L’asse con Trump e la collocazione strategica dell’italia
La politica del governo Lega-M5S nei confronti dell’Unione europea, tesa su molti fronti a ribadire la prevalenza degli interessi nazionali, ha permesso di imprimere nuovo slancio alle relazioni con gli Stati Uniti dell’Amministrazione Trump attribuendo a Roma un ruolo strategico.
Che Trump avesse accolto positivamente l’insediamento del governo Conte era apparso chiaro già all’ultimo summit del G7. E’ stato però ancora più evidente al recente vertice Nato di Bruxelles in cui Trump ha redarguito uno per uno molti alleati europei ancora lontani dal raggiungere il tetto del 2% del Pil per le spese militari, ma non l’Italia che pure non spende realmente per le forze armate più dell’1%, percentuale superiore nella Nato solo a quella di Spagna e Lussemburgo.
Trump ha bisogno di un’Italia forte in Europa per indebolire la Germania e, in campo strategico, l’asse franco-tedesco impedendo o rallentando l’eventuale affermazione di un solido strumento militare della Ue che potrebbe in futuro porsi come alternativo alla Nato e alla dipendenza strategica dagli Usa.
Un ruolo ricoperto finora da Londra, il “secondo azionista” della Nato che ha sempre ostacolato dall’interno i progetti di difesa europea che, non a caso, hanno preso nuovo vigore dopo il Brexit.
Nell’aspro confronto tra Trump e l’Europa a trazione tedesca, Roma rappresenta il “rimpiazzo ideale” di Londra per il suo peso economico e politico come pure per la sua posizione strategica in un Mediterraneo sempre più instabile. Per questo la convergenza di interessi tra i governi di Roma e Washington apre significativi margini per gli interessi italiani.
Gli Usa hanno rinnovato il supporto all’Italia per la gestione della crisi libica, dove abbiamo bisogno di aiuto per contrastare la “concorrenza” francese. Una necessità non nuova, già emersa col governo Gentiloni che aveva varato una revisione della presenza militare oltremare più attenta agli scenari di crisi vicini ai nostri confini che prevedeva un forte ridimensionamento delle forze in Iraq (la guerra all’Isis è di fatto conclusa), un ritiro più limitato dall’Afghanistan e un incremento delle forze schierate in Libia, in Tunisia e in Niger, paese del sahel dove “l’ostruzionismo” di Parigi sta ostacolando il decollo della missione italiana.
Un piano che l’attuale governo sembra voler sviluppare in piena continuità col quello precedente. L’esigenza di puntare sull’Italia sembra determinare una certa “indulgenza” di Washington rispetto ad alcuni aspetti da sempre critici nei rapporti con gli Usa come la bassa percentuale di Pil assegnata alla Difesa o la revisione al ribasso delle truppe in Afghanistan.
Le pressioni di Washington per un aumento delle spese militari degli europei (iniziate già con Barack Obama) puntano a favorire un maggiore acquisto di sistemi di difesa “made in Usa” da parte degli alleati e un progressivo disimpegno delle forze americane dall’Europa.
In Afghanistan non saranno 200 militari italiani in meno (sostituiti da altri contingenti Nato) su 900 a rendere più critica la situazione nello Stato asiatico da cui lo stesso Trump ha da tempo auspicato il ritiro delle truppe statunitensi, caldeggiando l’anno scorso un piano per rimpiazzare i militari con contractors da affiancare alle truppe afghane, poi abbandonato (per ora) a causa del veto del Pentagono.
Più ferma sembra essere la posizione di Washington sul completamento e della commessa peri cacciabombardieri di 5a generazione F-35.
Forse non solo per ragioni militari o industriali ma perché l’export della Difesa è considerato da Trump un modo efficace per bilanciare il deficit commerciale di cui gli Usa soffrono nei confronti di molti Stati alleati e, nel caso dell’Italia, pari a 31 miliardi di dollari.
L’Italia è impegnata ad acquisire 90 velivoli dei quali una quindicina già ordinati o consegnati ma Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha confermato la rivalutazione dell’intero programma e la dilazione degli ordini tesa ad acquisire i velivoli in tempi più lunghi già prevista da Roberta Pinotti
L’aereo ha ancora molti problemi da risolvere e non è ancora chiaro quanto verrà a costare acquisirlo e mantenerlo operativo. Di certo troppo per i magri bilanci italiani (che difficilmente aumenteranno in modo significativo), striminziti soprattutto alla voce “Esercizio” (le spese di gestione della macchina militare).
I 15 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale sono indispensabili alla Marina per equipaggiare la portaerei Cavour ma almeno una parte dei velivoli destinati all’Aeronautica potrebbe venire tagliata nei prossimi anni, senza bisogno di annunciarlo oggi.
Del resto anche le forze armate americane e britanniche stanno valutando una sensibile riduzione del numero di F-35 mentre sul piano delle ricadute industriali e tecnologiche per l’Italia l’F-35 non ha mantenuto le promesse.
L’attuale attenzione di Washington nei confronti dell’Italia imporrebbe di premere affinchè all’impegno di Roma per gli F-35 corrisponda l’adozione da parte del Pentagono dell’aereo da addestramento M-346 e degli elicotteri AW139 di Leonardo o delle fregate lanciamissili Fremm di Fincantieri in gare negli Usa che negli ultimi anni hanno visto estromessi i prodotti italiani in base prima allo slogan obamiano “buy american” e poi a quello trumpiano “America first”.
Se così non fosse si potrebbero valutare alternative ad almeno una parte dei velivoli di Lockheed Martin in linea anche con la necessità di Roma di reperire risorse da investire in altri programmi, come quello britannico per il caccia di 6a generazione Tempest(destinato a sostituire i Typhoon dal 2040) che già coinvolge gli stabilimenti di Leonardo in Gran Bretagna.
Tagliata fuori dallo sviluppo del nuovo caccia franco-tedesco, l’Italia non può perdere “il treno” strategico e industriale del Tempest.
Per tutelare il made in Italy i vecchi Amx potrebbero venire rimpiazzati da due dozzine di caccia leggeri M-346FA, versione combat dell’addestratore Master, meno avveniristico ma anche molto meno costoso dell’F-35 e forse più adatto a contesti operativi a bassa intensità, la cui acquisizione da parte della nostra Aeronautica potrebbe favorirne l’export.
Inoltre il coinvolgimento della nostra industria in molti programmi europei potrebbe suggerire, nell’ambito del Consorzio Eurofighter, di affiancare i tedeschi nello sviluppo della nuova versione del Typhoon che Berlino (che non comprerà gli F-35) intende ordinare il 90 esemplari per rimpiazzare i vecchi Tornado e che potrebbe garantire buoni margini all’industria italiana anche in termini di ulteriore export del velivolo europeo.
Incassare i dividendi della ”relazione speciale” con gli Usa per rilanciare il ruolo di Roma nel Mediterraneo mantenendo l’industria della difesa ancorata alle partnership europee sono le sfide strategiche complesse che attendono il governo Conte.
Foto: UK Mod, Lapresse, AFP, Lockheed Marttin e
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.