. Durante la guerra Iran-Iraq, la Siria è stata l’unica nazione araba a supportare gli iraniani, fornendo loro armi e materiali, missili terra-aria e razzi anticarro e aveva autorizzato i piloti dell’aviazione iraniana ad atterrare nelle sue basi, in caso di emergenza. Non ultimo, addestrava gruppi di dissidenti curdo-iracheni.
In cambio, riceveva petrolio a prezzi stracciati e, in seguito, know-how per il programma di armi chimiche. La storia insegna che l’asse Damasco-Teheran assomiglia molto a un patto di ferro. Difficile che possa incrinarsi in caso di un eventuale cambio al vertice della presidenza iraniana, dopo le elezioni del prossimo maggio, anche perché il vero demiurgo della politica estera del paese è l’Ayatollah Khamenei.
Khamenei sa benissimo che l’Iran ha un debito di riconoscenza per gli aiuti ricevuti negli anni ’80. E lo sta saldando. «La Siria è la 35a provincia dell’Iran, per noi strategica […]. Se la perdessimo, metteremmo a rischio la stessa Teheran».
Poche parole, ma molto chiare. È stato Medhi Taeb a pronunciarle, nel febbraio 2013. L’hojjat al-Islam parlava a un gruppo di studenti delle milizie Basij. Aveva il consenso dell’Ayatollah, essendo uno dei suoi consiglieri più fidati. Da allora in poi, l’escalation iraniana è stata inarrestabile.
Con un crescendo di opzioni, in entrambi gli scacchieri del teatro siro-iracheno: armi, denaro (oltre 10 miliardi di dollari), acquisti di petrolio siriano, intelligence, consiglieri, miliziani filo-persiani e supporto politico-diplomatico. Diversi i motivi: innanzitutto sono in gioco i destini di due paesi amici e i delicati equilibri regionali, perché nella guerra civile siro-irachena abbondano le ingerenze eterodirette; si fronteggiano attori statuali mediorientali e non; combattono gruppi di ribelli e di miliziani delle più svariate ascendenze; si confrontano le mire espansionistiche sciite-iraniane e le velleità egemoniche saudite e delle petromonarchie del Golfo sunnite.
Aspetto non secondario, si ridisegnano le sfere d’influenza e le mappe geografiche, espressione di nuove linee di frattura fra Siria, Iraq, Turchia, Libano, Giordania e Israele. In una sempre più probabile spartizione della Siria in sfere d’influenza i progetti iraniani sono lungimiranti. E Teheran vi sta investendo i suoi cervelli migliori. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza continua al fronte del maggior generale Qassem Suleymani, numero uno della forza al-Qods dei pasdaran. L’uomo risponde direttamente alla Guida suprema della Rivoluzione.
È spesso in primissima linea, per galvanizzare le milizie sciite siriane, irachene, afghane, pakistane e l’onnipresente Hezbollah, che nei combattimenti degli ultimi anni ha perso un terzo dei suoi uomini. Per essere precisi il movimento sciita libanese lamenta 1.500-1.600 morti e 5-6.000 feriti. Perdite importanti che lo segneranno per anni, nonostante l’esperienza bellica forgiatasi in sei anni di guerra continua, in cui si è visto Hezbollah impegnarsi nelle battaglie di Damasco e di Aleppo in una configurazione talvolta nuova, con parvenze di unità semi-meccanizzata, con blindati e semoventi per appoggio di fuoco diretto.
L’aiuto iraniano alla Siria
Fin dal 2011, Teheran è andata immediatamente in soccorso dell’alleato siriano, messo in difficoltà dalle prime sedizioni interne. Il Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza (VEVAK) disponeva già di centri di ascolto e intercettazione nel nord-est del paese e nei pressi del Golan. Monitorava la situazione, nell’ambito del trattato di mutua difesa con la Siria, fornendo un aiuto cruciale sia in termini di sicurezza pubblica, sia d’intelligence. Quando la situazione è precipitata, a inizio 2011, Mohammed Nasif Kheirbek, uomo del clan Assad e dell’intelligence nazionale, si è offerto come intermediario con gli iraniani.
Ha promosso la creazione di un insieme di depositi di stoccaggio e di arsenali nell’aeroporto di Latakia, dove imperano oggi i russi. La missione ha avuto successo, perché il complesso industriale IEI (Iranian Electronic Industry), contraente della Difesa, si è subito attivato, trasferendo materiali preziosi al General Intelligence Directorate siriano: dai disturbatori di radiofrequenze ai jammer campali, per un valore non inferiore ai 3 milioni di dollari. L’IEI è attivo anche in campo spaziale, tanto da produrre la serie di satelliti da osservazione Fajr (50 kg), uno dei quali lanciato due anni fa.
Fonti non confermate sottolineano che il Fajr potrebbe essere sfruttato dai militari per la guerra in corso, ma le capacità dei sensori ottici sono di bassissima risoluzione (500-1000 m) e c’è da valutare la stessa funzionalità del ricevitore GPS, prodotto da IEI. Staremo a vedere. Per ora torniamo sul campo. Esperti iraniani hanno cominciato a fare la spola con Damasco per formare unità anti-ribellione e fornire know-how di sorveglianza delle reti telefoniche e informatiche.
Il brigadier generale Amhad-Reza Radan, vicecomandante della polizia iraniana, si è recato a Damasco fin dall’aprile del 2011. Aveva molto da insegnare in materia di repressione popolare, perché nel 2009 era stato in prima linea a soffocare i moti della Rivoluzione Verde.
È stato lui a coordinare l’afflusso di uomini delle LEF (Law Enforcement Forces) in Siria, a supportare Assad, per conto del ministero dell’Interno iraniano e quindi della Guida Suprema, via l’SNSC (Supreme National Security Council). Anche i pasdaran e la forza Qods, loro unità d’elite, sono stati spediti fin dall’inizio in Siria per reprimere le manifestazioni popolari. Non è un mistero che oggi inquadrino forze e combattano per gli Assad. Sarebbero oltre un migliaio, con contingenti che ruotano periodicamente.
Avrebbero perso in tutto diverse centinaia di uomini. C’è una sorta di regola generale nell’organizzazione iraniana, perché usualmente la VEVAK fornisce le informazioni, il sostegno logistico e le trasmissioni; i pasdaran fanno il lavoro di azione e la forza Qods si occupa delle operazioni di forza più ardite e violente. I Guardiani della Rivoluzione vantano una lunga esperienza di operazioni contro-insurrezionali.
Hanno mandato alla corte di Assad gli uomini più esperti, provenienti dalle provincie più calde del paese. Fra loro figuravano due generali, il comandante e il vicecomandante dell’unità Shohada, attiva nella provincia dell’Azerbaijan occidentale, personale della 33a brigata al-Madhi e della 14a Imam Sadeq, rispettivamente di stanza nell’area di Fars e di Bushehr.
Li conosciamo bene perché almeno 48 dei loro uomini sono stati intercettati dal Free Syrian Army nell’agosto 2012, poi rilasciati grazie alla mediazione del Qatar e della Turchia, nel gennaio seguente, in cambio di 2.130 prigionieri. Ma andiamo con ordine. Quando Damasco ha cominciato a perdere terreno a nord e a est, nell’estate del 2012, Teheran ne ha puntellato le difese nel ridotto centrale e meridionale.
Ha aiutato Assad a formare nuove unità militari e ad addestrare le vecchie. Il 416° battaglione di forze speciali è stato inquadrato dagli iraniani nel complesso di al-Dreij, fra Damasco e Zabadani, città chiave, dove i pasdaran agiscono almeno dal 1982 in direzione del Libano, organizzandovi i rifornimenti di armi agli Hezbollah.
Fra il 2011 e il 2012, l’Iran ha avviato anche la formazione di gruppi di miliziani sciiti, con una duplice finalità: bilanciare lo sgretolamento dell’apparato militare siriano, rafforzandone la massa di manovra, e garantirsi una quinta colonna di pretoriani nel caso di rovesciamento del regime di Assad. Secondo alcuni esperti statunitensi, la Jaysh al-Sha’bi o National Defence Force è stata voluta e addestrata da membri dei pasdaran e di Hezbollah. Si tratta di circa 50-70.000 uomini, prevalentemente siriani sciiti e alauiti, attivissimi a Damasco e Aleppo. L’Iran li ha organizzati sul modello dei propri Basij, una formazione paramilitare volontaria, comandata da Mohammad Reza Naghdi.
Ne paga addirittura gli stipendi, che variano da 100 a 160 dollari mensili, a seconda del grado. Ha inoltre mobilitato gli ex miliziani sciiti iracheni e formato per prima la brigata Abu Fadl al-Abbas, cui ne sono seguite diverse altre, nel 2013.
Anche le famigerate brigate di Hezbollah in Iraq, i combattenti di Asa’ib Ahl al-Haqq e gli irregolari della milizia Badr sono passati all’azione, ricevendo ordini, armi ed equipaggiamenti da Teheran, che ha garantito al regime uomini motivati e un imprescindibile sostegno logistico, via aria. Sempre i pasdaran hanno reclutato nuovi combattenti fra i rifugiati afghani in Iran.
L’operazione ha avuto talmente successo che già a metà 2014 si segnalava in Siria un’intera brigata ‘afghana’, forte di un nucleo di 2.500-4.00 uomini, anche loro foraggiati con stipendi iraniani di 500 dollari al mese. Molti miliziani si fregiano oggi di combattere per i pasdaran o per l’Hezbollah libanese, più che per Assad. Le trame siriane dell’Iran non sono passate certo inosservate e hanno avuto un altissimo costo, sia in termini di sanzioni che di perdite umane.
Usa, Israele (e l’Europa) contro l’Iran
A poco a poco, sono finite nella lista nera del dipartimento del Tesoro statunitense diverse personalità di spicco del regime iraniano, a partire dal generale Kassem Suleimani, capo della forza Qods, e Mohsen Chizari, responsabile delle operazioni e dell’addestramento dell’unità.
I due non sono affatto nuovi ad azioni oltreconfine: avevano orchestrato attivamente le milizie filoiraniane in Iraq, al tempo dell’occupazione statunitense. Chizari era stato perfino arrestato, nel 2006, insieme a un ufficiale della forza Qods, prima di esser espulso dal governo iracheno. Per non esser da meno, l’Unione europea ha sanzionato Mohammed Ali Jafari, capo dei Guardiani della Rivoluzione, lo stesso Suleimani, responsabile del fronte siro-iracheno, e Hossein Taeb, vice comandante dei pasdaran, delegato per l’intelligence.
Ma lo scenario è oggi talmente mutato che queste sanzioni sfiorano il ridicolo. Dal 2013, peraltro, gli iraniani hanno accumulato perdite eccellenti: il primo alto ufficiale a cadere è stato il generale Shateri, assassinato in un’imboscata nelle campagne limitrofe a Damasco. Shateri era un importantissimo quadro della forza Qods. Stava viaggiando verso Beirut, dopo aver visitato il fronte ad Aleppo.
Aveva una grande esperienza operativa, avendo servito segretamente in Libano dal 2006 e ordito manovre antioccidentali in Afghanistan e in Iraq, durante le operazioni Enduring Freedom e Iraqi Freedom, tanto da finire tra i most wanted del Dipartimento di Stato americano, come Specially Designated Global Terrorist. Sorte non diversa è toccata ad altri quadri iraniani.
Mohammed Jamalizadeh Paghaleh, ufficiale generale dei pasdaran, è morto in Siria nel novembre 2013, come Abdullah Eskandari, caduto nel maggio 2014 nella regione di Damasco. I qaedisti di al-Nusra, l’attuale Fatah al Sham, ne hanno esibito la testa come un trofeo e non hanno mai restituito agli iraniani il corpo.
Nell’ottobre 2014, il generale delle milizie Basij, Jabar Drisawi, è stato ucciso durante uno scontro a fuoco vicino ad Aleppo. Non ci sono molti dettagli sulla sua fine, anzi le informazioni al riguardo non convincono tanto: Teheran ha dichiarato che Drisawi è morto difendendo la moschea Sayeda Zanyab, a oltre 200 chilometri da Aleppo, appena a sud di Damasco.
L’uomo era al contempo un quadro dell’intelligence. Per venire ai giorni nostri, il 18 gennaio 2015, almeno due elicotteri israeliani hanno centrato con missili Hellfire un convoglio di veicoli sospetti nei dintorni di Mazraat Amal, nell’area strategica di Quneitra, prossima al Golan. Sei iraniani sono morti: fra loro, il brigadier generale Mohammad Ali Allah-Dadi, sempre della forza Qods. Dadi era legatissimo a Suleimani, per il quale aveva servito fra il 1980 e il 1988, durante la guerra Iran-Iraq.
Nel raid sono caduti anche sei membri di spicco di Hezbollah, compreso Jihad Imad Mughniyeh, uno dei figli di Imad Mughniyeh, capo delle operazioni all’estero dei guerriglieri libanesi, ucciso dal Mossad nel 2008. Jihad era per Suleimani una sorta di figlio adottivo, a testimonianza del legame strategico fra pasdaran ed Hezbollah, che riceve dai primi fondi per 100 milioni di dollari l’anno. Alcune fonti citano fra le perdite libanesi anche due pedine chiave: Muhammad Ahmed Issa, responsabile dell’intelligence di Hezbollah per il fronte siriano, e il suo vice, Abbas Ibrahim Hijazi.
Per gli israeliani, i nemici stavano cercando di individuare le aree migliori per lo schieramento di missili superficie-superficie monostadio e corto raggio (250 km circa) Fateh-110, in un’area critica, oggi in mano alla 90a brigata dell’esercito lealista, alle milizie popolari e a Hezbollah, che guerreggia attivamente in Siria dalla primavera 2013.
Hezbollah in Siria
Non è chiaro quanti miliziani sciiti libanesi siano in teatro: le stime variano da 2.000 a 4.000, riservisti compresi. Il che equivarrebbe a un quarto circa delle disponibilità del movimento. Ogni zona di operazioni di Hezbollah ha un comando indipendente: uno per Damasco e limitrofi, uno per la provincia di Aleppo e così via. Gli operativi agirebbero in seno a unità multinazionali, comprendenti pasdaran, membri della forza Qods e altri miliziani, coordinati con le unità regolari del regime e i consiglieri russi. Ma c’è un’eccezione, lungo la frontiera libanese, dove gli Hezbollah non rispondono a nessuno e si muovono indipendentemente, non tanto per proteggere le popolazioni sciite, quanto piuttosto per preservare i corridoi di transito delle armi iraniane.
Dal 2000 almeno, i pasdaran si servono della piattaforma siriana per i trasferimenti di armi a Hezbollah. Con il conflitto in corso, la via aerea è divenuta la più sicura e ha soppiantato le direttrici terrestri e marittime. Anche le compagnie commerciali collaborano al ‘ponte aereo’: Iran Air, Mahan Air e Yas Air trasportano combattenti, munizioni, razzi, cannoni antiaerei e obici da mortaio
Gli aiuti militari iraniani in Siria
Al centinaio e passa di velivoli commerciali si sommano i cargo militari: almeno 3 Antonov An-74 e 2 Il-76. Il traffico è tuttora intenso. Ma sono cambiate le direttrici, oggi prevalentemente disegnate nello spazio aereo iracheno, dove gli iraniani possono contare sulle connivenze del locale ministero dei Trasporti e dell’organizzazione Badr. Da lì, Teheran fa affluire in Siria pezzi di ricambio per gli MBT T-72, razzi Falaq-2, missili Fateh-110, obici da 120 mm, lanciarazzi da 107 mm, jeep e altri veicoli. I miliziani della brigata Liwa Abu Fadl al-Abbas e i Falchi del Deserto brandeggiano spesso fucili anti-materiale Sayyad-2, copie iraniane dell’austriaco Steyr HS .50. Tecnici iraniani avrebbero contribuito anche alla realizzazione delle bombe al cloro, usate ripetutamente dai lealisti.
Grazie ai filmati apparsi su Youtube, abbiamo visto più volte droni iraniani sorvolare Idlib, Homs, Damasco e Aleppo: UAV da ricognizione come i Mohajer 4, gli Ababil-2, i Mirsad-1, gli Shahed 129 e gli Yasir. Da Teheran arrivano anche buona parte dei fondi per la manutenzione in Russia della flotta aerea siriana. Un mix di aiuti che si somma alla dirompenza del supporto russo.
L’intesa con Mosca
Mosca e Teheran sembrano intendersi e saper scendere a compromessi. Non è sempre un idillio, ma l’asse funziona, cementato anche dalla recente visita al Cremlino di Hassan Rohani. In teatro, è stata Mosca a volere un centro di coordinamento a Bagdad, con Siria, Iraq e Iran, distaccandovi inizialmente il generale Sergei Kuralenko, oggi numero uno della base di Hmeimim.
La commissione quadrilaterale condivide l’intelligence e coordina le operazioni contro i jihadisti. Per la Siria, ovviamente, c’è uno stato maggiore congiunto. Tutto ruota intorno al colonnello-generale russo Alexander Zhuravlev, subentrato recentemente ad Alexander Dvornikov, al generale Ayyoub e, in seconda battuta, al generale dei pasdaran Key Parvar e al comandante hezbollahi Mustafa Badr al-Din, che coordina le operazioni all’estero dei guerriglieri libanesi.
Mosca ha premuto per rafforzare gli effettivi di fanteria del Syrian Arab Army con le milizie, principalmente sciite, addestrate e armate dall’Iran. Già presenti sul campo nei settori orientali di Damasco e ad Aleppo, i miliziani filo-iraniani sono stati rimpinguati con le unità dei pasdaran e dei gruppi di Hezbollah, quindi spediti su tutti i fronti. Hanno dato e continuano a dare un apporto vitale alle sottodimensionate unità lealiste. I servizi d’intelligence iraniani hanno reclutato anche fra gli sciiti pachistani. Prova ne sia la formazione Zeinabiyun (vedi PDF 4). Si tratta di un migliaio di uomini, che hanno combattuto anche nel settore di Aleppo, mediatizzati dall’IRGC su Twitter e Facebook.
Teheran aveva già reclutato a man bassa fra gli Hazara afghani
e per catalizzare nuove reclute ha aperto perfino un account su Facebook. Da quanto se ne sa i nuovi volontari prendono un salario minimo di 1.000-1.200 dollari. Si affiancano in Siria ai membri della brigata imam al-Hussein, nerbo della presenza pan-iraniana in teatro operativo.
Il generale Mohammad Ali Jafari, capo dei guardiani della rivoluzione, ha affidato per tempo il dossier siriano a Hossein Salami, numero uno della componente aerea dei pasdaran. Non ha sbagliato uomo, soprattutto in vista della battaglia di Aleppo e provincia, un settore operativo che gli iraniani comandano da quattro anni.
L’offensiva è stata multidirezionale, fin dall’inizio. Ha puntato non solo a Est, ma anche a Sud e a Ovest, almeno dal sedici ottobre 2015. I comandi russi e i
raniani hanno optato per una tattica molto aggressiva, con una concentrazione di forze inedita. Hanno affiancato ai regolari siriani non meno di 7.000 combattenti, 2.000 dei quali inquadrati nelle milizie irachene Al-haydareyeen. Altri 2.000 uomini provenivano dalle forze Fatimidi afghane. Ma c’erano anche 2.000 iraniani e un migliaio di Hezbollah.
Un insieme di forze supportato dai caccia-bombardieri russi e da artiglierie pesanti. La posta in gioco era molto alta: la Siria indipendente ha ruotato sempre intorno all’asse Damasco-Aleppo. Quest’ultima è importante non solo dal punto di vista militare, ma anche e soprattutto politico. Ha un valore incommensurabilmente superiore al feudo ISIS di Raqqa. Gli iraniani hanno fatto uno sforzo ulteriore, mobilitando per il teatro siriano i berretti verdi della 65esima brigata avioportata delle forze speciali, stimata fra le migliori unità delle forze regolari.
Un sacrificio enorme, viste le difficoltà della sfida. Ad Aleppo le perdite iraniane sono schizzate verso l’alto, passando da 10 a 70 morti al giorno. Sono caduti sul campo molti ufficiali generali e superiori, con forti ripercussioni sul morale dell’IRGC. La prima svolta si è registrata solo fra il 31 ottobre e il 3 novembre, quando il fronte ribelle a sud di Aleppo ha cominciato a cedere. Un’offensiva diretta da Suleimani in persona, che è stato ferito al fronte a fine novembre 2015.
Poi è seguito un lungo stallo, fino al 9 luglio 2016, quando gli iraniani e le Tiger Forces di Assad hanno tagliato l’ultima via di rifornimento dei ribelli, a nord, conquistando le fattorie di Mallah e la Castello Road, la strada del Castello.
Quei fatti hanno segnato l’inizio dell’assedio ermetico ad Aleppo Est, con alcune battute d’arresto, come sempre avviene nelle operazioni militari. Il 28 ottobre i ribelli di Jaysh al Fatah hanno lanciato un’offensiva molto ben pianificata per crearsi un corridoio di transito e spezzare l’assedio dei quartieri orientali. L’operazione era cominciata con una serie di attacchi suicidi con camion bomba, accompagnati da una tempesta di razzi su tutte le basi aeree e i quartier generali pan-lealisti. I qaedisti hanno poi sciamato sulle moto, che hanno fatto la storia dei combattimenti urbani siriani. Sfruttando la breccia aperta nel perimetro difensivo, sono andati alla conquista fulminea di diversi quartieri occidentali.
L’asse d’attacco scelto ha sorpreso i difensori e a dire il vero anche molti esperti, perché quello era il settore di Aleppo ovest con le migliori difese, intorno all’accademia militare. Un azzardo per Fatah al Sham, prima inter pares fra gli attaccanti. L’offensiva si è esaurita infatti rapidamente. I ribelli mancavano di riserve addestrate e motivate per continuare gli assalti notturni, hanno subito ingenti perdite, non hanno fatto operazioni diversive e si sono scontrate con l’arrivo al fronte di rinforzi iraniani, che con i russi hanno dato una mazzata decisiva ai jihadisti.
Gli assediati avevano presentato l’offensiva come ‘la madre di tutte le battaglie’. Il fallimento è stata una pietra tombale sul loro morale. La sacca di resistenza dell’est è crollata definitivamente il 12-13 dicembre scorso.
Era costruita come una conca intorno al fiume Quawyq, con scarsissimi punti di ancoraggio geografico. È stato un grandissimo successo per i lealisti, per i russi e per l’Iran, che aveva puntato tutto su questa città. E ora marcerà verosimilmente su Deir Ezzor e Idlib, prossime tappe nell’agenda Assad, mentre i filoiraniani di Harakat al-Nujaba stanno già puntellando i lealisti a Hama e Damasco, per stroncare gli ultimi colpi di coda dei jihadisti.
Tessuta meticolosamente, la tela iraniana in Siria (e in Iraq) sta portando i suoi frutti. Ha una trama limpida, che si dirama nei piani persiani di lungo termine e nel patto d’acciaio con Assad. Vedremo che cosa riserverà il futuro, specie dopo il raid aerei statunitense contro la base aerea siriana di Sharyat.
Foto: FARS, AP, RIA/Novosti, AFP, SANA
Francesco PalmasVedi tutti gli articoli
Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.