Tutti a casa dall’Afghanistan, ma c’è poco da festeggiare

da Il Messaggero del 29 gennaio (titolo originale “Un ritiro che vanifica 18 anni di guerra”)

Il ritiro italiano dall’Afghanistan nell’ambito del ripiegamento di tutte le forze Usa e alleate, è certo una buona notizia per l’Italia ma non è detto lo sia anche per l’Afghanistan.

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Al di là delle polemiche politiche interne circa l’annuncio ai media e non al Parlamento da parte del ministero della Difesa che il ritiro dei nostri 800 militari schierati a Herat e in minima parte a Kabul verrà completato entro un anno, è evidente che si tratta di un’iniziativa strettamente legata ai negoziati in atto tra Washington e i Talebani.

Negoziati che sembrano arrivati a una svolta come ha rivelato ieri l’inviato americano, Zalmay Khalilzad: i Talebani si impegnano a non ritrasformare il paese in una centrale terroristica internazionale (come quando ospitavano al-Qaeda e Osama bin Laden) e gli Stati Uniti accettano di ritirare i propri militari.

Donald Trump ha già disposto il dimezzamento dei 15 mila soldati statunitensi dislocati in Afghanistan che sarà abbinato alla riduzione e poi al rimpatrio anche degli 8.500 militari alleati.

Il Predator a Herat - Afghanistan (3)

Nessun partner Nato è in grado di gestire un impegno militare in Afghanistan senza gli Usa ma soprattutto quasi tutti gli alleati hanno interpretato i 17 anni di partecipazione al conflitto afghano come un “obolo” da pagare allo Ziio Sam.

Un alleato che ha gestito in modo incostante e ambiguo quella guerra attraverso tre amministrazioni. George W Bush scatenò dopo l’11 settembre 2001 l’offensiva che rovesciò il regime talebano ma poi rinunciò a stabilizzare il paese mentre l’Italia e altri alleati cominciarono a inviare truppe a Kabul all’inizio del 2002. Il contrattacco su vasta scala talebano nel 2006 obbligò a inviare rinforzi su rinforzi fino a giungere nel 2010, con Barack Obama alla Casa Bianca, a 140 mila soldati alleati (100 mila USA, oltre 4 mila gli italiani) che liberarono ampie regioni afghane.

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Invece di cogliere la vittoria finale Obama annunciò (per ragioni di consenso interno) invece che il ritiro delle truppe sarebbe iniziato l’anno successivo, galvanizzando i Talebani e vanificando gli sforzi e il sangue versato da-3.542 caduti alleati tra i quali 54 italiani.

Nell’ovest afghano e a Kabul il nostro contingente ha fatto la sua parte, anche in prima linea, uccidendo migliaia di talebani (dati ufficiali non ne sono mai stati resi noti in ossequio al principio delle “missioni di pace”) e riportando a casa quasi 700 tra feriti e mutilati.

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Dal 2014 le forze alleate, ridotte a circa 20 mila unità, si sono occupate solo di addestramento e consulenza alle deboli forze afghane col risultato che i talebani hanno riconquistato oltre la metà del territorio minacciando le principali città.

Dopo aver inviato controvoglia 3.500 rinforzi l’anno scorso, oggi Trump sembra puntare coi ritiri da Siria e Afghanistan a lasciare alle potenze regionali le “gatte da pelare” della destabilizzazione jihadista e pur di ritirare i suoi soldati è pronto a dare credito persino ai Talebani.

In attesa di dettagli circa il trattato negoziato da Khalizad sembra già ora limitativo l’impegno assunto dai talebani di non ospitare nuovamente al-Qaeda quando già oggi i jihadisti afghani sconfinano in Pakistan, Tagikistan e Turkmenistan preoccupando Cina e Russia.

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Inoltre nessuno sano di mente può credere che i Talebani non cercheranno di prendere il potere con le armi una volta completato il ritiro Usa e Nato, come fecero i mujhaiddin dopo il ritiro sovietico e i vietcong/nordvietnamiti dopo gli accordi di Parigi del gennaio 1973 e il completo ritiro americano dal Vietnam.

Non a caso il presidente afghano Ashraf Ghani, preoccupato di fare la fine del regime di Saigon nell’aprile 1975) lamenta che i talebani non vogliano avviare “colloqui seri” con il suo governo, ritenuto “fantoccio dei crociati”.

Il ritiro dei nostri ultimi 800 militari, dopo tanti anni e quasi 10 miliardi di euro spesi per la missione, è quindi una bella notizia (sempre che in un anno non vi siano ulteriori cambiamenti nell’imprevedibile scenario afghano) anche se forse non dovremmo esserne troppo fieri.

Considerata la tendenza degli Usa a tradire o abbandonare i propri alleati (anche i curdi in Iraq e Siria ne sanno qualcosa) il ritiro dall’Afghanistan nel 2020 avrà in ogni caso reso vani 18 anni di guerra e il prezzo dei voltafaccia dell’Occidente potrebbe venire pagato con un bagno di sangue a Kabul.

 

Foto Difesa.it e ISAF

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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