Le stragi in Afghanistan puntano a dimostrare la debolezza del governo
da Il Mattino del 28 gennaio 2018 (titolo originale “Strage a Kabul, i terroristi rialzano la testa”)
Le tre stragi compiute in Afghanistan da Talebani e Stato Islamico in una settimana, due a Kabul e una a Jalalabad, evidenziano la vivacità dei gruppi jihadisti attivi nel paese asiatico e tra loro rivali e mostrano soprattutto la volontà di colpire in modo eclatante con azioni dinamitarde suicide che hanno l’obiettivo di provocare il numero più alto possibile di vittime.
L’Hotel Intercontinental nella capitale e la sede di Save the children a Jalalabad sono infatti “soft” target”, termine con il quale in gergo militare si identificano i bersagli facili, poco protetti, frequentati da civili dove è più probabile mietere molte vittime. Difficile per ora stabilire quale fosse l’obiettivo dell’ambulanza piena di esplosivo deflagrata ieri a un posto di blocco nel centro di Kabul. L’autista è stato riconosciuto e si è fatto esplodere al check-point uccidendo un centinaio di persone e ferendone oltre 150 non lontano dalle sedi dell’Unione europea e del ministero degli Interni.
Il risultato dei tre attentati compiuti in pochi giorni è un massacro di civili con pochi precedenti, superato solo dalla strage compiuta il 31 maggio dell’anno scorso dai Talebani nella capitale afghana con un camion bomba che uccise oltre 150 persone ferendone più di 400.
Colpire i civili non solo è più agevole per gli insorti rispetto all’attacco a basi militari, ma è utile anche a dimostrare che il debole governo del presidente Ashraf Ghani non è in grado di proteggere la popolazione.
Una strategia terroristica agevolata anche dall’impatto mediatico internazionale delle azioni suicide (che aumenta la percezione della potenza degli insorti) a cui i Talebani affiancano una strategia bellica altrettanto aggressiva che sul campo di battaglia ha sottratto ormai la metà del territorio alle truppe di Kabul che continuano a subire perdite tra militari morti e feriti pari a diverse centinaia ogni mese. Troppi per poterli rimpiazzare adeguatamente con nuove reclute in un contesto in cui a minare l’esercito e la polizia contribuiscono anche numerose diserzioni.
Se lo Stato Islamico del Khorasan, nome della branca afghana dell’IS, è attivo soprattutto nella provincia orientale di Nangarhar, i Talebani hanno ormai di nuovo esteso il loro raggio d’azione a quasi tutto l’Afghanistan, affossando così in modo definitivo i successi conseguiti a prezzo di molti caduti dalle truppe alleate durante le offensive che si sono succedute tra il 2008 e il 2011, quando Usa e Nato arrivarono a schierare fino a 140 mila militari nel paese asiatico contro gli appena 13 mila di oggi destinati a salire a 17mila.
Forze in gran parte impiegate per addestrare e fornire consulenza alle truppe afghane mentre appena 3mila soldati, per lo più statunitensi, hanno compiti dichiarati di combattimento.
In una guerra in cui non può esserci vittoria senza controllo del territorio poche migliaia di consiglieri militari e istruttori in più non potranno certo fare la differenza sui campi di battaglia. Come non l’anno fatta nel 2017 le 4.300 bombe e missili lanciati dai velivoli statunitensi per contrastare l’azione di talebani, Isis e degli altri gruppi antigovernativi in un numero di raid aerei raddoppiato rispetto al 2016 in seguito all’inasprimento delle regole d’ingaggio voluto da Donald Trump.
Washington sta inviando altri jet in Afghanistan per fornire un maggiore appoggio alle truppe afghane che possono contare anche su nuovi aerei antiguerriglia ed elicotteri forniti e gestiti dagli statunitensi ma 16 anni di guerra (e in precedenza anche il conflitto combattuto in Afghanistan dai sovietici) hanno dimostrato che la superiorità nei cieli non può da sola assicurare il controllo del territorio in operazioni militari contro forze insurrezionali.
Per questo, in assenza di sbocchi politici che potrebbero scaturire solo da negoziati, per anni evocati ma finora mai concretizzatisi, il conflitto afghano pare condannato a vivere una impasse infinita.
Da un lato gli insorti non hanno la forza per occupare Kabul e i grandi centri urbani facendo cadere il governo e riprendendo il potere, dall’altro le truppe afghane e gli alleati Usa/Nato, che pure finanziano con 4 miliardi di dollari annui le truppe afghane (120 milioni la quota pagata dall’Italia) non sono in grado di annientare Talebani e IS Khorasan né di riprendere il controllo dell’area strategica a ridosso del confine con l’Area Tribale pakistana oltre il quale tutti i gruppi jihadisti (inclusa al-Qaeda) hanno le loro retrovie.
L’ambiguità di Islamabad, interessata a mantenere instabile un Afghanistan il cui governo è sostenuto anche dall’eterna rivale India, non è certo una novità e gli Usa finora l’avevano tollerata a fatica ma senza rompere i rapporti con il tradizionale alleato.
L’Amministrazione Trump invece ha per la prima volta accusato il Pakistan di essere in combutta con i jihadisti attivi in Afghanistan annunciando la sospensione degli aiuti militari e determinando una dura reazione di Islamabad, a cui forse non casualmente hanno fatto seguito i tre gradi attentati dell’ultima settimana.
Foto New Yor Times, Sutya, Xinhua e Arynews
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.