Export di armi italiane: i sauditi sono più “cattivi” dei turchi?

Il dibattito circa le armi e gli equipaggiamenti made in Italy da negare ai “cattivi di turno” continua a vivacizzare il dibattito politico alimentato prima dalla guerra yemenita e negli ultimi giorni dall’intervento turco in Siria.

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Mentre da più parti si preme per cercare di dotare l’Italia di una normativa efficace per accordi di export gestiti direttamente dai governi (GtoG) in molti ambienti politici l’export della Difesa viene ancora analizzato in base a valutazioni più ideologiche e propagandistiche invece che in termini di penetrazione sui mercati e di opportunità politiche ed economiche.

La questione non investe solo l’export della Difesa, ancora guardato con sospetto se non con odio viscerale da troppe forze politiche e sociali che vantano un approccio “pacifista”, ma anche la capacità dell’Italia di valutare limiti e opportunità del proprio ruolo politico, economico e industrial-militare nelle diverse aree strategiche.

Analisi complesse certo, che richiedono competenze tecniche e visione politica, sostituite spesso con espressioni emotive o marcatamente ideologiche che minano la credibilità e l’efficacia della Nazione negli scenari internazionali e contribuiscono al declino della nostra industria della Difesa.

Vediamo un po’ di esempi sotto gli occhi di tutti. Sauditi ed emiratini sono cattivi perchè bombardano obiettivi civili nello Yemen mentre l’Egitto è molto cattivo a causa del caso Regeni e delle repressioni del dissenso anche se combatte duramente contro l’Isis in Sinai.

Il Qatar per molti è cattivo perché in diverse aree del mondo sostiene i movimenti legati ai Fratelli Musulmani, come fa la Turchia (ma entrambi in Libia sostengono il governo di Tripoli, appoggiato dall’Italia) che oggi appare cattivissima perché fa la guerra ai curdi, buoni per definizione soprattutto dopo che hanno combattuto con tenacia lo Stato Islamico.

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Sarebbe però necessario ricordare che i curdi in Iraq hanno approfittato negli anni scorsi della debolezza di Baghdad per cacciare arabi e turcomanni dalla città petrolifera di Kirkuk e che in Siria, grazie alla presenza militare statunitense che teneva al di là dell’Eufrate le forze di Damasco e o loro alleati russi, hanno assunto il controllo di vaste aree orientali che vanno ben al di là dei confini della regione curda (Rojava).

Certo il tema è delicato e in ogni guerra il tasso di moralità in guerra è sempre molto inferiore al tasso di mortalità ma sarebbe necessario cercare di affrontarlo tenendo conto di alcune valutazioni improntate al pragmatismo.

Innanzitutto già oggi la nostra industria della Difesa paga il conto di un costante impoverimento delle commesse del mercato nazionale, nell’ambito del quale la politica ha in molti casi privilegiato l’acquisto di prodotti stranieri invece di potenziare ricerca, sviluppo e produzioni nazionali o nell’ambito di consorzi europei.

Tagli ai bilanci, indecisioni prolungate all’eccesso e pretese politiche, evidenti oggi soprattutto nel M5S, di imporre conversioni al civile o al “dual use” all’industria compromettono il futuro dell’intero comparto., il cui peso è stato quantificato ieri dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, in 160 mila addetti (con l’indotto) e un fatturato di 14 miliardi di euro per il 70% generato dall’export.

In tale contesto l’export, soprattutto verso le aree di Medio ed Estremo Oriente (oggi le più ricche per le commesse militari) rappresenta una percentuale elevatissima delle commesse che permettono alla nostra industria di sopravvivere.

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A questo proposito non c’è dubbio che porre ostacoli politici a queste esportazioni, al di là delle motivazioni morali, significa minare le capacità della nostra industria e i suoi posti di lavoro, la penetrazione dell’Italia in determinate aree e la nostra credibilità come alleati di Stati che hanno rimpiazzato l’Europa nel presidio di aree strategiche indispensabili alla nostra economia. La sicurezza di Hormuz, Bab el Mandeeb, Suez, solo per citare punti nodali noti a tutti, è affidata soprattutto alle forze militari delle potenze regionali che li presidiano (solitamente) anche nell’interesse di un’Europa e di un’Italia sempre meno disposte a investire in presenza militare oltremare e, quando necessario, a combattere in prima linea.

In un’Europa ormai imbelle il caso italiano è emblematico: da anni le nostre forze armate non vengono più impiegate in operazioni di combattimento ma solo di addestramento come istruttori, consiglieri militari o peacekeepers.

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Facile quindi esprimere giudizi morali quando si lascia il “lavoro sporco” agli altri. In Iraq i nostri aerei da combattimento Tornado e AMX non hanno lanciato una sola bomba o un solo missile contro il Califfato, come in Afghanistan fino al 2012 quando, secondo la narrativa del Ministero della Difesa, gli AMX iniziarono a bombardare per lo più “le antenne radio” talebane.

Non siamo più disposti a pagare il prezzo politico, finanziario e sociale richiesto dalla guerra, che lasciamo combattere ad altri a cui poi ci riserviamo il diritto di fare la morale, ovviamente con pesi e misure diverse a seconda delle convenienze. Nei conflitti asimmetrici le formazioni di insorti si schierano sempre vicino a obiettivi civili con l’intento di indurre il nemico “simmetrico” a provocare danni collaterali che inevitabilmente vengono registrati in ogni conflitto.

Lo facevano i Vietcong in Vietnam e lo fanno i Talebani in Afghanistan, l’Isis in Iraq e Siria, Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano così come non fanno eccezione gli insorti sciti Houthi nello Yemen.

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Perché quindi bloccare per 18 mesi l’export di bombe d’aereo a sauditi ed emiratini che in Yemen combattono gli Houthi mentre manteniamo rapporti militari e industriali con statunitensi o israeliani che pure loro (come chiunque faccia la guerra) provocano “danni collaterali”?

Rischiamo di perdere posti di lavoro importanti in un’area depressa della Sardegna senza che questo sacrificio salvi una sola vita nello Yemen né determini cambiamenti (che l’Italia non ha peraltro indicato limitandosi al solito irrilevante appello alla pace) nella politica di Riad e Abu Dhabi, a dire il vero oggi rivali nel determinare il futuro assetto dello Yemen, anche se probabilmente a Roma se ne sono accorti in pochi.

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Italia ed Europa sembrano aver rimosso e semplificato a tal punto il concetto di guerra da dividere i contendenti in buoni e cattivi invece di valutare dove si collochino i nostri interessi.

Con un’analisi politica e strategica spesso superficiale, abbiamo attribuito il ruolo di buoni agli Houthi, le cui milizie hanno però lanciato contro obiettivi anche civili in territorio saudita quasi 500 attacchi con missili balistici e droni (254 missili e 233 attacchi di droni secondo fonti di Riad).

Ci conviene che lo Yemen e lo Stretto di Bab el Mandeb siano in mano a forze arabe filo-occidentali o a forze filo-iraniane? Quali dei due schieramenti offre maggiori garanzie di garantire la libertà di navigazione negli stretti?

La risposta a queste domande dovrebbe determinare il nostro schieramento e l’export militare, non certo la ricerca di buoni e cattivi in un conflitto in cui, come in tutte le guerre, nessuno fa sconti a combattenti e popolazioni.

In termini giuridici poi la coalizione della Lega Araba a guida saudita è intervenuta nello Yemen a difesa del governo di Mansur Hadi, legittimo e riconosciuto dalla comunità internazionale, dopo che i ribelli Houthi avevano espugnato Sana’a nel 2015.

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Che dire invece della Turchia, a cui nei fatti non applicheremo nessun concreto stop all’export militare né altre sanzioni diplomatiche o commerciali che attaccando i curdi ha compiuto un atto di aggressione (guerra) contro la nazione siriana?

Un atto che viola ogni norma internazionale e che per la Legge 185/90, che in Italia regola l’export militare, è da sola sufficiente a interrompere ogni tipo di fornitura incluse quelle attualmente in corso.

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Che dire poi degli eccidi e delle esecuzioni sommarie attuate con il placet di Ankara dalle milizie jihadiste (forze irregolari) assoldate da Ankara tra qaedisti, salafiti ed ex Isis?

“L’esercito turco e una coalizione di gruppi armati siriani sostenuta dalla Turchia hanno mostrato un vergognoso disprezzo per le vite civili compiendo gravi violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, tra cui esecuzioni sommarie e attacchi illegali che hanno causato la morte o il ferimento di civili nel corso dell’offensiva militare nel nordest della Siria” ha denunciato Amnesty International.

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Eppure, per condannare Ankara l’Europa e l’Italia si sono limitate a votare qualche mozione parlamentare come confermano gli esiti del summit Nato tenutisi il 24 e 25 ottobre a Bruxelles.

L’Italia ha annunciato il ritiro dei 130 militari e della batteria da difesa aerea SAMP/T schierata dal 2016 nel sud della Turchia (per difendere la Turchia da attacchi provenienti dalla Siria mai verificatisi) ma sia il ministro Lorenzo Guerini che il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg si sono affrettati a escludere che il ritiro costituisca una ritorsione nei confronti di Ankara o sia da mettere in relazione all’operazione turca “Fonte di pace”.

“Attuiamo quanto previsto” ha detto Guerini ricordando che il ritiro del contingente era già previsto per la fine dell’anno. Un approccio morbido della NATO all’aggressione turca e ai crimini di guerra perpetrati dalle milizie irregolari alleate di Ankara, che sono poi quei ribelli siriani pseudo “moderati” che anche Italia ed Europa hanno sostenuto per anni contro Bashar Assad, un altro “cattivo” che però oggi è l’unico, insieme ai russi, a muoversi concretamente (per interesse) a difesa dei curdi.

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Le motivazioni per cui archiviare tutte le valutazioni che moralmente ci avrebbero dovuto imporre di adottare severe misure contro Ankara sono state ben illustrate dal segretario alla Difesa statunitense Mark Esper, che ha parlato dell’obiettivo di “riportare la Turchia pienamente nell’orbita Occidentale, allontanandola dal campo di attrazione russo”.

Meglio aggiungere inoltre che l’Europa è piuttosto sensibile al ricatto turco che minaccia di inondarci con qualche altro milione di immigrati clandestini aprendo le sue frontiere occidentali.

A proposito di pesi e misure diversi, con quale credibilità morale poniamo sanzioni economiche (molto dannose per la nostra economia) a Iran e Russia ma non alla Turchia?

O agli Stati Uniti dopo che Washington ha mandato 500 militari in Siria a presidiare pozzi petroliferi per evitare che il governo di Damasco ne assuma legittimamente il controllo?  La questione è grave e rinnova la prolungata violazione del diritto internazionale attuata dalle forze americane, britanniche e francesi che in Siria costituiscono da anni una forza di occupazione, un atto di guerra.

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Abbiamo applicato sanzioni a Mosca per “l”occupazione della Crimea” con tanto di referendum ma non ci facciamo sfuggire neppure uno “yankees go home” di fronte al fatto che gli americani, con la scusa di combattere l’Isis, scorrazzano per la Siria in barba al diritto e minacciando azioni belliche devastanti a chiunque osi ostacolarli?

L’approccio morale ai conflitti e all’export di armi tanto caro al dibattito politico italiano rischia quindi di scivolare nel ridicolo: sanzioniamo Iran e Russia perchè ce lo chiedono gli Stati Uniti e rifiutiamo di vendere armi ai sauditi che operano nello Yemen in un quadro legittimo ma non muoviamo un dito per contrastare i turchi che entrano in Siria violando ogni convenzione. E tutto questo lo facciamo perchè ricattati con la minaccia migratoria o in base a valutazioni politico-strategiche che ci vengono suggerite dal più cinico dei nostri alleati, peraltro in testa alle classifiche mondiali quanto a danni collaterali e violazioni del diritto internazionale.

Molto meglio allora mettere da parte moralismi ideali e spesso ideologici cui non abbiamo neppure il coraggio e la forza di dare un seguito concreto, per affrontare la questione in termini pragmatici e incentrati sulla salvaguardia degli interessi nazionali. Come si conviene a una Nazione che siede tra le prime potenze mondiali.

@GianandreaGaian

Foto AFP, YPG, Nato, AP, Difesa.it, TAI e Ansa

 

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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