Haftar libera i pescatori ma mette in ginocchio il governo italiano

(aggiornato alle ore 23.30)

La liberazione degli equipaggi dei due pescherecci italiani da 108 giorni detenuti senza un’incriminazione a Bengasi dalle autorità che rispondono al feldmaresciallo Khalifa Haftar è una splendida notizia per i marittimi di Mazara del Vallo (8 italiani, 6 tunisini, 2 filippini e 2 senegalesi) e per i loro famigliari, provati da tre mesi e mezzo di angoscia.

Non può però venire considerata un successo diplomatico o politico non solo per i lunghi tempi che si sono rivelati necessari per giungere alla soluzione di questo sequestro ma anche per le umiliazioni subite e il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare, peraltro non ancora del tutto chiaro nella sua reale dimensione.

La passerella a Bengasi del premier Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio è stata fuori luogo e grave per almeno due ragioni. I due leader politici hanno cercato gloria e visibilità a ridosso del Natale e nel momento di massima difficoltà del governo ma non hanno nulla di cui vantarsi. In questa vicenda l’Italia è stata umiliata per oltre cento giorni nella sua ex colonia dove molti dei nostri interessi nazionali sono in ballo.

I turchi hanno ottenuto la liberazione di una loro nave catturata dalle motovedette di Haftar in soli sei giorni, semplicemente minacciando risposte muscolari se non vere e proprie rappresaglie ma né Recep Tayyp Erdogan né il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, hanno raggiunto Bengasi per omaggiare il generale.

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La seconda ragione è legata proprio alla rilegittimazione di Haftar che dall’incontro con Conte e Di Maio esce rafforzato sullo scenario interno e internazionale, tornando a mostrarsi come protagonista indiscusso della crisi libica e delle sue possibili soluzioni. Un ruolo da cui era stato negli ultimi mesi tagliato fuori dopo la sconfitta militare subita in Tripolitania e dopo l’ascesa del presidente del parlamento di Tobruk, Agila Saleh, a figura politica di spicco della Cirenaica.

Inoltre Haftar ha visto ampiamente riconoscimento il suo ruolo di leadership dall’ex potenza coloniale: simbolismi che da quelle parti hanno un forte significato.

Non si può escludere che proprio Haftar abbia preteso e ottenuto la visita delle massime autorità italiane e del resto i media della Cirenaica hanno dato ovviamente ampio risalto alla visita di Conte e Di Maio (di cui, alle 19, non v’è invece notizia sui siti del Governo italiano) ma non c’è dubbio che vedere i vertici del nostro esecutivo stringere la mano all’uomo che ha detenuto arbitrariamente navi ed equipaggi italiani costituisce una ulteriore umiliazione di cui è lecito chiedersi se Conte e Di Maio, colpiti dalla “sindrome del Grande Fratello” ” (come scrive Carlo Panella in un commento sul giornale on line Linkiesta), siano realmente consapevoli.

Un ambito in cui si è inserito il portavoce del premier, Rocco Casalino, il quale (come racconta oggi Il Foglio) ha tenuto a far sapere, ai giornalisti che chiedevano informazioni, la sua “geolocalizzazione” in una base aerea vicino a Bengasi. Un gesto di scarsa prudenza in termini di sicurezza delle istituzioni, specie in un paese turbolento come la Libia.

Inutile negarlo, l’immagine e la credibilità dell’Italia escono a pezzi da questa vicenda. Probabilmente avremmo potuto riportare a casa i nostri connazionali mostrando (anche militarmente) gli attributi della prima potenza economica e militare del Mediterraneo invece che calando le braghe con premier e ministro degli Esteri ai piedi del feldmaresciallo.

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Come abbiamo scritto in più occasioni, tra le carte che Roma poteva giocare vi era anche la non esclusione di opzioni militari o dichiarare (come ha fatto la Turchia nel caso analogo) che chi tocca gli interessi e i cittadini italiani diventa automaticamente un bersaglio legittimo. Assumere tali iniziative significa salvaguardare la dignità nazionale, patrimonio che dovrebbe avere una certa rilevanza per l’ottava potenza economica mondiale. Persino un uomo che non può certo venire considerato un guerrafondaio come il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero, ha evocato il ricorso alla deterrenza militare affinché non si ripetano nuovi sequestri di pescherecci.

“Quanto meno portate le nostre navi della Marina Militare al limite delle acque territoriali libiche e fate sorvolare dai nostri aerei la zona per dare il segnale che ci siamo e che non siamo disposti ad accettare ancora lungo questi diktat del governo di Bengasi” ha affermato l’alto prelato rivolgendosi al governo.

Anche rinunciando a ogni forma di pressione muscolare avremmo quanto meno potuto evitare la “processione” governativa da Haftar lasciando che a gestire il ritorno a casa dei nostri connazionali provvedessero i servizi d’intelligence che non devono certo dimostrare le loro capacità, ben note a tutti, ma che costituiscono uno strumento della politica estera, non un’alternativa ad averne una.

Del resto un ruolo rilevante nella liberazione dei marittimi italiani lo ha ricoperto il vice presidente del governo di Tripoli (GNA), Ahmed Maitig, che pur appartenendo allo schieramento opposto ad Haftar gode di ampia stima in Cirenaica. Protagonista indiscusso dei recenti negoziati per la stabilizzazione, Maitig concluse l’accordo, firmato a Soci (Russia) con uno dei figli di Haftar, che ha permesso la riapertura dei pozzi e dell’export petrolifero in tutta la Libia consentendo di dare ossigeno all’economia della ex colonia italiana.

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La conclusione della vicenda degli ostaggi di Bengasi è quindi una buona notizia per i 18 prigionieri ma una disfatta per l’Italia che potrebbe aggravarsi ulteriormente quando sarà più evidente il prezzo che Roma ha dovuto pagare ad Haftar, il cui Quartier Generale ha elogiato il ruolo del governo italiano nel sostenere la risoluzione della crisi libica senza fare menzione della liberazione dei pescatori italiani.

Difficile quindi dire se il feldmaresciallo si sia accontentato di trovarsi di fronte Conte e Di Maio col “cappello in mano”, elemento che ha certo rafforzato l’immagine di Haftar anche presso le tribù che lo sostengono, tra cui vi sono i clan di appartenenza dei quattro “calciatori” in carcere in Italia con pesanti condanne per aver gestito il traffico di esseri umani e provocato la morte di molti migranti.

Haftar ha chiesto la loro liberazione in cambio del rilascio dei pescatori ma è evidente che cedere a questo ricatto significa ridicolizzare la Giustizia e potenzialmente doversi preparare anche ad accettarne di simili da Stati “canaglia”, leader tribali e “feldmarescialli” d’Africa trasformando in preda preziosa ogni italiano che per lavoro o altre ragioni entri o si avvicini ad alcuni Stati instabili o governati da despoti o farabutti.

Fonti libiche vicine ad Haftar hanno riferito all’agenzia di stampa Nova che nei colloqui di oggi il generale libico ha personalmente chiesto l’intervento di Conte per i quattro cittadini libici condannati in appello in Italia per traffico di esseri umani e in attesa di una sentenza definitiva della Corte di cassazione. Il premier Conte, secondo le fonti di “Nova”, ha risposto che il potere esecutivo e quello giudiziario in Italia “sono separati” e che la magistratura “è indipendente”, pur impegnandosi a seguire gli sviluppi del caso e auspicando una “soluzione adeguata” della vicenda.

Secondo le stesse fonti libiche (nulla è trapelato da fonti italiane circa i colloqui di Bengasi)  il presidente del Consiglio ha “promesso” di impegnarsi in prima istanza per evitare che possano ripetersi in futuro incidenti come quello dei 18 pescatori di Mazara del Vallo. Il premier italiano ha inoltre assicurato misure per “rafforzare la fiducia tra le parti”, a partire dalla “riapertura del consolato italiano a Bengasi e dall’agevolazione delle procedure di visto per fini sanitari e di studio in Italia”. Da parte sua, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha promesso di “sostenere i progetti di ricostruzione nella Libia orientale, in particolare la strada costiera tra Tripoli e Bengasi”.

@GianandreaGaian 

Foto e video LNA

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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