Un caldo ottobre balcanico
Nel mese appena trascorso, mentre l’attenzione dell’Europa era in gran parte rivolta all’Italia e alla manovra economica del governo, nell’ex-Jugoslavia ci sono stati due eventi di grande importanza, ossia il discusso referendum sul nome della Macedonia e l’intensificarsi del dialogo fra Serbia e Kosovo riguardo il possibile scambio di territori per mettere fine alla crisi iniziata nel 1999.
La Macedonia del Nord
Il primo Ministro macedone Zoran Zaev e il suo omologo greco Alexis Tsipras hanno raggiunto uno storico accordo per mettere fine alla più che ventennale crisi diplomatica tra i due paesi e sbloccare l’iter per l’adesione di Skopje all’Unione Europea e alla NATO. Atene, infatti, si è impegnata a non esercitare più il proprio diritto di veto in cambio della promessa di Zaev di fare tutto il possibile per modificare il nome del paese in Macedonia del Nord, accontentando così almeno in parte i nazionalisti greci secondo cui l’unica “Macedonia” è quella ellenica.
La coronazione di questo progetto, almeno secondo i piani, avrebbe dovuto essere il referendum consultivo organizzato per il 30 settembre per ottenere il via libera dai macedoni alla modifica costituzionale necessaria ad adottare la nuova denominazione e permettere di avviare l’integrazione euro-atlantica del paese. Tuttavia, smentendo le previsioni della vigilia e la convinzione di praticamente tutti gli addetti ai lavori, il voto si è rivelato un colossale flop.
Gli elettori, infatti, sia perché sfiduciati nei confronti della politica locale, sia perché convinti che il boicottaggio promosso dalle opposizioni conservatrici fosse la soluzione migliore, hanno disertato in massa le urne, tanto che l’affluenza finale è stata del 36%.onostante la schiacciante vittoria del “sì” tra i votanti, comunque, alla luce dell’incredibile tasso di astensione nessuno credeva che il Governo avrebbe proseguito sulla propria strada e, anzi, era convinzione comune che l’unica soluzione possibile sarebbero state le elezioni anticipate, dato che difficilmente il Parlamento si sarebbe preso l’onere di ignorare la vittoria del boicottaggio del popolo e approvare ugualmente le modifiche costituzionali.
Considerazioni forse teoricamente plausibili ma che non hanno tenuto conto di un elemento fondamentale, ossia che Europa e USA non erano e non sono disposti a rinunciare ai propri progetti. Diversi funzionari UE e americani hanno iniziato a lodare l’esito del voto, dichiarando che non era possibile disattendere la volontà dei cittadini e che, pertanto, in ogni caso il paese avrebbe dovuto proseguire il proprio cammino euroatlantico.
E così è stato. Grazie ad un mix di bastone e carota (ma soprattutto del primo) Unione Europea e NATO sono riuscite ad aumentare la pressione sull’opposizione parlamentare, spingendo alcuni deputati sostenitori dell’astensione a cambiare “casacca” e appoggiare il governo quando questo ha chiesto all’Assemblea di approvare le norme necessarie a realizzare l’accordo raggiunto con Atene.
Alla luce di quanto sopra, è possibile ritenere che, salvo incidenti o scossoni interni, la Macedonia (del Nord) sia ormai saldamente instradata verso l’ingresso nella NATO e, con maggiore difficoltà, nella UE.
L’Unione Europea sconta il fatto di avere una politica scarsamente credibile verso i Balcani, dato che ormai il traguardo rappresentato dal riconoscimento dello status di membro viene spostato sempre più in avanti. La situazione resta comunque complicata, sia perché si è oggettivamente assistito ad una forzatura senza precedenti nella storia del paese, sia perché è possibile attendersi che la Russia risponda ai suoi rivali occidentali.
Mosca, infatti, si trova ora in una posizione di debolezza nell’ex-Jugoslavia, dato che può contare solo sulla Serbia (che però continua ad avere ottimi rapporti con la NATO e parte della UE) e sulla Republika Srpska di Bosnia (che può incidere sulle politiche di Sarajevo).
A tal proposito merita ricordare che anche diversi commentatori italiani, riprendendo le tesi dei grandi gruppi d’informazione anglo-sassone, hanno recentemente sovrastimato il peso russo, sostenendo in pratica che Putin sarebbe riuscito da solo a far fallire i progetti occidentali di espansione nell’area. Una considerazione che forse è stata prodromica a giustificare i metodi spicci voluti da Washington e Bruxelles per superare l’esito del referendum macedone.
Il Kosovo
L’ormai ex provincia serba rappresenta dal 1999 una fonte ininterrotta di instabilità per l’area e, soprattutto, uno dei terreni su cui si è maggiormente concentrata la contrapposizione tra il blocco euro-atlantico e la Russia (a cui si è aggiunta anche la Cina). Recentemente, la complicata situazione in cui versa Prishtina è tornata all’attenzione delle grandi potenze, in quanto il presidente kosovaro Hashim Thaci e il suo omologo serbo Aleksandar Vucic hanno deciso di intraprendere dei colloqui per normalizzare le relazioni tra i due paesi.
Consci entrambi che né il Kosovo né la Serbia stanno traendo vantaggio da questa situazione, infatti, i due capi di Stato hanno iniziato a discutere della possibilità di approvare uno scambio di territori su base etnica, cui seguirebbe anche il formale riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di Belgrado.
Quest’ultima infatti ha crescenti difficoltà nel difendere i propri connazionali residenti nell’ex provincia, soprattutto considerando che più di qualche attore internazionale vuole svincolarsi da UNMIK (l’amministrazione ONU del Kosovo) e da KFOR (la missione di peacekeeping della NATO che de facto protegge i serbi e i loro siti culturali e religiosi).
Come esaminato già in precedenza su Analisi Difesa l’accordo è estremamente difficile e potenzialmente pericoloso, ma forse è anche l’unica soluzione possibile per uscire dall’impasse. Sorprendentemente, però, alla fortissima contrarietà dei partiti che compongono il governo kosovaro e dell’opposizione serba, si è aggiunta quella di alcuni dei principali commentatori liberal di tematiche balcaniche.
Per molti, infatti, risulta inaccettabile che due Stati decidano di tracciare le proprie linee di confine tenendo in considerazione l’omogeneità etnica dei territori, considerando ciò come una prosecuzione delle politiche promosse negli anni ’90 da Tudjman, Izetbegovic e Milosevic.
Tuttavia, come ha scritto Daniel Vajdic sul Washington Post, i più favorevoli alla nascita di “Stati-Nazione” sono stati paradossalmente proprio i leader occidentali e alcuni grandi intellettuali progressisti.
Questi, infatti, dopo aver sostenuto lo smembramento della Jugoslavia negli anni ’90, nel 2006 hanno supportato il referendum sull’indipendenza del Montenegro mentre nel 2008 hanno appoggiato la dichiarazione unilaterale dell’indipendenza del Kosovo (che è avvenuta in palese violazione della risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza ONU).
Andando più nel dettaglio, luce verde alle trattative è arrivata dalla commissione UE, dalla Francia e, con maggiore discrezione, dagli USA, tutti convinti che solo un compromesso possa permettere di uscire onorevolmente da questa situazione che costituisce uno smacco anche per le cancellerie occidentali che nel 2008 credevano di aver chiuso la partita.
Diversamente, contrarietà è stata espressa dalla Germania e dalla Russia, due paesi che per motivi diversi non disdegnano lo status quo. La prossima fine dell’esperienza politica di Angela Merkel (molto rispettata da Vucic) potrebbe però modificare la posizione tedesca, mentre è probabile che Belgrado farà di tutto per spingere Putin a dare il proprio sostegno al progetto, allineandosi così a Pechino che parrebbe intenzionata ad aumentare la propria attività di sponsorizzazione della Serbia.
Più complicato, invece, è prevedere come si evolverà la situazione in Kosovo. Come anticipato sopra l’attuale presidente è relativamente isolato e si trova a dover affrontare l’aperta ostilità del Governo e di alcuni dei principali partiti politici.
Per i falchi Prishtina non deve fare alcuna rinuncia o concessione, ma limitarsi a rafforzare lo stato (rendendolo omogeneo al suo interno) e dotarsi quanto prima di un vero e proprio esercito, progetto che incontra l’ostilità totale dei rappresentanti delle minoranze.
Questa frattura interna costringe quindi Thaci a cercare all’estero il supporto necessario a portare avanti il proprio programma ed è pertanto importante seguire le mosse di Washington. Considerato il peso che gli USA hanno per il mondo albanofono un’eventuale discesa in campo di Trump a favore dell’accordo potrebbe rivelarsi ben più decisiva degli sforzi profusi dalla UE.
In conclusione, risulta evidente come i Balcani siano nuovamente un’area di interesse per alcuni dei principali attori internazionali. Sorprende, anche se fino ad un certo punto, l’immobilismo dell’Italia che, pur avendo storici legami con quelle zone, forti interessi in Serbia ed essendo militarmente impegnata in Kosovo, ha rinunciato a far sentire la propria voce.
Sfruttando le buone relazioni con Mosca e Washigton, Roma potrebbe proporsi come mediatore tra le diverse posizioni, ma soprattutto avrebbe la possibilità di limitare il rinnovato dinamismo di Macron (a breve atteso per un viaggio ufficiale a Belgrado) e l’influenza della Germania, in grado di bloccare da sola anche le iniziative della UE.
Foto: Reuters, RTK, profimedia.cz, Wikimedia e BBC
Luca SusicVedi tutti gli articoli
Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.