Afghanistan: il ritorno

Afghanistan, si riparte! Prima l’invasione alla fine del 2001, poi il rafforzamento dei contingenti Usa e Nato fino a 140 mila uomini (100 mila dei quali statunitensi) per sconfiggere i talebani, per poi procedere, con Barack Obama, al ritiro delle truppe dall’Afghanistan poiché le forze governative afghane – così diceva anni or sono la propaganda NATO – avevano acquisito ampie autonomie operative per contrastare i talebani.

Ora un nuovo contrordine viene dall’Amministrazione Trump: stop al ritiro e alla missione di addestramento e consulenza si aggiungeranno nuove forze USA da combattimento.

L’anno scorso Barack Obama aveva fermato il piano di riduzione ulteriore delle forze americane a Kabul, ora la Casa Bianca ha autorizzato per la prima volta dal 2010 l’invio di altri soldati, almeno 3 mila riferiscono fonti del Pentagono annunciando che si potrebbe arrivare anche a 5 mila uomini.

Il Segretario alla difesa, il generale James Mattis, ha lavorato alla proposta con il Capo di stato maggiore Joseph Dunford con il supporto del consigliere per la sicurezza nazionale, il generale H.R. McMaster.

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La saga della guerra afghana continua quindi alternando strategie USA contraddittorie e per questo ormai rivelatesi prive di senso. Non c’è dubbio che la situazione militare nel Paese asiatico sia sempre più grave come ha ampiamente illustrato Analisi Difesa con numerosi articoli e recentemente con un’ampia analisi di Marco Leofrigio.

Nella prima metà del 2016 il governo afgano ha perduto il controllo del 5% del paese, arrivando a controllarne solo il 65,6%. I talebani, come denunciato anche dal SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), sono giunti a controllare un territorio esteso come non mai in precedenza dopo il 2001 quando l’Operazione anglo-americana Enduring Freedom fece cadere il loro regime.

Questo situazione così critica ha imposto a Barack Obama di rinunciare al piano di ritiro di altri 5mila soldati. Nella seconda metà del 2016 altro terreno è stato perso, con il governo afgano che arrivava a solo il 57% del paese, ma questa percentuale di controllo si è ridotta ulteriormente con la recentissima caduta del distretto di Sangin, nell’Helmand, una perdita simbolica per tutta la coalizione anti-talebani”.

L’unica buona notizia per Kabul giunge dal fronte della lotta allo Stato Islamico afghano, gruppo jihadista nemico di governo e talebani basato soprattutto nelle province orientali di Nangarhar e Kunar. Il capo del gruppo armato, ritenuto responsabile di una serie di sanguinosi attacchi tra cui quello all’ospedale militare di Kabul che nel marzo scorso provocò oltre 50 morti, sarebbe stato ucciso in Afghanistan a fine aprile.

Lo hanno confermato il governo afghano e la Nato. Sheikh Abdul Hasib, leader del gruppo, è morto in un’operazione congiunta delle truppe afghane e americane, lo scorso 27 aprile, nel sud della provincia di Nangarhar.

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Gli Stati Uniti “debbono fare qualcosa di completamente diverso” da quanto è stato fatto finora in Afghanistan, come inviare al fronte a combattere i consiglieri militari o si rischia che ogni metro conquistato finora nella più lunga guerra della storia Usa vada perduto e alla fine a Kabul tornino al potere i talebani” ha detto il direttore dell’intelligence militare (Defence Intelligence Agency), il tenente generale dei Marine, Vincent Stewart, per il quale l’attuale situazione di “stallo potrebbe alla fine degenerare a favore del nemico”.

Ancor più pessimista il superiore di Stewart, il direttore della National Intelligence (che coordina le 17 agenzie di spionaggio Usa), Dan Coats per il quale “la situazione politica e la sicurezza in Afghanistan quasi sicuramente peggiorerà nel 2017 anche con il modesto incremento di truppe Usa e dei loro alleati”. Per Coats, ascoltato dalla commissione Intelligence del Senato, “l’Afghanistan continuerà a non riuscire a ridurre la dipendenza dalle forze esterne fino a quando non riuscirà a contenere o raggiungerà un accordo di pace con i talebani”.

Un tema, quello dei negoziati coi talebani, che si trascina da almeno dieci anni senza risultati concreti. Per il futuro il coordinatore dell’intelligence Usa non è certo ottimista e ritiene che “i talebani probabilmente continueranno a guadagnare terreno specialmente nelle zone rurali” aggiungendo che gli sforzi per rafforzare le truppe afghane non hanno portato ai risultati sperati: “La prestazione delle forze di sicurezza afghane probabilmente peggiorerà per il combinato disposto delle operazioni dei talebani, delle vittime dei combattimenti, per le diserzioni, lo scarso sostegno logistico e l’inefficienza dei vertici”.

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Del resto l’intelligence statunitense è sempre stato pessimista circa l’esito del ritiro delle truppe alleate e in un simile contesto 3mila o 5mila soldati in più non faranno la differenza nè sembra configurabile un ritorno in forze degli alleati in Afghanistan sui livelli del 2010.

Sul piano militare, come da tempo sostiene Analisi Difesa, il modo migliore per contrastare i talebani e assistere con efficacia le forze di Kabul in modo bilanciato e sostenibile nel tempo per Usa e Nato è riposto nella capacità di schierare in ogni regione militare (Kabul, Nord, Est, Sud, Ovest e Sud-Ovest) un dispositivo da combattimento a livello reggimento interarma da affiancare ai consiglieri militari che appoggiano le truppe afghane.

Un reparto composto da un battaglione di fanteria leggera (meglio se con una compagnia meccanizzata), una batteria di artiglieria più una componente elicotteri e velivoli teleguidati con altri supporti.
Sei reparti di questo tipo basati presso gli aeroporti nelle diverse aeree afghane potrebbero contrastare efficacemente la minaccia con il supporto di aerei da combattimento dispiegati in almeno quattro basi (per esempio a Bagram, Herat, Jalalabad e Kandahar).

In tutto circa 10/12 mila uomini da aggiungere a quelli già presenti con compiti di supporto e consulenza anche se non si tratterebbe di raddoppiare gli effettivi poiché molti compiti logistici e di comando e controllo non verrebbero duplicati e probabilmente 20 mila militari sarebbero sufficienti a garantire una forza da combattimento credibile e una struttura di supporto agli afghani efficace.

Attualmente gli Stati Uniti schierano 8.400 soldati in Afghanistan (2.500 assegnati all’operazione antiterrorismo Freedom Sentinel e gli altri con la missione di consulenza NATO Resolute Support) sui 13.300 totali del contingente Nato di cui gli italiani sono 950 e altrettanti i tedeschi.

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Di rinforzi da inviare nuovamente in Afghanistan si parla anche nell’ambito dell’Alleanza Atlantica e presto i nodi verranno al pettine obbligando i Paesi europei a seguire o meno gli americani nell’ennesima inconcludente e schizofrenica rivisitazione della strategia afghana in cui ogni decisione assunta vanifica quella precedente.

Potrebbero servire “alcune migliaia di soldati in più” in Afghanistan ha detto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg al termine dell’incontro a Londra con la premier britannica Theresa May precisando che non saranno impegnati in combattimento.

Il segretario ha affermato che una decisione definitiva sarà presa nelle prossime settimane e che tutti i Paesi dell’alleanza, inclusa la Gran Bretagna, sarebbero invitati a dare il loro contributo. Le truppe si devono concentrare nell’addestramento delle forze locali afgane, definita “la risposta migliore che abbiamo contro il terrorismo” anche se finora non si è rivelata sufficiente.

Tornare sul terreno con forze da combattimento significa infatti lottare per riprendere territori ora perduti ma per liberare i quali sono morti negli anni scorsi oltre 3.500 soldati alleati dei quali 2.400 statunitensi, 455 britannici e 54 italiani (inclusi i caduti per incidenti e altre cause non legate al combattimento).

Anche l’Italia dovrebbe porsi la domanda se abbia senso tornare in forze a Kabul soprattutto senza una strategia precisa. Abbiamo già abbastanza problemi alle porte di casa da non poterci permettere di lasciare forze a Herat nell’ambito di una missione dai tratti indefiniti e dalle prospettive cupe solo per seguire ancora una volta l’alleato americano la cui strategia è talmente mutevole da variare anche all’interno di una stessa Amministrazione (Obama inviò rinforzi nel 2010 annunciando però che avrebbe iniziato il ritiro l’anno successivo).

Qualche domanda dovremmo pur porcela nell’ambito dell’auspicato dibattito sugli interessi nazionali e le relative priorità.

Foto: US DoD, Getty Images e Youtube

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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