Il ritiro di USA e NATO dall’Afghanistan è il trionfo dei jihadisti
Gli Stati Uniti hanno preso la decisione definitiva di rimpatriare le residue truppe presenti in Afghanistan. Il presidente Joe Biden ha annunciato infatti un ritiro di tutte le truppe entro l’11 settembre di quest’anno, con un posticipo di oltre 4 mesi rispetto alla data del 1° maggio stabilita negli accordi stipulati a Doha (Qatar) con i Talebani nel febbraio 2020.
“Prima del 1° maggio, inizieremo un ritiro ordinato e abbiamo in programma di ritirare tutte truppe prima del 20° anniversario dell’11 settembre 2001”, aveva spiegato un alto funzionario americano, aggiungendo che Biden non imporrà condizioni ai talebani o al governo afghano per completare il ritiro. Attualmente ci sono circa 3.500 soldati statunitensi in Afghanistan: 2.500 assegnati all’Operazione NATO Resolute Support, di cui fanno parte anche 7mila militari di 36 stati della Coalizione (tra i quali 750 britannici, 860 georgiani, 890 italiani, e 1.300 tedeschi), che addestra e supporta le truppe di Kabul.
Un migliaio di soldati del Comando forze speciali conduce invece operazioni contro milizie jihadiste nell’ambito dell’operazione Freedom Sentinel, erede di Enduring Freedom varata da George W. Bush.
La sconfitta mascherata
Dalla Casa Bianca al Pentagono, dalla NATO alle cancellerie europee si è sprecato un fiume di parole per mascherare la sconfitta o attribuire una qualche dignità al ritiro delle truppe alleate dall’Afghanistan annunciato dal presidente Biden.
Del resto l’accordo firmato in Qatar dall’amministrazione Trump e dai talebani aveva l’obiettivo di offrire a Washington l’alibi per il ritiro, non certo di conseguire la stabilità dell’Afghanistan con improbabili intese tra governo e insorti jihadisti.
A dispetto della situazione sul terreno Biden, ha affermato che ordinare il ritiro “non è stata una decisione difficile, era assolutamente chiara” sostenendo gli Usa hanno raggiunto il loro obiettivo in Afghanistan 10 anni fa con l’uccisione di Osama bin Laden.
Il presidente forse dimentica che il leader di al-Qaeda venne eliminato in Pakistan, nazione che ha sempre sostenuto l’insurrezione talebana e a cui Biden oggi chiede, paradossalmente, di ”fare di più per sostenere l’Afghanistan”.
Tra beffa e tragica ironia anche il segretario di Stato, Antony Bllinken ha detto che “abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati e ora è il momento di portare a casa le nostre forze“ aggiungendo che con la NATO gli USA continueranno a operare per la sicurezza dell’Afghanistan.
In realtà è quanto meno paradossale che a Washington si affermi che sono stati raggiunti gli obiettivi prefissati dal momento che i talebani hanno cessato di attaccare le truppe alleate ma hanno incrementato gli attacchi ai militari afghani e ai rappresentanti civili del governo di Kabul. Gli insorti hanno raggiunto in accordo con gli USA (ritiro truppe straniere in cambio di stop all’asilo ai qaedisti) ma non col governo afghano che la coalizione avrebbe dovuto proteggere e tutelare.
Il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, ha commentato che le forze armate statunitensi “hanno compiuto la loro missione e possono essere orgogliose di quello che hanno fatto” perché “hanno reso possibile che si ottenessero dei progressi economici e politici” nel Paese.
Ma la missione sensata per ogni soldato è la vittoria o quanto meno scongiurare la sconfitta mentre i progressi conseguiti in Afghanistan negli anni scorsi sono già in parte stati compromessi e verranno del tutto vanificati entro breve, trasformando in perdite inutili i caduti e i feriti sofferti dalla Coalizione.
Il ritiro degli americani non lascia alternative agli alleati NATO che non sembrano certo disposti a restare da soli a Kabul (forse non ne avrebbero neppure i mezzi) e dintorni e che nell’annunciare il ritiro rilasciano affermazioni quasi farsesche.
Se per il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio si tratta di una decisione epocale (forse una “sconfitta epocale”), per il segretario della NATO Lens Stoltenberg l’importante è muoversi al fianco degli USA.
“Siamo entrati in Afghanistan insieme, abbiamo lavorato insieme e siamo uniti nel lasciare il paese insieme” ha detto fingendo di ignorare che nel 2001 furono gli anglo-americani a far cadere il regime talebano (la NATO intervenne più tardi quando sembrava non vi fossero più scontri bellici) e che la fuga degli alleati offre su un piatto d’argento al mondo jihadista la più grande delle vittorie, che potrebbe aprire la strada a nuovi attacchi e sfide a un Occidente considerato imbelle.
La nuova data in cui cesserà l’impegno militare statunitense a Kabul ha ovviamente un valore simbolico poiché coinciderà con il ventesimo anniversario degli attentati alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001 che determinarono l’attacco all’Afghanistan.
Con amara ironia, da oggi indicherà la doppia sconfitta di USA e Occidente nella lotta contro l’insurrezione e il terrorismo islamic . Più che alle ricorrenze, la Casa Bianca dovrebbe preoccuparsi dell’impatto di questa decisione sul governo e sui militari afghani, che hanno scarse possibilità di resistere agli attacchi talebani senza la presenza delle forze alleate.
Le reazioni
L’annuncio del ritiro dal più lungo conflitto della storia americana ha provocato critiche bipartisan dal Congresso che già si erano registrate quando venne reso noto il piano di Donald Trump.
Il leader della minoranza Repubblicana al Senato, Mitch McConnell ha affermato che Biden “abbandona i nostri partner e si ritira di fronte i talebani” nell’ambito di un “ritiro affrettato delle forze, un grave errore, una ritirata di fronte ad un nemico che non è scomparso è una rinuncia alla leadership americana”.
Anche il senatore Lindsey Graham ha definito il ritiro “un disastro annunciato, stupido e terribilmente pericoloso”. Critiche sono arrivare anche dai democratici, con Jeanne Shaheen, della commissione Esteri della Camera, che si è detta “molto delusa” della decisione di Biden, considerando il rischio di abbandonare gli afghani, in particolare le donne, sul fronte di diritti umani e civili. “Gli Stati Uniti hanno sacrificato troppo per la stabilità dell’Afghanistan per abbandonarlo senza aver assicurato il suo futuro”, ha aggiunto. Più morbidi col presidente altri senatori democratici: “Quali altre scelte aveva? Non c’erano buone scelte a disposizioni”, ha detto Patrick Leahy,
Entusiasta invece la sinistra del Partito Democratico con Bernie Sanders che definisce “coraggiosa e giusta” la sua decisione e Elizabeth Warren che afferma di sostenere “con forza l’impegno del presidente a ritirare tutte le truppe dall’Afghanistan.
Per Chris Murphy “i sostenitori della guerra senza fine da 15 anni dicono che se rimaniamo in Afghanistan un po’ di più, i Talebani rinunceranno e il governo afghano inizierà a funzionare, e continueranno a dirlo per i prossimi 15 anni se lasciamo le nostre truppe in modo indefinito”.
“Finalmente facciamo la cosa giusta”, ha esultato Barbara Lee, deputata della California che nel 2001 era stata l’unica a votare contro quella guerra.
I talebani festeggiano
In un’intervista alla BBC un leader talebano ha affermato che il suo movimento “ha vinto la guerra e gli Usa l’hanno persa” mentre Haji Hekmat, governatore ombra talebano della provincia di Balkh, ha detto esplicitamente che l’obiettivo dei talebani è ripristinare L’Emirato governato dalla sharia che venne rovesciato dall’invasione anglo-americana del 2001.
I talebani hanno del resto festeggiato l’annuncio del ritiro dei “crociati” intensificando gli attacchi alle truppe governative.
Il 16 aprile almeno sette membri delle forze governative sono rimasti uccisi in una serie di attacchi dei talebani in due province afghane.
Fonti ufficiali riferiscono che nella provincia occidentale di Herat tre poliziotti sono rimasti uccisi quando un’autobomba è esplosa ad un posto di blocco nel distretto di Zinda Jan. Nell’attacco sono rimasti feriti anche otto civili, compresi dei bambini. Nella provincia settentrionale di Takhar sono invece rimasti uccisi quattro membri delle forze di sicurezza e altri cinque feriti in un attacco dei talebani ad un posto di blocco alla periferia della città di Taloqan.
Il ministero della Difesa di Kabul ha annunciato che l’esercito ha liberato 20 militari e poliziotti che si trovavano in una prigione dei talebani nella provincia meridionale di Zabul.
Ritirata
Il Regno Unito ha annunciato il ritiro dei propri 750 soldati entro l’11 settembre, e conferme in tal senso sono arrivate anche dall’Australia (80 militari) mentre in Germania il ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer ha confermato il ritiro delle truppe che “potrebbe completarsi già per la metà di agosto”.
L’unica nota fuori dal coro è quella della Repubblica Ceca (52 militari in Afghanistan): il presidente Milos Zeman, infatti, reputa “un errore” il ritiro delle truppe spiegando che “non è ritirandosi che si combatte il terrorismo islamico”. Al momento quella di Zeman appare l’unica valutazione di buon senso pronunciata in proposito da una figura istituzionale di uno stato membro della Nato.
Quanto all’Italia, “nei prossimi giorni inizierà il rientro degli 800 militari italiani che sono impegnati ad Herat e a Kabul” ha detto ieri ministro della Difesa Lorenzo Guerini
L’intervento militare italiano è costato circa 10 miliardi di euro considerando anche i costi logistici del ripiegamento da Herat e ha visto l’impegno sul terreno nel momento di maggiore sforzo di circa 4.500 militari quando i costi per la missione erano compresi tra i 700 e gli 800 milioni annui contro i 200 degli ultimi anni.
Dal novembre 2001 i nostri militari hanno partecipato alle missioni Enduring Freedom, Isaf e Resolute Support registrando 54 caduti e oltre 600 feriti, combattendo e vincendo molte battaglie, con valore e spesso con eroismo.
Le valutazioni del generale Giorgio Battisti
“I nostri soldati per quale motivo hanno combattuto e sono morti se non siamo riusciti a terminare il lavoro?” chiede polemicamente il generale Giorgio Battisti (nella foto sotto), veterano del conflitto afghano e di certo l’ufficiale italiano che ha ricoperto più incarichi in quel teatro operativo.
La mia impressione – ha affermato in un’intervista all’agenzia di stampa Adnkronos – è che la ragion di stato dell’Amministrazione Usa, sia di quella attuale che della precedente, abbia prevalso su tutte le altre valutazioni” in materia di sicurezza.
Battisti insiste su una “questione etica di rispetto nei confronti degli alleati”, ragiona su una Casa Bianca che ha valutato che “l’Afghanistan non era più una priorità” di fronte ad “altri impegni, altri obiettivi da contrastare”. Dalla Cina alla Russia. E così si è arrivati a un “prossimo abbandono del Paese”. Il generale ammette che “dopo 20 anni è chiaro che una certa ‘stanchezza’ c’è in tutti i Paesi della comunità internazionale che hanno partecipato all’operazione e che hanno perso migliaia di soldati e operatori civili, profuso tantissime risorse economiche con risultati che non sono ancora assestati.
Ritengo però che se come comunità internazionale, soprattutto come Paesi occidentali, decidiamo di impegnarci, dobbiamo portare a termine il compito. Siamo ancora in Kosovo dal 1999, non si può affermare che l’Afghanistan sia stato l’impegno più lungo”. Certo “prima o poi con il nemico bisogna comunque fare la pace ma gli accordi con i talebani a Doha sembrano più una resa più che un accordo di pace”.
Purtroppo chi ne pagherà le conseguenze sarà la popolazione civile, quelle migliaia di ‘local workers’, interpreti e con altri incarichi di carattere logistico che saranno i primi a rischiare di essere eliminati perché vengono considerati traditori dai talebani perché hanno cooperato con le forze straniere”. Perché “hanno rischiato la vita per noi”.
Conseguenze
In termini militari nessuno si fa illusioni: le possibilità chela ritirata della Coalizione determini la fine delle ostilità sono molto remote e del resto la guerra afghana gli USA (e anche noi alleati a ruota del carro americano) l’hanno persa nel 2010, quando Barack Obama annunciò che dall’anno successivo sarebbe iniziato il ritiro dei militari incoraggiando così a continuare a combattere i talebani reduci da anni di sanguinose sconfitte militari.
Del resto al ritiro dei militari alleati si affianca anche quello di moltissimi contractors di aziende statunitensi a cui è affidata la manutenzione e l’efficienza di 100 mila veicoli oltre a velivoli e sistemi d’arma in dotazione alle forze di sicurezza afghane e l’addestramento dei militari di Kabul.
Come ha spiegato Pietro Orizio su Analisi Difesa, “dall’accordo coi talebani ad oggi il numero di contractors del Dipartimento della Difesa che si occupano di logistica e manutenzione è diminuito del 40,49%, mentre quello degli addestratori del 12,31%. Attualmente sono 5.559 i contractors che si occupano di logistica e manutenzione e 1.133 quelli che curano l’addestramento delle forze afghane”.
Il loro numero calerà rapidamente nei prossimi mesi, quando il ripiegamento dei militari americani ridurrà anche le condizioni di sicurezza dei contractors e in vista della scadenza, nel 2022, dei contratti di manutenzione che dall’anno prossimo dovrebbe ricadere completamente sul personale afghano.
Obiettivo irrealistico dal momento che con il progressivo ritiro delle truppe alleate degli ultimi anni l’autonomia dei militari afghani nel gestire la manutenzione e la logistica è addirittura peggiorata.
Basti pensare che Nel novembre 2018 l’Afghan National Army era in grado di effettuare il 51,1% della manutenzione dei propri veicoli, mentre l’Afghan National Police solo il 15,9%. A dicembre 2020 l’esercito non raggiungeva nemmeno il 20% e la polizia superava di poco il 12%: quando gli obiettivi attesi dal comando USA in Afghanistan prevedeva rispettivamente l’80 e il 35%.
Il ritiro delle truppe alleate rende quindi sempre più difficile per le forze afghane reggere le offensive dei talebani che controllano oltre metà delle aree rurali del paese mentre il ritiro dei contractors rischia di portare alla paralisi dei mezzi militari impedendo di fatto all’esercito di mantenere capacità di combattimento.
Difficile non valutare che dopo il ritiro di USA e alleati i talebani possano tornare in tempi non troppo lunghi a prendere il controllo dell’Afghanistan. Contesto che suggellerebbe la sonora sconfitta di Washington e della NATO ma soprattutto di un Occidente rivelatosi ancora una volta incapace, in termini politici e sociali più che strettamente militari, di sostenere per tempi prolungati un conflitto anche a bassa intensità.
Non si può escludere che il ritiro dell’Occidente apra la strada ad altri interventi stranieri tesi a sostenere il governo di Kabul e impedire ai talebani di riassumere il controllo dell’Afghanistan
L’India in questi anni ha fornito aiuti economici e militari a Kabul e potrebbe aumentare il suo impegno nell’ambito del contrasto all’influenza del Pakistan, “padrino” dei talebani ad esempio.
Per la Cina, che co divide un breve tratto di confine con l’Afghanistan, il ritiro de USA e NATO costituisce un duro colpo per la sicurezza degli investimenti e l’accesso alle risorse naturali sfruttate da società cinesi in Afghanistan ma al tempo stesso offre un’opportunità per estendere la propria influenza fino a Kabul aiutando il governo a combattere l’estremismo islamico.
Secondo il South China Morning Post, la Cina potrebbe considerare l’invio di una “forza di peacekeeping” se dovesse ritenere vi sia una minaccia per la regione dello Xinjiang (regione musulmana in cui l’indipendentismo degli uiguri viene duramente represso) o se venissero essi a rischio i suoi interessi e investimenti minerari.
A complicare un simile scenario contribuisce però lo stretto legame (anche militare) tra Cina e Pakistan.
“Se la situazione della sicurezza rappresentasse una minaccia significativa, la Cina potrebbe inviare forze di peacekeeping, insieme all’assistenza umanitaria, nella regione per garantire la sicurezza e gli interessi dei cinesi e delle aziende”, ha affermato Sun Qi dell’Accademia di scienze sociali di Shanghai nelle dichiarazioni riportate dal South China Morning Post.
Bilancio e opzioni
In 20 anni il conflitto è costato la vita secondo i dati della missione dell’ONU a quasi 160mila persone: tra 35 e 43mila civili e per il resto miliziani talebani, di al-Qaeda, dello Stato Islamico e forze di sicurezza afghane.
Sono stati circa 3.600 i militari alleati morti (incluse le vittime di incidenti e i casi di suicidio), dei quali 2.500 statunitensi: una media di 180 perdite annue per le forze della NATO e di altri alleati che schierano in servizio oltre 4 milioni di militari.
Numeri che la dicono lunga sulla aleatoria “resilienza” dell’Occidente alle guerre. Anche per questo il ritiro definitivo dall’afghano costituisce una vittoria jihadista senza precedenti che avrà probabilmente un forte impatto sulle milizie islamiche incoraggiandole a proseguire e rafforzare la lotta agli infedeli.
Parliamoci chiaro: quello in atto dall’Afghanistan non è un ritiro ma una ritirata dopo aver accettato questa clamorosa sconfitta della principale potenza militare che la Storia abbia mai visto. Quella NATO che spende ogni anno circa mille miliardi di dollari per la Difesa (il quadruplo della Cina, dieci volte di più della Russia) ma non è stata in grado di sconfiggere un’insurrezione talebana caratterizzata da un tasso tecnologico pari a zero.
Un Occidente Incapace di vincere ma anche di continuare semplicemente a combattere per non offrire la vittoria ai Talebani e sostenere le forze di sicurezza afghane.
Eppure sarebbe stato possibile mantenere questo supporto con 10/15 mila combattenti (militari e/o contractors) da affiancare alle truppe di Kabul, distribuiti in battlegroup a livello di reggimento multi arma (con componenti fanteria leggera, artiglieria, genio, corazzati, elicotteri, droni, sanità) in ognuna delle sei regioni militari afghane mantenendo un paio di squadron di cacciabombardieri operativi nelle basi di Bagram e Kandahar.
Certo forze insufficienti a sbaragliare i talebani e riprendere il controllo di gran parte del territorio, come avvenne durante le grandi offensive alleate tra il 2008 e il 2011 (poi vanificate dal successivo ritiro delle forze da combattimento), ma abbastanza forti da appoggiare i militari afghani e impedire ai talebani di vincere.
Uno sforzo simile sarebbe sostenibile a lungo in termini militari anche solo dagli stati europei (che oggi dovrebbero forse provvedere a un impegno simile nel più vicino Sahel), opzione però del tutto inconcepibile sul piano politico e sociale.
Le opzioni alternative al ritiro quindi non sarebbero mancate, invece la fuga di USA e NATO avrà effetti destabilizzanti sulle già provate forze afghane che, senza il supporto dei militari americani ed europei e dei contractors che gestiscono l’addestramento e la manutenzione di 100 mila veicoli e decine di aerei ed elicotteri mezzi, perderanno rapidamente ogni capacità operativa.
Per gli europei, italiani inclusi, resta valida la valutazione espressa da esponenti dello stato maggiore francese nel 2011, quando Parigi ritirò le sue truppe dall’Afghanistan, e cioè che si è pagato ancora una volta un obolo all’alleato americano seguendone politiche e strategie altalenanti in una guerra che Washington si è stancata di combattere per ragioni puramente di consenso e di politica interna e ha trascinato nel suo fallimento anche gli alleati.
Nessuno in Europa immagina di continuare a sostenere il governo afghano senza la presenza statunitense anche se questi 20 anni di guerra dovrebbero averci insegnato quanto sia necessario in Europa sviluppare capacità autonome di proiezione sostenibili nel tempo, capacità che sarebbero peraltro inutili senza la volontà politica di impiegare le forze militari anche in contesti bellici.
In tema di lezioni apprese dall’Occidente quella più preoccupante e che in prospettiva ci potrebbe costare ancora tanti lutti è che la guerra afghana ha dimostrato la nostra sostanziale incapacità di combattere e vincere una guerra pagandone il prezzo relativo in termini di perdite, costi finanziari e tempo di dispiegamento.
Un’incapacità che ci espone a crescenti minacce perché azzera la deterrenza espressa dall’Occidente nonostante l’enorme potenziale di armi e tecnologie di cui dispone.
Foto: Casa Bianca, US DoD, NATO, Op. Resolute Support, Emirato dell’Afghanistan e Difesa.it
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.