Trump e gli alleati “usa e getta”
Trump ha dichiarato (per l’ennesima volta) che si ritira dalla Siria, lasciando così i curdi al loro destino. Il Sultano Erdogan si prepara a occupare lo spazio lasciato vuoto per ampliare il suo controllo territoriale sulla Siria, saldare i conti in sospeso con i curdi e distogliere l’opinione pubblica interna ed estera dalle recenti debacle elettorali subite. Poi, come di consueto, l’establishment (in questo caso il Pentagono), vista l’ondata di sdegno internazionale per il plateale “tradimento”, cerca di minimizzare, di mettere in contesto, di chiarire, eccetera.
Non interessa poi davvero se il ritiro sia parziale o totale. Se non è oggi, potrà essere domani, o tra un mese o tra un anno (così tardi?).
Lascia perplessi, invece, lo stupore internazionale al riguardo. Non credo vi possa essere ancora qualcuno che si aspetti che lo Zio Sam sia sempre pronto a versare sangue americano e impegnare le proprie risorse economiche per un’altruistica campagna in favore dei diritti dei popoli. Questa filosofia di stampo “wilsoniano”
(Thomas Woodrow Wilson ,28° presidente USA, perseguiva una politica estera che attribuiva agli USA la missione di portare democrazia e diritti umani nel mondo)., ammesso e non concesso che tale altruismo abbia mai veramente ispirato la politica estera di Washington, è stata sonoramente bocciata dall’elettore e soprattutto dal contribuente yankee.
Trump (così come Obama, prima di lui, e come si riprometteva di fare lo stesso Bush junior prima dell’11 settembre) vuole ridurre il coinvolgimento statunitense in tutte le crisi internazionali che non tocchino direttamente la sicurezza o gli interessi economici USA, non crede nello Zio Sam gendarme mondiale e quando deve esercitare forme di pressione predilige la guerra economica ai “boots on the ground”.
Inoltre, Trump percepisce come principale avversario strategico degli USA la Cina e non la Russia. L’intervento USA in Siria è un qualcosa che sembra non capire e si è sempre impegnato nel paese senza convinzione alcuna, più per contenere (almeno formalmente) il successo russo nella regione che per risolvere in un modo o nell’altro la crisi. Anche lo spettacolare, ma sostanzialmente incruento, raid con i Tomahawk dell’aprile 2018 rispondeva essenzialmente all’esigenza di dire al mondo e, soprattutto, ai propri alleati regionali (Israele, Arabia Saudita, ecc.): “non c’è solo la Russia, ci siamo ancora anche noi” , ma senza convinzione e senza alcuna volontà di impegnarsi veramente.
Se la situazione degenerasse ulteriormente nel Nord della Siria, in fondo sarebbe un problema essenzialmente per i principali attori internazionali veramente impegnati nel paese (Russia, Iran e Turchia).
Inoltre, sarebbe un problema per l’UE, in relazione al conseguente incremento di flusso migratorio di profughi e, soprattutto, ai rischi connessi con il rientro di migliaia di foreign fighters europei (e relativi famigliari) attualmente detenuti dai curdi. Quindi, per Trump, un ottimo risultato!
L’Iran è già stato pubblicamente e ripetutamente messo sotto accusa da parte di Trump (anche perché nemico dei principali alleati degli USA nella regione, ancora Israele e Arabia Saudita). La Russia resta sempre un competitor strategico che il Presidente percepisce certamente come meno pericoloso della Cina, ma è cosciente che per alcuni americani Mosca continui ad essere “il” nemico numero uno.
La Turchia da anni “fa le bizze”, facendo l’occhiolino sia a Mosca sia all’Islam “politico” e non è più l’alleato fedele e obbediente di una volta. La ricca e opulenta UE “deve essere punita” per il forte disavanzo commerciale nei confronti degli USA.
In estrema sintesi, Trump prende “quattro piccioni con una fava”.
Restano due punti in sospeso: il futuro della Siria e quello dei curdi. La Siria resterà nell’orbita d’influenza russa e iraniana e, ormai, gli USA non potrebbero farci più niente anche se lo volessero. Pertanto, inutile sprecarci risorse.
I curdi? Dubito che molti “blue collar” della “rust belt” (a cui Trump deve l’elezione) sappiano chi siano i curdi e in quale continente sia il Kurdistan. Quindi, perché preoccuparsene? “Hanno combattuto per noi? È vero” dice Trump “ma sono stati lautamente pagati! “
Ovvero, gli “alleati” percepiti come contractors cui delegare il lavoro cruento, pagarli e non averci più niente a ché fare.
Tutto prevedibile, in fondo. Resta, comunque, un altro problema, quello dell’affidabilità degli USA come alleati. Affidabilità in merito alla quale avevamo già espresso molte perplessità.
La questione risulta ancor più stridente se si guarda all’apparente affidabilità di Putin nei confronti dei propri alleati nella regione confermato dal supporto fornito costantemente ed apertamente, anche nei momenti più difficili, ad Assad.
In prospettiva, non giova all’immagine internazionale della superpotenza USA il fatto che nell’ultimo mezzo secolo abbia ripetutamente abbandonato, per opportunità di politica interna e senza particolari scrupoli, popolazioni che si erano affidate all’aiuto di Washington e dei suoi soldati.
Peraltro, la politica estera USA nell’epoca Trump non è nella sostanza dissimile da quella dei suoi due predecessori, anche se The Donald predilige stili apparentemente più aggressivi e strumenti essenzialmente di natura economica). Né possiamo ragionevolmente aspettarci che tale approccio cambi dopo Trump.
L’architettura costituzionale USA, con appuntamenti elettorali biennali (siano essi le elezioni presidenziali o quelle di mid-term) impongono alla leadership di pagare cedole continue agli “azionisti elettorali”.
Ciò, come può spiegare qualsiasi promotore finanziario, non consente di investire in “azioni redditizie” che richiedano orizzonti e obiettivi strategici di lungo respiro.
Investimenti che la Cina di Xi Jinping e la Russia di Putin mostrano di saper fare con lungimiranza. Inoltre, le leadership USA sono normalmente il frutto di un iter che privilegia la visione politica domestica anziché quella internazionale. Lasciando anche noi i curdi al loro triste destino, veniamo ora all’Italia.
Prendiamo atto del relativo disinteresse USA per il Medio Oriente e per il Nord Africa, della vacuità delle promesse di aiuto che ci sono state fatte finora in relazione alla crisi libica, del combinato disposto dell’attivismo cinese in tutta l’Africa, del ruolo sempre più marcato della Russia come potenza di riferimento credibile in varie crisi che travagliano il Mediterraneo Allargato e dei continui problemi che riscontriamo con vicini di casa francesi in relazione alle gestione delle crisi in Nord Africa.
In questa situazione, in cui le alleanze sono temporanee, contingenti e non matrimoni d‘amore destinati a durare una vita intera, è il caso che anche in Italia si incominci a guardare bene con “chi” allearsi di volta in volta per salvaguardare i “nostri” interessi. Sapendo che, con alcuni alleati, quando non serviamo più potremmo fare la fine dei kleenex.
Foto Reuters, AFOP, AP e Anadolu
Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli
Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.