Perché la Francia resta un obiettivo prioritario del terrorismo islamico
Gilles Kepel politologo, orientalista e accademico francese (nella foto sotto), specializzato negli studi sul Medio Oriente contemporaneo e sulle comunità musulmane in Occidente, ha provato a rispondere a una domanda diffusa e frequente: perché la Francia continua ad essere l’obiettivo privilegiato del terrorismo islamico?
Dal 2004 gli attentati jihadisti hanno causato 280 morti e 952 feriti. Secondo Kepel il messaggio ideologico contenuto dell’islam, che impone la lotta contro i “miscredenti” e gli “apostati”, è talmente diffuso che l’Isis, o chi per esso, ha già vinto in partenza. Che venga combattuto o meno, “Non c’è più alcuna necessità di ordini o una logistica sofisticata”. Considerazioni, quelle dell’accademico francese, datate 2016, e che in qualche modo non sono mai state confutate dai fatti fino ad oggi.
Sempre più spesso gli attentati hanno avuto come protagonisti dei radicalizzati, dei lupi solitari, neofiti dell’islam, costringendo la Francia negli ultimi anni ad essere testimone della minaccia di un terrorismo “endogeno” a cui con difficoltà riesce a far fronte. I coltelli, le bombe costruite comprando materiale su internet, armi di piccole dimensioni sono stati gli strumenti di attentati jihadisti “fatti in casa” oltralpe.
E l’Isis non ha fatto che soffiare sotto un fuoco già appiccato e vivo nel Paese. Servendosi, per esempio, di internet e della propaganda costruita con lo streaming degli attentati o delle decapitazioni: qualcosa che nessuna organizzazione terroristica aveva ancora mai fatto.
E che, nell’ottica di un eterno tentativo di galvanizzare i propri adepti, rappresenta una delle ragioni per cui anche alcuni attentati cosiddetti minori, sono stati rivendicati dal sedicente stato islamico.
Come quando un uomo al grido di ‘Allah Akbar’ ha ucciso sua madre e sua sorella, in seguito ad un litigio familiare, e che dopo aver ferito un vicino e tentato di minacciare la polizia è stato ucciso. Era agosto 2018, a Trappes in una banlieu a ovest di Parigi. Qualche ora più tardi l’agenzia Amaq ne rivendicò la paternità.
Perché l’Isis ha creato una minaccia dai contorni vaghi e dal chiaro pericolo, ma lo Stato Islamico non è solo.
L’arresto del terrorista di al-Qaeda, Peter Cherif, a dicembre è la prova che, oltre al terrorismo “d’ispirazione”, le organizzazioni jihadiste sperano di trarre vantaggio da due fattori per finalizzare colpi diretti in un Paese che rimane uno dei loro obiettivi preferiti. Il primo è l’esistenza di un nucleo di jihadisti francesi esperti.
Alcuni sarebbero ancora all’estero, come Mohamed el-Ayouni, altri lasceranno la prigione nei prossimi mesi e anni e per tornare spesso più radicalizzati di come vi sono entrati, altri invece stanno facendo ritorno dalle terre in cui sono partiti per il jihad come “influenti veterani”.
Il secondo fattore è la dimensione a cui i terroristi attingono. Un terreno fertile che, ventiquattro anni dopo gli attacchi del 1995, ha raggiunto dimensioni senza precedenti. Quando nel luglio 1995, Khaled Kelkal, fece scoppiare un ordigno artigianale nella stazione della metro di Saint Michel, uccidendo otto persone, per la causa del Fronte Islamico di Salvezza, l’islam radicale aveva pochissimi sostenitori.
Dal 1° dicembre 2018, 20.560 persone sono state registrate nei report per la prevenzione della radicalizzazione del terrorismo, in 9762 sono stati oggetto di dossier che l’intelligence francese chiama «prise en compte» perché vengano monitorati a stretto giro.
La Francia assiste ad un radicalismo di massa che ha subito un brusco incremento con il sogno della “jihad siriana”, ma che non costituisce la minaccia più importante per il Paese e già nel 2013 gli specialisti dell’anti-terrorismo ritenevano che le forze dell’ordine non potessero rappresentare la risposta a tutto questo.
La possibilità di radicalizzarsi è offerta dagli imam importati e quelli che si crescono in casa da giovanissimi mandandoli però a studiare in Turchia, per esempio, e che magari non sono mai andati a combattere gl’infedeli con il kalashnikov.
Il terrorista del maggio 2018 nel quartiere dell’Opera di Parigi ha agito da solo. Il giovane, Khamzat A., cresciuto in una famiglia di rifugiati a Strasburgo, nel famoso quartiere di Elsau, dove vive una grande comunità cecena, era stato schedato dal 2016 come “S” dai servizi di intelligence francesi. “S” sta per ‘Sûreté de l’État’, individuo considerato pericoloso per la sicurezza dello Stato.
Uno che l’organo di propaganda Amaq ha salutato come un “soldato dello Stato islamico” e che ha firmato il settantanovesimo attentato terroristico in Francia dopo gli omicidi commessi a Tolosa da Mohamed Merah. Il che conferma quanto poco possano farci, entro certi limiti e competenze, le forze dell’ordine.
Negli ultimi dieci anni, la Francia è stato l’obiettivo numero uno, da quando al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM) fu la prima organizzazione al mondo ad aver proclamato la sua volontà di “depredare” la Repubblica francese. Perché?
Ad oggi nel Paese dovrebbero esserci circa 8,4 milioni di musulmani, secondo le stime del 2017 di François Héran, ex capo della Population Surveys Branch dell’INSEE e direttore dell’INED (Istituto nazionale francese per la ricerca demografica).
Di questi abbiamo già scritto in quanti sono schedati come radicalizzati e quanti sono seguiti da vicino dalla polizia. Occorrerebbero circa quattro agenti per sospetto al giorno per monitorarne le tracce: impossibile per un Paese come la Francia, che non dispone di tali forze e che non si sta attrezzando a riguardo.
Sarebbero circa 2000 i francesi che sono partiti per la jihad in Siria – è il Paese che ha fornito il maggior numero di combattenti stranieri e soprattutto di giovani -, di questi quasi 700 sono ancora sul posto o in fuga, circa 300 sarebbero morti e 244 sono stati arrestati al loro ritorno in Francia, ma di diverse centinaia di persone si sono perse le tracce. E i numeri vengono aggiornati molto di rado.
Motivo, ma non l’unico, per cui la Francia è in stato di allerta dagli attentati del 2015, come un territorio costantemente in guerra. E il problema è che questa guerra promette di essere paradossalmente più lunga di quella condotta in Siria e in Iraq. Solo poche settimane fa, è stato registrato l’ultimo attentato a Lione, fortunatamente senza morti.
Secondo gli analisti, il “nemico” è da tutte le parti in Francia perché non solo i radicalizzati sono un problema interno, ma perché la Francia si è schierata al fianco di Stati Uniti e Regno Unito in Siria e, con Sarkozy, è stata in Libia per rovesciare Gheddafi, attirando, pertanto sentimenti di vendetta. Questo punto di vista sposa la tesi secondo la quale l’intervento in questi paesi ha aperto la strada ai flussi di immigrati, di cui l’Isis si è servito per infiltrare i suoi combattenti verso l’Europa.
Le ragioni degli attacchi terroristici islamici in Francia sarebbero pertanto numerose per gli analisti. E includono, innanzitutto, la percezione negativa della Francia presso i musulmani.
Il coinvolgimento di Parigi nella coalizione militare a guida USA contro lo Stato Islamico, la facilità con cui gli estremisti e le armi automatiche possono attraversare i confini francesi; il numero di giovani musulmani nel Paese ispirati all’ideologia islamica e la difficoltà dei servizi di sicurezza francesi nel tenere testa alle circa 20.000 persone considerate pericolose costituiscono gli elementi principali della vulnerabilità francese.
La Francia non avrebbe neanche una buona tradizione circa il trattamento dei musulmani delle sue ex colonie. Più della metà dell’esercito di liberazione francese del 1943-44, che combatté in Italia e Francia, comprendeva soldati provenienti dall’Africa settentrionale e sub-sahariana, con 134.000 algerini, 73.000 marocchini, 26.000 tunisini e 92.000 uomini da altre colonie. Quando i loro paesi raggiunsero l’indipendenza dalla Francia, le loro pensioni francesi furono congelate.
I musulmani francesi sono stimati circa il 10% della popolazione totale (o da sei a sette milioni di persone), mentre la popolazione carceraria francese è per circa il 70% composta da musulmani. Uno studio della Stanford University del 2010 ha dimostrato che un cittadino francese cristiano ha due volte e mezzo più probabilità di ottenere un colloquio di lavoro rispetto a un candidato musulmano altrettanto qualificato. Secondo quanto riferito, la discriminazione sarebbe peggiorata dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015.
Lorenza FormicolaVedi tutti gli articoli
Giornalista nata a Napoli nel 1992, si occupa di politica estera, in particolare britannica, americana e francese ma è soprattutto analista del mondo arabo-islamico. Scrive per Formiche, La Nuova Bussola Quotidiana, il Giornale e One Peter Five.