Le chiavi di Aden: gli Emirati Arabi Uniti e la guerra in Yemen
Le guerre ridisegnano scenari, cambiano destini geopolitici, rilanciano ambizioni e mostrano profili talvolta inediti di paesi insospettabili. Gli Emirati Arabi Uniti non sfuggono all’equazione. Hanno giocato un ruolo chiave nelle operazioni terrestri e navali in Yemen, coprendo un quinto dei raid aerei, forse fra i più efficaci e conformi alle regole del diritto bellico.
Stanno iniziando a cogliere i dividendi dello sforzo militare, prima di accingersi ad esser nuovamente decisivi nella battaglia di Hodeida. Come tutte le guerre, anche quella in Yemen ha scompaginato alleanze, capovolto pronostici azzardati e contrapposto sciiti e sunniti, potenze regionali, eserciti regolari, golpisti e guerriglieri locali.
Ma quali sono state le tappe principali dell’intervento emiratino? Una data spicca su tutte. E’ il 21 aprile 2015, che sarà ricordato per la doppia valenza. Quel giorno si è chiusa la fase solamente aerea dell’intervento coalizzato a guida saudita e si è aperta una seconda fase, interforze, con l’operazione Restore Hope.
Un intervento su larga scala a partire dal sud dello Yemen, con un obiettivo finale non ancora raggiunto, liberare Sanaa e reinsediarvi il governo Hadi. In pratica un’operazione aeroterrestre con un blocco navale ed una no-fly zone estesi all’intero paese.
Fin dagli esordi, gli Emirati sono stati al centro di tutte le operazioni, ad Aden, ad al-Anad e lungo la costa del Mar Rosso. L’aeroporto di Aden è tornato in mani sicure nel luglio 2015, con l’operazione Freccia Dorata che ha aperto la strada alla riconquista del porto.
Un blitz che non sarebbe stato possibile senza il supporto aereo: nelle prime 36 ore di combattimenti sono stati effettuati 136 strike, in coordinamento con il gruppo interarma terrestre, imperniato su una brigata meccanizzata emiratina, un nucleo di lealisti formati all’estero e una compagnia di forze speciali saudite ed emiratine.
L’aeroporto della città è stato subito riparato per accogliere i cargo carichi di armi e rifornimenti. Da lì è partita la riconquista di al-Anad, capeggiata dagli uomini dell’UAE Special Operations Command e da reparti convenzionali emiratini, sbarcati ad Aden via al-Fujaïrah.
Abu Dhabi schiera da allora in Yemen una brigata su tre battaglioni, con i carri armati Leclerc e i veicoli da combattimento per fanterie BMP-3, dotati di kit per il combattimento urbano Azur e di una camera termica stabilizzata Athos/Namut, un prodotto di Sagem, Kurganmashzavod e Peleng, per ottimizzare l’impiego dei vari tipi di armamento, dai cannoni da 100 e 30 millimetri ai missili anticarro.
Altri rinforzi emiratini sono arrivati sempre via mare, tanto che il contingente ‘federale’ ha raggiunto presto le 3.000 unità regolari, oltre a un centinaio di commando.
Il Group 18 ha portato in dote anche gli elicotteri da attacco Apache, mentre gli incursori terrestri erano e sono equipaggiati con i nuovi veicoli 8×8 Enigma fabbricati negli stessi EAU e con gli MRAP M-ATV. Nella battaglia di al-Anad, che si è sdoppiata verso Zinjibar, sono entrati in gioco i semoventi d’artiglieria Denel G6 M1A3 da 155 mm, di fattura sudafricana, e i mortai RG-31 Agrab da 120 mm, accompagnati da veicoli da supporto Tatra T816.
Gli emiratini hanno distaccato un piccolo contingente anche a Marib, mentre continuavano a presidiare il sud di Aden e a formare una forza di polizia locale.
L’avanzata da Aden ha segnato la transizione verso una guerra più dinamica, su diversi fronti, confermata da una seconda offensiva terrestre a sud-ovest di al-Wadiah, nell’intersezione fra la frontiera saudita e la città centrale di Marib. In quelle prime fasi e non solo, gli emiratini hanno mostrato una preparazione operativa eccellente, molto ben articolata e anticipata per tempo.
Le unità designate per lo Yemen avevano potuto addestrarsi preventivamente sia al simulatore sia in manovre a fuoco reale. Mentre gli equipaggi familiarizzavano con i kit Azur e gli obici esplosivi OE F1, a livello tattico, le unità avevano già partecipato ad addestramenti congiunti con i francesi nei poligoni di Hamra e Thoban, per affinare i fondamentali della manovra in zona urbana, desertica e montagnosa.
Insomma qualcosa di molto prossimo alla realtà del terreno yemenita, dove i carri Leclerc sono stati impiegati per compiere un ampio ventaglio di missioni, in contesti disparati, fra terreni urbani, periurbani, montagne e deserti.
Gli MBT sono stati ripartiti dal comando emiratino in due battaglioni blindati in seno a una brigata blindata che comprende anche un battaglione meccanizzato con i BMP-3 già citati e una batteria di artiglieria con i semoventi.
L’insieme ha espugnato al Anab, prima di esser scisso per il seguito delle operazioni. Un battaglione blindato è stato mantenuto ad Aden in riserva, mentre l’altro ha proseguito verso l’interno del paese, verso la base di Marib di cui abbiamo accennato.
Con l’aiuto dei genieri emiratini, i sauditi hanno ricostruito il piccolo aerodromo di Marib, edificato un tempo da una compagnia petrolifera, per poi stanziarvi 6 elicotteri AH-64 Apache, con l’obiettivo di farne una FOB (base avanzata) ultraprotetta con i sistemi di difesa aerea russi Pantsir S1 e con gli obici d’artiglieria M-198, cui si sono aggiunti i Patriot emiratini per la difesa contro i missili balistici.
Marib è un punto ideale per ammorbidire la resistenza Houthi nella provincia di Shabwa e riaprire la direttrice verso Sanaa, distante 110 chilometri.
Durante le avanzate verso Marib e dintorni, il Close Air Support è stato realizzato dagli elicotteri dell’aviazione leggera emiratina Apache e Bell-407MRH che, rispetto ai cacciabombardieri, possono combattere a bassa altitudine e in miglior coordinamento con le forze terrestri.
C’è stato un consumo enorme di missili Hellfire, tanto da motivare una richiesta immediata di approvvigionamento agli Usa.
I piani dell’offensiva
Fin da subito, i piani degli stati maggiori sauditi ed emiratini hanno previsto quattro assi di avanzata. Il primo l’abbiamo già individuato. Punta l’ovest e Sanaa, a partire da Marib e dal governatorato centrale di al Bayda, teatro di duri scontri nei giorni scorsi. Il secondo ambisce a riprendere il nord-est, partendo dalla città costiera di Dhubab e arrivando al nodo cruciale di Taez, per poi risalire verso Ibb e Dhamar, con obiettivo finale la capitale.
C’è un piano di contingenza: se Taez non cade (ed è caduta solo parzialmente) bisogna proseguire oltre le due città di Ibb e Dhamar, per riprendere almeno il controllo delle città litoranee di Hodeida e Mokha, così da tagliare fuori i rifornimenti marittimi iraniani agli Houthi, attestati sulle colline di Taez. Simultaneamente a questa ardua offensiva, la Coalizione deve concentrare i raid nella regione desertica di al Jawf, continuando l’attacco terrestre in corso che, nei piani sauditi, punterebbe a riprendere la provincia di Saada, feudo Houthi, muovendo dalla terza direttrice, ovvero la provincia saudita di Jizan.
Un piano molto ambizioso-. Da Aden, l’obiettivo è invece avanzare verso il nord, lungo l’autostrada numero 1. La base di al-Anad vi gioca un triplice ruolo. È una major FOB, un hub per il Close Air Support e un centro di addestramento per il nuovo Yemen National Army.
La base di al-Anad
Vi operano gli uomini della 6a para-brigata saudita e della 64a brigata di forze speciali, affiancati da commando emiratini, da uno squadrone di Apache e da un pugno di elicotteri più leggeri Bell 407. L’aviazione emiratina vi distacca perfino alcuni uomini per un programma di formazione dei piloti yemeniti su velivoli da attacco leggero AT-802.
Ci sono anche contractor somali e 400 eritrei embedded, sia qui sia nella vicina base di Labouza. Dalla base è stata montata una seconda offensiva verso Bab el Mandeb, distante 160 chilometri a ovest. La missione è stata affidata al battle group meridionale, imperniato su una batteria emiratina di semoventi, un battaglione di MRAP e una task force mista di livello compagnia con i Leclerc emiratini e i meccanizzati sauditi e bahreiniti.
L’avanzata è stata rapidissima, protetta dal supporto aereo ravvicinato dei caccia-bombardieri e degli elicotteri d’attacco. Gli EAU schierano tuttora 30 Mirage 2000, mobilitati fin dal tempo dell’operazione Tempesta Decisiva.
Nella seconda settimana di ottobre 2015, lo Stretto è stato ripreso, e il battle group è risalito lungo la costa, verso il porto di Mokha, 25 chilometrim più a nord, un’area da cui sono partiti diversi strike degli Houthi con missili antinave C-802 e, sembra, C-704.
Qui come a Hodeida i bersagli numero uno sono state le navi militari e le petroliere della coalizione, con gravi ripercussioni sul traffico dei tanker, al punto che l’ultimo strike ha costretto l’Arabia Saudita a sospendere temporaneamente le forniture di greggio via mar Rosso e Suez. Il Kuwait potrebbe fare altrettanto.
Prima di tornare alle avanzate è bene ricordare che il Battle Group era appoggiato dai velivoli sauditi ed egiziani e dal fuoco delle artiglierie navali. Nel mirino c’erano anche le isole del mar Rosso.
La penetrazione nel Corno d’Africa
Fin dal 2015, sauditi ed emiratini hanno negoziato un accordo di partenariato militare con l’Eritrea, vecchio alleato dell’Iran. Se vogliamo è stato l’ennesimo voltafaccia di questa sporca guerra. L’Asmara ha concesso alla coalizione l’uso del suo spazio aereo, delle basi terrestri e di quelle navali.
Ha accettato di affittare per trent’anni a Dubai il porto di Assab, subito diventato un hub logistico emiratino. Fin dall’aprile 2016, le immagini satellitari di Astrium hanno mostrato che Abu Dhabi ha iniziato a costruire una base navale non distante dall’aeroporto di Assab, a meno di 100 chilometri dalle coste yemenite, per poi aprire diverse piattaforme operative fra il Puntland e il Somaliland, a Bosaso e Berbera.
La Dubai Port (DP). World sta rimettendo in sesto il porto di Berbera, un tempo mini-base navale sovietica, seconda via d’accesso alternativa agli altopiani etiopi.
Il fatto che il Somaliland non sia riconosciuto dalla comunità internazionale non imbarazza gli EAU, né sta impedendo loro di approfondire la cooperazione militare, con grande disappunto di Mogadiscio.
DP World è uno dei principali operatori portuali mondiali. Ha gestito fino a poco tempo fa anche il porto container di Gibuti, un altro tassello nel golfo di Aden, perno della strategia globale di affermazione della Federazione Emiratina. All’ingresso del golfo di Aden, gli EAU hanno occupato anche l’isola yemenita di Socotra.
Non paghi dell’ex base militare sovietica, hanno trasformato il blitz in una colonizzazione strisciante, avviando progetti di sviluppo turistico d’elite e imbastendo piani di infrastrutture che minacciano l’ecosistema di questo paradiso insulare.
Piani di secessione
Un dispositivo militare e commerciale complesso, che gravita intorno a una linea di punti d’appoggio lungo l’asse Socotra-Hadramaout, segno che gli Emirati tramano qualcosa di grosso e puntano semi-apertamente all’indipendenza dello Yemen del Sud, riportando la clessidra della storia a prima del 1990. Gli emiri sono accusati di esser troppo corrivi con le forze del Consiglio di transizione del Sud, che reclamano la secessione e si sono già scontrate ad Aden con le forze pro-Hadi.
Sono manovre che malcelano una volontà di occupazione più o meno diretta del golfo di Aden. Qualcosa che sta scompaginando i piani sauditi e gettando le basi di un mix esplosivo, foriero di conflitti futuri fra i due alleati di oggi. Intanto, già si levano le prime critiche interne allo Yemen. Localmente, gli EAU sono sempre più percepiti come una potenza colonizzatrice, dai metodi talvolta brutali e contrari al diritto umanitario. I suoi centri di detenzione nel sud del paese sono noti per le carcerazioni arbitrarie e le torture sistematiche, denunciate a più riprese dalle associazioni per i diritti umani
Sta di fatto che da quando gli EAU hanno occupato il sud del Paese e il Golfo di Aden e la baia di Assab è integrata al dispositivo bellico, la lotta contro le roccaforti yemenite di al-Qaeda ne è uscita galvanizzata, e anche la guerra contro gli Houthi ha imboccato una strada decisiva.
Operazioni aeree e navali
Gli EAU si sono serviti della pista di volo di Assab per schierarvi 5 Mirage 2000-9, tre Iomax AT-802 Archangel, almeno un drone di fabbricazione cinese Wing Loong e diversi elicotteri Chinook e Black Hawk.
La sinergia fra porto e aeroporto di Assab ha permesso di montare raid anfibi contro le isole del mar Rosso, in maniera più furtiva e più agevole. È stato un susseguirsi di colpi di mano, con un’importantissima operazione di sbarco sull’isola della Grande Hanish, contesa da anni fra lo Yemen e l’Eritrea.
L’area era finita in mano a ribelli e putschisti nel maggio 2015. Averla ripresa, ha garantito il potenziamento del blocco navale cui partecipano diversi assetti della coalizione, in primis una corvetta classe Baynunah emiratina, almeno una fregata ex Oliver Perry egiziana, e una nave cisterna saudita, la Yunbou.
Le distanze da controllare sono enormi, lungo i 1.906 chilometri di coste yemenite. Ma i frutti sono arrivati. Negli ultimi tre anni sono stati intercettati al largo dell’Oman almeno tre cargo carichi di mitragliatori, fucili d’assalto e armi di precisione AK-47, PKM ed SVD, missili anticarro e razzi a carica cava RPG-7 per gli Houthi, tutti di matrice iraniana.
L’aeronautica emiratina ha cominciato a servirsi anche dell’aeroporto internazionale dell’Asmara per supportare con il Close Air Support le avanzate in Yemen. L’offensiva sulla costa del mar Rosso è stata forse il miglior successo dell’operazione Restore Hope. Dei tre porti chiave di Aden, Mokha e Hodeida sfugge ormai solo l’ultimo, distante 200 chilometri dal primo.
Mokha è caduta il 23 gennaio 2017, mentre l’offensiva su Hodeida è ancora in atto, partita a maggio 2018 e subito interrotta per le pressioni della comunità internazionale. I raid aerei si sono fatti sporadici ed estemporanei, concepiti soprattutto in rappresaglia alle azioni mordi e fuggi degli Houthi, che sembrano disporre anche di droni armati a lungo raggio.
Che cosa dobbiamo aspettarci? Negli ultimi giorni, l’esercito yemenita ha fatto affluire rinforzi, segno che l’attacco potrebbe riprendere presto. I ribelli non hanno più il controllo dell’aeroporto cittadino almeno da giugno. Ma la vera partita si giocherà intorno al porto, ultimo accesso al mare degli Houthi. Le infrastrutture portuali di Hodeida hanno un’importanza cruciale. Passano da lì i quattro quinti dei beni di prima necessità per i 22 milioni di civili yemeniti ma purtroppo da Hodeida arriva anche il grosso dei rifornimenti agli Houthi, compresi i missili balistici e antinave di fattura iraniana.
Gli Emirati stanno manovrando molteplici leve diplomatiche per agevolare l’operazione militare. Se Washington ha rifiutato qualsiasi appoggio, Parigi si è detta favorevole. La Francia ha garantito aiuto tecnico per sminare il porto una volta conquistato dai 21.000 soldati coalizzati.
Sul piano militare si tratterà per Parigi di ingaggiare, verosimilmente a lungo, almeno due cacciamine, un BBPD (Bâtiments-Bases de Plongeurs Démineurs) e alcune vedette dei sommozzatori sminatori, appoggiate da mezzi da sbarco per le unità del 13° o del 31° reggimento del genio.
Una manovra che potrebbe richiedere l’impiego di una nave da comando e rifornimento BCR o addirittura di una nave anfibia BPC, se le banchine fossero inaccessibili. L’operazione richiederebbe l’impiego di una fregata di primo rango, una Fremm o una fregata da difesa aerea FDA, per intercettare eventuali lanci di missili antinave e balistici.
Le forze emiratine
Con le operazioni in Yemen, gli EAU hanno mostrato il volto migliore delle loro forze armate, riconfigurate a partire dalla fine della Prima Guerra del Golfo. La struttura di comando, a lungo suddivisa fra i vari emirati della Federazione, è ora unificata sotto il controllo di un quartier generale ad Abu Dhabi, pur essendoci un Consiglio di Difesa subordinato cui partecipano i vari emiri.
Il presidente Sheikh Khalifa bin Zayed Al Nahyan è il comandante delle forze armate, affiancato in seconda dal principe ereditario di Abu Dhabi, Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan. La carica di ministro della Difesa è invece occupata dall’attuale emiro di Dubai, Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, al contempo primo ministro e vicepresidente degli EAU.
Dal 1990, il nerbo delle funzioni politiche e istituzionali della difesa è tuttavia in mano al Principe ereditario, ex capo di stato maggiore formatosi all’accademia britannica di Sandhurst, che ha preso a investire seriamente nello strumento militare.
Nell’ultimo quinquennio, gli EAU hanno destinato alla difesa una media annua del 3,1% del PIL (oltre 9 miliardi di dollari), con l’obiettivo di raggiungere un minimo di indipendenza strategica e riuscire a fronteggiare gli esordi di un eventuale attacco armato, in attesa di rinforzi alleati. Acquisti di hi-tech bellico e partenariati con le principali potenze occidentali sono il leit motiv della politica di difesa emiratina. Cruciale è il rapporto con gli Stati Uniti, che considerano gli Emirati un key partner regionale.
Basti solo pensare alle tante infrastrutture di cui Washington ha beneficiato durante Iraqi Freedom, dai porti di Jebel Ali e al-Fujaïrah all’Air Warfare Center, il principale centro di formazione al combattimento aereo mediorientale.
Accanto all’asse preferenziale con gli Usa, il Governo emiratino ha ampliato il ventaglio delle alleanze alla Francia e al Regno Unito, ex potenza coloniale.
Parigi ha una base aerea permanente ad al-Dhafra, infrastrutture navali in acque profonde a Mina Zayed e le sue navi militari effettuano una trentina di scali l’anno nei porti emiratini. Di stanza alla Zayed military city, 65 chilometri da Abu Dhabi, gli uomini del 5° reggimento corazzieri dell’Armèe de Terre partecipano regolarmente a esercitazioni con le forze armate locali.
Tutti puntelli imprescindibili. La Federazione emiratina non ha profondità strategica. Si trova al centro di un sistema economico globale che soverchia le sue capacità gestionali e militari. Il concetto strategico del Paese è il riflesso della geopolitica meta-regionale.
Risente enormemente della percezione dell’Iran come una minaccia. Sebbene Teheran sia un grande partner commerciale e non meno di 500.000 iraniani vivano negli Emirati, molte sono le questioni in sospeso, soprattutto dopo l’occupazione nel 1971 e la successiva annessione nel 1992 da parte dei pasdaran delle tre isole contese di Abu Musa, Grande e Piccola Tumb, all’imbocco dello stretto di Hormuz, tanto desertiche, quanto strategicamente rilevanti.
Da questi avamposti è possibile minacciare le rotte commerciali e i flussi petroliferi in ingresso e in uscita dal Golfo.
Il contenzioso semi-latente con Teheran e la necessità di proteggere le risorse petrolifere off-shore, hanno indotto il governo emiratino a una politica di difesa tesa al rafforzamento delle proprie forze armate con particolare attenzione all’esercito e all’aeronautica, fra le più moderne ed equipaggiate dell’area.
Per quanto riguarda la Marina l’ampliamento recente è stato davvero impressionante, con l’immissione in servizio di almeno 9 navi da guerra, che stanno provocando non poche tensioni sulla scarsità di effettivi, comune a tutte le componenti di forza armata.
Le unità elementari emiratine non allineano spesso più del 50% degli effettivi teorici e le dichiarazioni sulla tecnologia come sostitutiva degli uomini non hanno retto alla prova dei fatti, soprattutto in alcune armi grandi consumatrici di effettivi, come la fanteria e il genio.
Lo strumento militare emiratino allinea oggi poco più di 65.500 uomini (e donne), su un bacino di reclutamento di 800.000 autoctoni. La Marina ha un effettivo di appena 2.000 unità, l’Aeronautica poco più del doppio (4.500) mentre l’Esercito conta 59.000 uomini.
Pochi effettivi e dai forti connotati tribali. Ecco perché, nel giugno 2014, è stato introdotto il servizio militare obbligatorio per tutti i giovani abili di età compresa fra i 18 e i 30 anni, variabile in durata a seconda del livello di scolarizzazione dei futuri coscritti, da 9 mesi per i diplomati fino a 2 anni e passa per i meno istruiti. Anche le donne potranno arruolarsi su base volontaria, per un servizio di 9 mesi, a prescindere dal grado di scolarità, ma dovranno essere autorizzate dai loro rappresentanti legali maschi.
L’avvio della coscrizione è vista dalla dirigenza emiratina come un atout chiave per cementare il sentimento di appartenenza nazionale, a prescindere dall’estrazione sociale e dalla provenienza dagli Emirati minori.
Molto si spera nello spirito di corpo anche se le forze armate federali non hanno ancora grandi tradizioni. La loro storia ha meno di quarant’anni. Parte nel 1976, ma si consolida solo vent’anni dopo, con la reale integrazione delle vecchie forze leggere dei 7 Emirati.
Nonostante tutto e diversamente dagli altri paesi del Golfo, Abu Dhabi è stata attivissima nelle operazioni oltremare dell’ultimo ventennio. Gli Emirati hanno partecipato al peacekeeping in Kosovo fra il luglio 1999 e l’ottobre 2001, integrando l’equivalente di un reggimento nella Brigata multinazionale nord sotto comando francese.
Un’esperienza ricca di insegnamenti, che ha contribuito non poco a forgiare la coesione delle forze terrestri emiratine e a svilupparne buone capacità operative a livello tattico.
Gli emiri stanno investendo notevolmente anche sulla formazione dei quadri, con stage all’estero sui materiali principali e la dottrina d’impiego. Gli istruttori della Scuola interforze di comando e Stato maggiore hanno tutti un background di scuola di guerra negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Italia, in Australia e in Pakistan, solo per citare alcuni dei paesi ospitanti.
Durante Enduring Freedom, gli emiri hanno spedito in Afghanistan un contingente di forze speciali dell’Union Defence Force, in particolare dell’UAE Special Operations Command, che conta poche centinaia di operatori altamente addestrati ed equipaggiati per le operazioni antiterrorismo.
I commando emiratini sono stati gli unici fra gli omologhi arabi a pianificare e condurre le proprie operazioni speciali contro i talebani-qaedisti. Poi è stata la volta delle operazioni marittime nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in seno alla Combined Task Force 152, comandata a rotazione dagli stessi Emirati.
Abu Dhabi ha voluto contribuire al regime change in Libia nel 2011, ai raid contro le milizie islamiste vicine ai Fratelli Musulmani e filo-tripoline nella guerra civile attuale, senza dimenticare le missioni contro lo Stato islamico in Siria-Iraq e contro gli Houthi in Yemen, tutti segnali dell’evoluzione delle capacità operative e di proiezione delle forze armate emiratine.
Progressi che sono accompagnati dall’adozione progressiva di un corpus dottrinale finalizzato all’impiego di pacchetti di forze in un quadro joint e combined.
Gli Stati maggiori prevedono di formalizzare a breve la creazione di un certo numero di Joint Task Forces di livello operativo che, partendo da un nucleo di Stato maggiore attivo fin dal tempo di pace e rinforzabile in caso di crisi, potrebbero inglobare componenti di terra, mare, aria e forze speciali a seconda delle missioni da compiere.
Le forze terrestri
A livello tattico, le forze terrestri sembrano attese da innovazioni radicali. Articolate su due brigate blindate e due meccanizzate, potrebbero esser riorganizzate in formazioni interarma sul modello dei Brigade Combat Teams dell’US Army.
Tutto ruoterebbe intorno a gruppi tattici interarma di livello reggimentale, imperniati su unità di fanteria, cavalleria e genio, e dotati di importanti mezzi organici soprattutto nel campo dell’intelligence, del supporto di fuoco e del sostegno logistico.
Il processo è iniziato anni fa ma non si è ancora concretizzato, per le resistenze dei quadri. Segnerebbe una vera e propria rivoluzione nel modus operandi, nella cultura e nella mentalità arabi.
Sarebbe il frutto di un lavoro silenzioso, operato dai consiglieri americani, sempre più numerosi a discapito degli ex ufficiali e sottufficiali britannici, reclutati un tempo per il loro savoir faire ed esperienza.
La ristrutturazione e la trasformazione dell’Esercito Emiratino si era già manifestata silenziosamente nella creazione di una guardia presidenziale, sorta di unità di pretoriani, della taglia di una brigata. La formazione raggruppa unità di forze speciali, fanti di marina, unità d’intelligence-ricognizione e formazioni della guardia dell’Emiro di Dubai. Simbolo dei nuovi legami con l’Australia, è comandata da un ex ufficiale generale australiano, Mike Hindmarsh, e conta nelle sue fila diversi ex commando SAS australiani.
La rivoluzione strutturale terrestre si sta accompagnando anche all’acquisizione di nuovi materiali, che affiancheranno mezzi più datati.
Se fra i carri da combattimento spiccano ancora 398 MBT Leclerc, i veicoli da combattimento per la fanteria sono 590 BMP-3 e 90 BTR-3U Guardian. La linea da trasporto truppe è invece un mix delle diverse varianti di ACV-350, mentre i veicoli da ricognizione sono 24 VBL e 32 Fuchs NBC.
Le artiglierie sono molto ben nutrite, visto che dispongono di decine di lanciarazzi multipli HIMARS da 227 mm, 48 FIROS 25 da 122 mm (metà dei quali in riserva) e 60 Astros II SS-40/30, cui si sommano le artiglierie semoventi, oggi su due linee di fuoco, in primis 78 G6 da 155 mm e 125 M-109A3 sempre da 155. L’esercito allinea anche centinaia di missili balistici a corto raggio, fra cui 302 ATACMS (molto più letali degli Scud) e 25 Hwasong-5 (Scud-B) in riserva.
Conclusioni
Gli EAU hanno realizzato in pochi anni uno sforzo dottrinario e organizzativo sorprendente. Equipaggiati con i migliori armamenti, possono considerarsi a giusto titolo uno dei migliori eserciti regionali, con buone capacità di operare oltreconfine per alcune componenti.
Hanno ottimi atout industriali, per gli standard dell’area, e il recente consolidamento del comparto potrebbe spingerli a percorrere la via di minori sprechi progettuali e di finanziamento. Mentre l’intervento saudita in Yemen è stato offuscato da molte ombre, le performance emiratine hanno attirato l’attenzione degli osservatori internazionali.
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Francesco PalmasVedi tutti gli articoli
Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.