Noi in fuga dalla realtà

 di Ernesto Galli Della Loggia  da Il Corriere della Sera 

Domanda numero uno: come si può riuscire a fare la guerra a un aggressore che invoca continuamente Dio e l’appartenenza religiosa senza dare alla propria risposta militare alcun carattere anch’esso a propria volta inevitabilmente religioso? Detto altrimenti: è davvero necessario perché si possa parlare di guerra di religione che entrambi gli avversari la proclamino tale, o non basta invece che lo faccia uno solo? Se uno mi ammazza perché io sono sciita, cristiano, o ebreo, o «infedele», e io cerco di difendermi colpendo a mia volta, cos’è questo se non un conflitto religioso? Domanda numero due: se una persona di diversa religione e origine culturale si trova fin dall’infanzia a vivere per anni ed anni con la propria famiglia in un Paese occidentale, ne apprende perfettamente la lingua, ne frequenta le scuole, vi si fa presumibilmente degli amici, ne assorbe le abitudini quotidiane, ma a un certo punto decide che tutto quanto è stato così intimamente e così a lungo intorno a lui gli è in realtà insopportabile e repellente fino al punto da meritare il più crudele annientamento, che cosa indica ciò?

Che nome merita? E un fenomeno del genere ripetuto per centinaia di casi, è un fatto casuale, un puro accidente oppure no? Sono queste le due domande cruciali che gli eventi drammatici che accadono in Medio Oriente pongono a questa parte del pianeta dove noi abitiamo. Domande alle quali, però, il nostro discorso ufficiale cerca di sfuggire. Spesso ne nega addirittura il senso o preferisce dare risposte di comodo che non sono una risposta: l’ennesimo esempio della vera e propria voragine che si sta spalancando tra la realtà e la politica, tra la massa e le élite.

Non riusciamo a trovare risposte perché le domande in questione evocano tre ambiti — la religione, la guerra e la civiltà — che da un certo momento in poi la nostra cultura e il suo mainstream intellettuale — quello europeo assai più di quello americano — hanno bandito, proclamandone la scostumatezza ideologica e di conseguenza espellendo per decreto tutte e tre dal discorso politicamente corretto. Alle religioni monoteiste sono stati sottratti i loro propri specifici caratteri storici, quelli che le hanno fatte diverse e spesso rivali; cosicché esse sono divenute tutte assimilabili ne «la religione», cioè nella dimensione di un’astratta spiritualità di sapore teista (adoriamo tutti uno stesso Dio!: come se il califfo Al Baghdadi invece fosse ateo), ovviamente destinata a non poter avere alcuna relazione possibile con nessun aspetto concreto e vivo della società, e tanto meno con i conflitti umani (una guerra per motivi religiosi?

Oibò! Quale selvaggia bizzarria! Com’è mai pensabile una simile cosa che nella storia sarà accaduta solo qualche migliaia di volte?). Quanto alla guerra e alla violenza sono state entrambe oggetto di una tabuizzazione così radicale da sfiorare il pensiero magico: poiché le aborriamo e non vogliamo che esistano, non esistono. E comunque non possiamo neppure pensare di averci qualcosa a che fare. Perlomeno non possiamo usare le parole per dirlo.

Noi cittadini dell’Unione europea dunque non facciamo la guerra, ce lo proibisce la nostra moralità superiore (noi italiani ci siamo addirittura inventati che ce lo proibisce la Costituzione). Noi facciamo solo operazioni di peace keeping , e per non assumerci alcuna responsabilità morale e politica, anche quelle solo dietro invito (Nato, Onu). Manteniamo la pace: sparando e uccidendo quando è inevitabile, ma non per vincere; sicché quando ci accorgiamo che così la pace in genere non arriva, allora ci ritiriamo in buon ordine e — vedi il caso dell’Iraq e tra poco dell’Afghanistan — chi s’è visto s’è visto. Anche il termine e il concetto di civiltà sono ormai fuori dell’uso pubblico consentito.

Al gusto democratico corrente sanno entrambi, non si capisce perché, di esclusione, di radici, di «fardello dell’uomo bianco», al limite di razzismo; ed evocano la categoria, mai abbastanza deprecata, di «guerra di civiltà».

Parlare di civiltà si può al massimo sui manuali di storia antica (civiltà greca, egizia, ecc.) , ma non al tempo presente. Oggi, infatti, esistono solo le «culture»: tutte naturalmente sul medesimo piede di parità, e tutte naturalmente tra loro compatibili all’insegna dell’universalismo umano. Contrariamente a quel che pure si potrebbe sospettare, insomma, l’islamico di cittadinanza britannica che l’altro giorno ha decapitato un giornalista americano in nome e per conto dell’Isis, non ce l’aveva, no, con la civiltà occidentale: con ogni probabilità si era semplicemente trovato male con la cultura inglese. Avesse vissuto in Alto Adige o nel Lussemburgo sarebbe stata tutta un’altra cosa. Una radicale riconciliazione con il principio di realtà: ecco che cosa ci manca nel nostro modo di guardare al mondo. Certo, le idee sono una guida necessaria a muoversi in esso. Ma che cosa il mondo sia e come funzioni, non l’hanno quasi mai stabilito le idee.

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