Rischi e conseguenze dopo il ”Maidan americano” a Capitol Hill
Donald Trump lascia la Casa Bianca, sconfitto ma non domato e convinto, con molti suoi sostenitori, di avere subito una frode elettorale senza precedenti. Che sia vero o meno poco importa perché questo aspetto contribuirà probabilmente ad allargare la spaccatura nella società statunitense la cui fragilità è già emersa palesemente con i lunghi mesi di insurrezioni urbane che hanno visto protagonisti i movimenti AntiFa e Black Lives Matter.
Che Trump sia ancora politicamente temibile, dopo aver incassato 75 milioni di voti, è evidente dal tentativo di impeachment con cui il Partito Democratico con una parte dei Repubblicani vorrebbe toglierlo definitivamente di mezzo, dopo i fatti di Capitol Hill, impedendone una futura ricandidatura. Un impeachment che era stato invano ventilato per quattro anni in base alla mai dimostrata connection con la Russia di Vladimir Putin.
Difficile che Trump possa ottenere riconoscimenti come il Nobel per la Pace (che fu attribuito a Barack Obama che di guerre ne ha scatenato un bel numero dalla Libia all’Ucraina alla Siria) benchè la sua amministrazione non abbia scatenato guerre, abbia stipulato un accordo di pace coi talebani, ridotto le tensioni con la Corea del Nord e soprattutto indotto molti stati arabi a instaurare strette relazioni con Israele.
La tempesta mediatica ha travolto Trump e i suoi sostenitori anche se l’assalto al Congresso non convince e pare un pretesto ben organizzato per liquidare l’ormai ex presidente.
D’istinto verrebbe da dire che “chi di maidan ferisce di maidan perisce” ricordando la “rivoluzione” sceneggiata nella piazza del parlamento di Kiev nel febbraio 2014 che sotto la regia degli Usa (con l’aiuto di qualche alleato europeo) permise di rovesciare il governo ucraino legittimo portando al potere un’alleanza di forze politiche in parte ben poco presentabili in termini di garanzie democratiche ma di sicura fede anti-russa.
Per conformismo culturale e convenienza politica non si sono mai voluti approfondire molti aspetti imbarazzanti di quella “rivoluzione”: basti pensare, solo per restare in Italia, che nel 2017 non ebbe l’eco che avrebbe meritato il reportage esclusivo di Gian Micalessin per “Terra” (Canale 5 Mediaset) in cui venivano intervistati i cecchini georgiani assoldati per sparare sulla folla in quella piazza, sia ai poliziotti sia ai manifestanti.
Anche nel “maidan di Washington” del 6 gennaio scorso non mancano gli aspetti sconcertanti, anche se a Capitol Hill l’obiettivo non era rovesciare un governo straniero ma screditare fino all’impeachment il presidente americano uscente per toglierlo di mezzo definitivamente dall’agone politico.
C’è da restare basiti nel notare come media, opinionisti e politici di mezzo mondo abbiano nutrito la narrativa che vuole i fans di Trump “golpisti” pronti ad espugnare i palazzi del potere rovesciando la democrazia americana.
Eppure molti elementi dovrebbero indurci, al di là delle opinioni politiche (peraltro sempre più polarizzate), a guardare con scetticismo e diffidenza a quella narrativa: dall’aspetto dei “golpisti” alla facilità con cui i manifestanti sono potuti entrare in un Campidoglio di fatto lasciato inspiegabilmente sguarnito nonostante fosse noto da una settimana che si sarebbe tenuta una manifestazione dei fans di Trump che lo stesso presidente aveva invitato a marciare pacificamente.
E’ necessario infatti specificare che Trump aveva chiamato a raccolta i suoi sostenitori ma non li aveva certo esortati ad attaccare la polizia e a occupare con la violenza le sedi istituzionali. Anzi, proprio il presidente si era più volte schierato al fianco degli agenti di polizia anche in occasione delle recenti violenze a sfondo pseudo razziale.
Difficile affermare che nessuno si aspettasse disordini soprattutto dopo sei mesi di violenze urbane diffuse in molte città degli USA e scatenate dagli oppositori di Trump che hanno devastato interi quartieri, saccheggiato negozi, abbattuto statue costringendo molti cittadini a barricare case e negozi.
Sarebbe bastato un robusto reparto di agenti in assetto antisommossa a scoraggiare una folla in cui non mancavano forse gli esagitati, inclusi cow boy 60enni e sciamani cornuti, dal penetrare nel Campidoglio dove invece sono entrati, anche in modo un po’ folcloristico in assoluta libertà tra foto, video e selfie.
L’inadeguatezza dell’apparato di sicurezza è evidenziata molto bene anche dalle cause che hanno provocato le 5 vittime registrate il 6 gennaio. L’agente di polizia, il 40enne Brian D. Sicknick è morto in seguito a un collasso dopo “essersi scontrato fisicamente” con i riottosi. Dei quattro sostenitori di Trump solo Ahsli Babbit, 35 anni, è stata colpita da proiettile esploso da un poliziotto, Benjamin “Ben” Phillips, 50 anni, è deceduto per un ictus, Kevin Greeson, 55 anni, è morto di infarto durante l’irruzione e Rosanne Boyland, 34 anni, è morta schiacciata dalla folla.
Destini tragici ma che dimostrano chiaramente che non era in azione un “commando di golpisti”, tra i quali non vengono solitamente arruolati ipertesi e cardiopatici: tutte vittime che con una minima cornice di sicurezza (anche un semplice servizio d’ordine da manifestazione sindacale) si sarebbero potute facilmente evitare.
Anche perchè la vicenda, se si esclude la tragicità dei morti, sembra davvero una grottesca farsa. Basti pensare che due agenti della Polizia del Campidoglio sono stati sospesi, uno perchè ha fatto il selfie con un manifestante e un altro colpevole di aver indossato un cappellino con lo slogan di Trump ‘Make America Great Again’.
Facile quindi sostenere che se adeguate e motivate forze di sicurezza fossero state presenti il tentato “golpe” dei fans di Trump non ci sarebbe stato. Il fatto che tali forze di polizia non fossero schierate non è detto sia dovuto a disattenzione, specie negli States dove la polizia è pesantemente armata e ha ereditato un gran numero di mezzi armi e militari blindati dismessi dalle forze armate.
Impossibile credere che a Washington DC non vi fossero rinforzi di polizia mobilitabili in tempi brevi e neppure uno SWAT Team da mettere in campo almeno per esprimere un po’ di deterrenza.
Tempestiva invece la macchina politico-mediatica che ha subito evocato minacce eversive e attacchi alla democrazia. Immediata la rimozione del comandante della “Capitol Police”, Steven Sund, rimpiazzato da uno dei vice, Yogananda Pittman, che ha subito riscosso ampi consensi per il fatto di essere nera e donna (anzi, Nera e Donna, come scrivono i giornali statunitensi ormai appecoronati, anche a sprezzo del ridicolo, alla dittatura del politicamente corretto) preferita a un collega con maggiore anzianità di servizio.
Che dire poi delle immagini ampiamente diffuse dei militari della Guardia Nazionale accampati nelle sale del Congresso? Un palese tentativo di drammatizzare un pericolo incombente per la democrazia che è finito però per scivolare irrimediabilmente nel grottesco: utilizzare i militari per presidiare gli accessi al Campidoglio parrebbe già eccessivo considerando le forze di polizia disponibili ma farli bivaccare all’interno del parlamento non avrebbe avuto senso forse neppure nel 1814, quando i soldati britannici occuparono Washington bruciando il Campidoglio.
Possibile che nella capitale non vi fosse una caserma dove ospitare i militari tra un turno di guardia e l’altro a Capitol Hill?
Trump è stato travolto dall’ondata di indignazione mediaticamente canalizzata e probabilmente predisposta con ampio anticipo al punto che dopo poche ore Wikipedia ha pubblicato una pagina con le reazioni di oltre un centinaio di leader politici di tutto il mondo che stigmatizzavano l’accaduto.
Trump paga il prezzo dell’ingenuità commessa chiamando i suoi supporter a manifestare ed esponendosi così a quella che appare come una “trappola” ben organizzata con l’obiettivo di liquidarlo una volta per tutte dalla scena politica.
Non sarà certo la sceneggiata del “maidan americano” a dimostrare che la democrazia d’oltreoceano è in pericolo. Semmai tale minaccia rischia di risultare credibile per ben altre ragioni.
Gli Stati Uniti escono drammaticamente spaccati a livello politico e sociale da queste elezioni presidenziali: una frattura che diventerà più profonda se l’improvvisato e folkloristico “attacco” a Capitol Hill diverrà il pretesto per rendere accettabile (per molti addirittura auspicabile) una vera e propria campagna di repressione del “trumpismo” e dei valori patriottici, conservatori (oggi definiti “sovranisti”) in cui si riconoscono in tanti negli Usa e altrove.
Banalizzare le ragioni dell’elettorato di Trump definendolo suprematista, razzista ed eversivo proprio al termine di un processo elettorale in cui sono stati i movimenti ultra-progressisti e anti-Trump a mettere a ferro e fuoco intere città contribuirà ad allargare tale spaccatura.
Un risultato a cui contribuiranno anche le politiche migratorie della nuova amministrazione annunciate dal vicepresidente Kamala Harris che mirano a garantire la “green card” a 11 milioni di immigrati clandestini avviando una procedura rapida per dare loro la cittadinanza in soli 8 anni invece di 13 mentre si valuta anche l’abolizione delle restrizioni all’immigrazione dai paesi islamici.
Elementi che ingigantiranno i flussi illegali verso gli USA nel nome dell’ossessione Dem di “cancellare Trump” (ogni similitudine col cointesto italiano potrebbe non essere casuale).
L’America che il ticket Biden-Harris configurano sarà quindi ancora più multietnica, aperta a stranieri e musulmani non autoctoni (oggi gli islamici negli USA sono per lo più afroamericani), riducendo ulteriormente il peso sociale ed elettorale dei bianchi di ceppo europeo che costituiscono la fetta maggiore dell’elettorato di Trump che incassa però preferenze rilevanti anche tra neri e ispanici.
Inoltre non si può non notare che Joe Biden, già ampiamente considerato da molti un opaco vice di Obama (ricordate cosa pensava di lui il generale Stanley McChrystal, che però recentemente ha dichiarato di sostenerlo?), assume l’incarico evidenziando una palese senilità che mal si attaglia alla necessità, imperativa per tutto l’Occidente, che gli USA abbiano una guida lucida ed energica.
Una sorta di “pulizia etnica” nei confronti degli sconfitti è peraltro scattata immediatamente dopo i fatti di Capitol Hill, con la complicità di tanti media e intellettuali.
L’oscuramento degli account del Presidente Trump da parte di Facebook e Twitter che già lo avevano censurato durante la campagna elettorale, sembra poter rovesciare il vecchio adagio che definiva il Presidente degli Stati Uniti “l’uomo più potente del mondo”.
Twitter ha rimosso anche più di 70mila account accusati di aver condiviso contenuti relativi alla teoria cospirativa “QAnon”, che teorizza la presenza di una cupola di pedofili alla guida degli Stati Uniti e delle istituzioni globali, e promuove un “grande risveglio” delle masse. Tesi forse bizzarra ma che non sembra in testa alle minacce alla sicurezza globale e degli USA tenuto conto che sui social abbondano account persino di fans del terrorismo islamico e i trafficanti di immigrati illegali vi promuovono i propri servizi ai “clienti”.
L’ormai ex segretario di Stato, Mike Pompeo, ha colto la pericolosità di un simile gesto per la democrazia statunitense e ha dichiarato che “non possiamo permettere loro di mettere a tacere 75 milioni di americani, questo non è il Partito Comunista Cinese”.
In Italia il presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio ha detto che “la censura è la negazione della democrazia. E’ pensabile che degli strumenti come i social siano gestiti arbitrariamente da privati cittadini? Trovo intollerabile che in una situazione di monopolio planetario un soggetto privato possa intervenire a giudicare e censurare”.
Sono questi i temi su cui dovremmo forse interrogarci circa il futuro della democrazia negli USA e nel resto dell’Occidente. Da Facebook a BlackRock, numerose grandi società americane hanno bloccato le donazioni a politici repubblicani, American Express, la catena di alberghi Marriott, il colosso delle assicurazioni sanitarie Blue Cross Blue Shield Association, Dow e Commerce Bank hanno bloccato le donazioni ai parlamentari che hanno votato contro la certificazione della vittoria di Biden.
Rudi Giuliani, sindaco eroe dell’11 settembre 2001 a New York e avvocato di Trump, rischia oggi l’espulsione dall’ordine degli avvocati per le sue dichiarazioni, cioè per un reato d’opinione. Paradossale che il mondo politico, mediatico e culturale “progressista” così impegnato a rieducarci tutti alla valorizzazione delle diversità (di razza, cultura, sesso, ecc….) si mostri così intollerante nei confronti della diversità delle idee.
Serie riflessioni sul tracollo che subirebbe in tutto il mondo l’autorevolezza e la credibilità di un’America a democrazia limitata appaiono oggi urgenti, prima che le strade delle città americane assomiglino a quelle di Hong Kong.
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.