Nigeria: l'Occidente combatte Boko Haram coi tweet

La vicenda delle 276 studentesse rapite dai miliziani qaedisti nigeriani di Boko Haram (leggi l’analisi sul movimento di Marco Leofrigio su AD di gennaio) ha mobilitato molti Paesi occidentali che si sono affrettati a offrire detective e forze speciali per risolvere il caso. Ma anche tutti i vip “à la page” pronti a intervenire con strumenti di significativa efficacia come i tweet, che ormai sembrano aver sostituito i fatti concreti anche presso molti esponenti del mondo politico e culturale politically correct.

Sul tema Gian Micalessin ha scritto nei giorni scorsi (a nostro avviso magistralmente)  due commenti sulle pagine de Il Giornale  che riportiamo qui sotto.

 
10 maggio – Dai giardinetti della Casa Bianca ai salotti del “politicamente corretto” nostrano, ripulirsi la coscienza costa poco. Basta, come insegna Michelle Obama, abbandonare per un attimo pomodorini e zucchine  rigorosamente “organic”, dell’orto presidenziale e scrivere  #BringBackOurGirls. Al resto ci pensa twitter. O meglio non ci penserà nessuno. In Nigeria lo sanno bene. Senza un adeguato pagamento o un’azione di forza, le 276  studentesse della scuola di Chibok  rapite dai Boko Haram il 14 aprile scorso non torneranno libere. E la campagna che smuove i cuori e le illusioni dell’Occidente servirà soltanto ad alzare il prezzo del riscatto. O, peggio, a moltiplicare la sinistra fama dei “talebani neri” spietati “nemici”, come ricorda lo stesso nome Boko Haram,  della “civiltà occidentale

“.  Per capirlo basta ascoltare i proclami  del loro capo  Abubakar Shekau  che rivendica il rapimento e aggiunge  “Fanno tanto rumore solo perché  ho preso  delle ragazze educate all’occidentale”.  Quella frase è, paradossalmente, l’unico bisbiglio di verità in una cacofonia di deliri. E ben identifica, nonostante l’indegnità di chi la pronuncia, l’ipocrisia di chi da Michelle Obama ai nostrani sostenitori del pensiero omologato  (Corriere della Sera, Repubblica, Partito Democratico, Radio 24, Gad Lerner, Sel solo per citare i tweet di ieri) fa  a gara a rilanciare quel cinguettio. Un “cinguettio” figlio non della pasciuta Michelle, ma di Ibrahim Abdullahi, l’avvocato nigeriano che due settimane ideò l’angosciato messaggio. Ma l’angoscia di chi vive sulla propria pelle la minaccia dei Boko Haram  ha poco a che fare  con il cinismo di chi, da queste parti, rilancia l’appello  nel nome del  “politicamente corretto”.

E usa il dramma delle ragazzine nigeriane per guadagnarsi, a colpi di tweet, un posticino nella cerchia del “virtual chic”.  Per sei lunghi anni  i nostrani “maître à penser” della gioiosa banalità in 140 battute hanno spensieratamente ignorato  i massacri  costati la vita a  1500 nigeriani.   E hanno placidamente guardato altrove mentre  il fanatismo islamista bruciava chiese, distruggeva scuole, massacrava cristiani.  Non si sono stracciati troppo  le vesti neppure quando  la stessa sorte toccava a  Franco Lamolinara e Silvano Trevisan, due nostri connazionali rapiti  e barbaramente uccisi dagli stessi autori del sequestro delle studentesse. E ora, mentre presi dalla frenetica gioia di accodarsi al conformismo  in 140 caratteri rilanciano quel “#bringbackourgirls”,  manco si ricordano di  Giampaolo Marta e Gianantonio Allegri,  i due preti italiani rapiti il 4 aprile,  assieme alla suora canadese Gilberte Bussier, da un gruppo Boko Haram sconfinato  in Cameron.

Di loro in fondo chissenefrega. Sono italiani ed aiutano i disgraziati d’Africa minacciati  da miseria e fanatismo, ma vuoi mettere la loro anonima, silenziosa  missione  con la cinguettante notorietà regalata  da un “hashtag” di Michelle Obama?  A ben vedere un sussulto di pietà,  se non proprio un cinguettio, la meriterebbero anche i 174 disgraziati di  Gamboru Ngala  massacrati dai Boko Haram  la notte tra domenica e lunedì scorso per aver dato ospitalità ai militari mandati a cercare  le studentesse rapite. Ma Michelle ne parla? Repubblica rilancia? Vanity Fair ne scrive? No. E allora perché perder tempo? Lancia un #bringbackourgirls, condividilo con chi conta  e torna a farti quello che   consiglia il senatore Razzi. Non sarà politicamente corretto, ma il risultato è lo stesso.

 

13 maggio – Il peggio s’è puntualmente avverato.  Come  “Il Giornale” aveva, previsto la campagna #bringbackourgirls,  propagatasi viralmente grazie ai tweet di Michelle Obama,  ha conseguito, purtroppo,   il più deleterio dei risultati. Da ieri le 276 ragazze rapite dai terroristi islamici Boko Haram non sono più semplici ostaggi, ma armi  di ricatto globale.  Il video  di 17  minuti  diffuso da Boko Haram  parla chiaro. Emotivamente la parte più inquietante è  quella in cui si vedono le  ragazze  coperte dal velo integrale riunite in una radura sotto le bandiere del terrorismo islamista.

Una radura dove vengono  costrette a recitare  i sette versi di Al Fatiha,  la prima shura  del Corano simbolo – attraverso l’evocazione di Allah – dell’avvenuta  conversione. Il contenuto più rilevante del video  è però il messaggio lanciato in sottofondo  dalla voce di Abubakar Shekau,   capo indiscusso di Boko Haram.  Shekau – che sarà anche pazzo e fanatico,  ma non è certo scemo  – coglie al volo l’imperdibile opportunità offertagli  dalla moglie di Obama e dai disincantati sostenitori di #bringbackour girls. Non a caso  pretende  di scambiare  le 276 ragazze con i  propri militanti detenuti nelle carceri nigeriane.   Considerare l’offerta un successo  non è   solo  ingenuo,  ma  assolutamente criminale. Un’eventuale trattativa   poteva passare  attraverso  altri canali , molto più discreti e indolori.

Uno poteva essere  quello dei missionari della  Chiesa cattolica  capaci in Africa di dialogare sottotraccia  con le formazioni più truci e disparate. Viste le  minacce di vendere le ragazze  come schiave nei paesi confinanti  si potevano  anche  contattare le organizzazioni umanitari specializzate nel “riacquisto”  e nel ”riscatto” degli esseri umani caduti vittima di questa odiosa tratta. Ma si poteva anche scegliere  di rivolgersi ai mediatori già utilizzati in passato  per ottenere  il rilascio di alcuni  ostaggi occidentali caduti nelle mani di gruppi terroristi d’ispirazione islamista in altri paesi africani. Usando questi strumenti silenziosi anziché la sguaiata esibizione di solidarietà “virtual chic” celata dietro ai  tweet di adesione alla campagna  l’Occidente avrebbe evitato di trasformare Shekau nel  protagonista di una trattativa internazionale.

Grazie a #bringbackourgirls lui e il suo manipolo di assassini assurgono, invece,   a fama  internazionale  e si ritrovano nella condizione di poter ricattare il governo nigeriano. Nello stesso tempo sale, in base ad un’inevitabile logica di mercato, il prezzo politico e commerciale  dei 276 ostaggi nelle loro mani. Ma i danni  non finiscono qui.

La Nigeria non brilla  per il rispetto dei diritti civili e umani,  ma costringerne il governo a prestar orecchio ai  ricatti del suo peggior nemico   non contribuirà certo a rafforzare la stima e il rispetto per gli alleati occidentali. Per non parlare dei rischi legati ad un  possibile effetto emulativo. L’indignazione degli occidentali per chi, al pari dei Boko Haram, è convinto  di uccidere nel nome di Dio  vale assolutamente zero. I milioni di “tweet” scatenati dalle loro  azioni vengono al contrario letti ed interpretati  come una sorta di scientifico indicatore  dell’efficacia dei propri  mezzi.  E rafforzano  la convinzione criminale che il rapimento di 276 ragazzine sia l’arma migliore  per  conquistare  notorietà,  piegare l’Occidente e costringerlo ad un infamante negoziato pubblico. In una prospettiva futura diventa poi  difficile  e ipocrita  non interrogarsi sui possibili legami tra la viralità dell’indignazione e quella dell’orrore che la genera.

Cosa  faranno  Michelle Obama  e i milioni di  convinti sostenitori di  #bringbackourgirls se in Siria, Libia e  Afghanistan e su altri palcoscenici dell’orrore  il rapimento  e l’esibizione di  innocenti scolarette diventeranno, come a suo tempo le decapitazioni in Iraq, prassi comune?  Perché a quel punto un “tweet” non basterà neppure a ripulirsi la coscienza.

Foto: AFP

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