Il vero Afghanistan dell’Europa è in Africa

 

 

L’epilogo della vicenda afghana tragico, inglorioso e drammatico al di là perfino delle previsioni più pessimistiche, avrà come prima conseguenza quella di rinvigorire oltre l’immaginabile il peggior radicalismo islamico.

Terroristi, jihadisti, trafficanti di ogni genere e sigla uniti contro i crociati, l’Occidente deriso, indebolito, scambiando ruoli e favori pur di giungere alla creazione di Califfati finalmente pienamente operativi, liberi di colpire, conquistare territori, rinforzare basi logistiche e sottomettere le povere popolazioni che in quei territori vorrebbero forse vivere pacificamente o perlomeno senza fanatismi e Sharia imposte.

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E’ forse giunto il momento di lasciare da parte illusioni e demagogie care soprattutto a chi non ha mai vissuto e operato in aree conflittuali o post conflittuali, non conosce realtà, tradizioni locali, se non di riporto, non vuole abbandonare ideologie e principi per noi giusti e acquisiti ma che nulla di buono possono apportare nell’immediato in determinati contesti dove gli unici concetti che accomunano sono guida (nel senso di “leadership” e comando) e rispetto sia individuale che collettivo.

Entrambi vanno conquistati sul campo con i fatti, con il pragmatismo e l’adattamento alle situazioni locali, cancellando le percezioni di debolezza offerte all’avversario, più che con la ricerca di dialoghi irrealistici dove determinati valori non hanno presa. Le lezioni apprese, per modo di dire, l’esperienza sul terreno, Africa Medioriente in particolare, indicano che solo una volta acquisito e preteso il rispetto si potrà innescare un dialogo forte accettato anche dal peggior nemico.

Inutile, controproducente girare intorno alla questione. Siamo in guerra, asimmetrica, regionale quanto si voglia ma pur sempre guerra dichiarata da forze radicali accecate da fanatismo religioso islamico non solo teorico bensì concretamente orientato alla conquista di territori, alla sottomissione di popolazioni, alla estirpazione, attraverso qualsiasi mezzo, dei nemici, della cultura occidentale ove assimilata e integrata localmente, dei governi alleati.

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Con queste premesse, non nuove peraltro, i fronti su cui si riverseranno ancor più vigorosamente le forze d’urto jihadiste saranno, a nostro avviso, le aree sub sahariane e del Corno d’Africa con particolare veemenza sul Sahel i cui deboli governi dei Paesi G5 e le rispettive popolazioni, lontane da fanatismi religiosi, continuano ad essere vittime di attacchi feroci moltiplicatisi negli ultimi due anni.

Nonostante la presenza importante nei Paesi G5 Sahel dei francesi dell’Operazione Barkhane, delle forze speciali dell’operazione Takuba, degli alleati Ue (fra cui l’Italia con un impegno crescente) degli Usa, dei canadesi e altri, in aggiunta a oltre 20.000 caschi blu fra Mali e Repubblica Democratica del Congo, appartenenti a fallimentari, così come concepite finora, missioni multidimensionali Onu.

Come ho già segnalato in recenti articoli su Analisi Difesa complici le insidie del Sahara, la debolezza dei governi locali, la mancata assunzione di responsabilità operative di alcuni di essi, casi Mali e Repubblica Centroafricana fra le cause della decisione di ridimensionamento dell’apparato militare francese, la disomogeneità delle forze schierate in particolare fra i caschi blu dell’Onu, le regole d’ingaggio inadeguate e soprattutto in parallelo alla cooperazione militare e di sicurezza, la scarsa fattuale esecuzione di programmi di sviluppo concreti rapidi e visibili a favore delle popolazioni coinvolte, si è giunti ad un deterioramento della situazione generale piuttosto che un atteso netto progresso.

 

La difesa delle frontiere

La lezione del post Afghanistan imporrebbe un mutamento sostanziale della concezione di intervento multisettoriale, delle procedure, delle risorse finanziarie e umane, in campo civile, per difendere non solo le frontiere degli Stati africani coinvolti ma anche le frontiere europee, Italia in prima linea, ormai connesse al Nord Africa e al Sahel, parte integrante del Mediterraneo allargato.

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L’assunto di rivalità quasi insanabili fra gruppi radicali jihadisti legati ad AQMI (Al Qaeda nel Maghreb islamico) o alla galassia dello Stato Islamico (IS) va considerato illusorio.

Rivalità per traffici e ricerca di finanziamenti esistono ed esisteranno, tuttavia la matrice comune islamista e jihadista, la possibilità di ottenere obiettivi territoriali, il Califfato, l’odio per l’Occidente rinsaldano e apportano nuova linfa in vista della vittoria finale su un nemico indebolito, poco paziente e propenso a combattere con vigore in ambienti lontani e ostili.

A conferma dei legami esistenti è bene tenere presente che al-Qaeda è stata fra i primi a congratularsi con i Talebani per la vittoria quasi a rinverdire i fasti di oltre 20 anni fa. Un eventuale regolamento dei conti fra bande rivali potrà avvenire una volta acquisite e rafforzate le posizioni.

In un contesto di scontro sempre più accelerato e ravvicinato fra concezioni di vita, libertà e cultura diametralmente opposte non è più possibile pensare e agire contro minoranze, va precisato, fanatiche e irriducibili come noi vorremmo pensassero anche gli avversari.

Non è realistico. Si prenda atto che una guerra si combatte per vincere, difendere le nostre frontiere, i valori universali, una civiltà avanzata malgrado i difetti, i nostri alleati tradizionali, gli interessi comuni, le fasce più deboli delle popolazioni.

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Con avversari pronti al martirio, a colpire indiscriminatamente civili senza remore a usare qualsiasi arma illecita, traffici di esseri umani e immigrazione forzata inclusi, le azioni da intraprendere non dovrebbero essere accompagnate ancor oggi da retorica e demagogia piuttosto impostate su pragmatismo, conoscenza e adattamento con il fine di rendere irreversibile la sconfitta del nemico agli occhi delle popolazioni e ottenere una posizione di forza per una successiva trattativa. Altre opzioni in quei contesti appaiono difficilmente percorribili.

Difficile non intravedere una strategia occulta, potente dietro le centrali jihadiste e terroristiche africane di AQMI e IS, l’incremento di attacchi e attentati fra Sahel, Corno d’Africa, lago Ciad, Mozambico, RDC.

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Pur avendo subito perdite importanti anche a livello di Capi, di emiri del terrore da parte dell’operazione Barkhane e dei droni e forze speciali Usa esse non perdono potenza né affiliati, al contrario moltiplicano attacchi e minacce.

Uno dei problemi è che tagliare i finanziamenti cospicui da parte di Qatar e alcune famiglie saudite, ad esempio, per quanto riguarda i jihadisti sunniti, i fratelli musulmani e risorse iraniane per quanto riguarda Hezbollah e la galassia sciita risulta quanto mai difficile.

Qatar e Arabia Saudita insieme a Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Oman sono alleati dell’Occidente nonché grandi investitori. Caso a parte la Turchia, membro della Nato, sponsor dei Fratelli Musulmani e dei mercenari jihadisti siriani, iracheni la quale agisce più che altro con finanziamenti del Qatar e imperversa in Libia e Somalia dove ha rapidamente rimpiazzato l’Italia nel gioco delle influenze ridimensionando per ora il nostro Paese a comprimario, purtroppo.

La complessità delle vicende e delle connessioni occulte e non, l’influente attivismo di Cina e Russia fanno sì che ormai Sahel, Corno d’Africa siano diventati i baluardi da non perdere a nessun costo per la difesa delle frontiere, della credibilità occidentale, delle stesse popolazioni e degli interessi Ue, francesi, italiani, tedeschi ecc.

 

Le conseguenze del post Afghanistan

Lo scenario che si delinea oggi appare poco propizio al ridimensionamento dell’Operazione Barkhane, come annunciato dal Presidente francese il 10 giugno scorso. Entro il 2022 l’effettivo francese dovrebbe assestarsi sui 2.000 uomini nel Sahel rispetto ai 5.100 operativi attualmente.

Già iniziate la chiusura di alcune basi in Mali, Paese con cui era stata interrotta la cooperazione militare poi ripresa a luglio. Le soluzioni prospettate per riequilibrare il ridimensionamento francese sono da un lato rinforzare l’operazione Takuba truppe speciali europee, nelle intenzioni primo embrione operativo di un eventuale forza europea di pronta reazione, con il compito specifico di colpire con maggiore precisione e continuità jihadisti e affiliati nel Sahel oltre che formare e accompagnare nei combattimenti le forze locali dei Paesi G5, dall’altro aumentare gli effettivi dei caschi blu Onu della missione di stabilizzazione MINUSMA in Mali.

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La seconda opzione appare inadeguata se non controproducente tanto da indurre l’immediato parere negativo degli Usa. Non a torto considerate la disomogeneità delle truppe, regole d’ingaggio e procedure assolutamente inadeguate, unità di comando non pervenuta, sconcertante inefficacia degli interventi a protezione delle popolazioni e prevenzione degli attacchi.

Quali motivazioni avrebbero a combattere sul serio, contingenti del Bangladesh, Pakistan, Filippine, isole Figi, africani non particolarmente legati ai maliani, se non essere presenti per portare a casa il meno pericolosamente possibile indennità di missione e rinnovi di contratti?

A costi esorbitanti la missione Onu resta fallimentare perfino dannosa. Forse adeguando alla realtà del terreno procedure, regole d’ingaggio e contingenti, i caschi blu potrebbero essere utili a garantire perlomeno una cornice di sicurezza ai progetti di cooperazione civile da portare a compimento con urgenza nelle aree più sensibili per alleviare e ridare una qualche fiducia alle popolazioni stremate e impaurite.

Abbiamo segnalato in precedenti articoli quanto sia cruciale, ora più che mai con il deteriorarsi della situazione, portare a compimento sostanziali interventi civili di cooperazione allo sviluppo in sicurezza, siano anche di piccola entità, con rapidità e visibilità. Intendiamoci, gli interventi stessi per riuscire, avere efficacia e non prolungarsi in tempi infiniti, andrebbero ormai concepiti sotto forma di collaborazione civile militare.

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Lo scriviamo da anni anche per esperienze dirette e riuscite nelle aree conflittuali. Speriamo sia giunto il momento di una concreta presa di coscienza del problema da parte delle Ong, dei burocrati, di quei responsabili politici che antepongono le ideologie al posto della tutela delle vite umane, dell’efficacia degli interventi e del sostegno concreto alle popolazioni.

L’Italia fa scuola nella cooperazione civile militare, CIMIC l’acronimo militare, integrandosi al meglio in ambito Nato dove sono state sviluppate da anni standard e modalità operative comuni nel CIMIC. Funzionano in quanto gli eserciti alleati possono agire con rapidità utilizzando procedure comuni nel settore senza disperdere energie e risorse finanziarie a differenza delle macchinose, obsolete procedure utilizzate da Onu e Ue.

Per quanto riguarda il nostro Paese i fatti stanno dimostrando quanto fosse necessaria una seria strategia Africana di medio periodo, da sempre auspicata, al posto dei proclami rimasti tali e degli interventi ad hoc emergenziali, mai preventivi, realizzati dai precedenti governi.

La nostra partecipazione alla Task force europea, a guida francese, Takuba andrà probabilmente progressivamente incrementata così come la presenza in Niger questa volta con il pieno accordo e sostegno francese. Benché rivali e competitori le circostanze, non consentono altro che unità d’intese e collaborazione da alleati. Idealmente dovrebbero essere messe in campo nuove figure professionali esperte e competenti per fronteggiare nuovi scenari a rischio quali negoziatori, inviati che possano muoversi ed agire flessibilmente, interloquire ed ottenere il rispetto locale da amici e nemici.

 

Un ruolo per l’Italia

L’umiliazione afghana con il ritiro Usa anche da gendarme e baluardo democratico del mondo, per ora, dovrebbe altresì accelerare la costituzione in tempi relativamente brevi, date le circostanze, della forza di pronta reazione europea di cui si tratta da anni ma che ha seguito ad oggi le stesse logiche burocratiche che hanno portato alla pericolosa irrilevanza Ue nei principali scacchieri internazionali.

In quanto al nostro Paese il sussulto atteso dopo anni di immobilismo in politica estera sembra si stia verificando da quando il presidente del consiglio Draghi ha fatto valere la sua esperienza internazionale e conduce in prima persona la nostra politica estera.

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Resta da risolvere in maniera abbastanza soddisfacente per noi la questione delle immigrazioni illegali non più rinviabile considerati i pericoli crescenti e soprattutto le difese delle frontiere approntate dalla Grecia, in aggiunta ai Paesi balcanici, Visegrad, Austria, Danimarca in assenza di una qualsivoglia politica comune europea. I tempi sono forse propizi ad un netto cambio di rotta in cui l’Italia non sia più considerata da alleati, trafficanti e terroristi come il ventre debole dalle frontiere permeabili cui accedere indiscriminatamente.

Fine delle cosiddette missioni di pace, nuove competenze e corretta informazione dell’opinione pubblica. In conclusione un breve cenno su argomenti che svilupperemo in seguito.

Una corretta informazione dell’opinione pubblica in previsione di una reale presa di coscienza e di un sostegno convinto nelle difficoltà che attraversiamo e attraverseremo dovrebbe includere una terminologia realistica, chiara, così come prevedere interventi mediatici anche da parte di persone competenti, poco ideologizzate, civili e militari che magari hanno vissuto e operato nelle aree a rischio per anni e ne possono quindi descrivere con cognizione di causa problematiche, culture, positività, negatività.

 

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Dover ascoltare o leggere cose scontate o peggio affermazioni irrealistiche senza contradditorio competente altera la realtà spesso diversa da quella che noi vorremmo fosse.

La terminologia stessa andrebbe cambiata e chiarita. Missioni di pace e peacekeeping, ad esempio, non rispondono attualmente a verità e realtà delle cose. Le stesse Nazioni Unite utilizzano da tempo termini quali missioni di stabilizzazione che pur nell’ambiguità inducono perlomeno a percepire qualcosa di diverso e più complesso.

I militari italiani sono professionisti e volontari, fieri delle loro competenze e dell’apprezzamento che riscuotono nelle missioni internazionali. In Italia non possiamo farli passare come civili in divisa impiegati solo per il CIMIC, la formazione, e la gestione di evacuazioni e ospedali, armati solo per rispondere, eventualmente, ad attacchi diretti…E gli aspetti militari?

Le prossime missioni saranno ben più da combattenti che altro, forse sarà il caso di sostenere i nostri militari e i civili nelle zone a rischio, preparare i burocrati da scrivania, informare un’opinione pubblica matura e responsabile.

 

Foto: Operation Barkhane (Ministero Difesa Francese), Truppe italiane in Niger (Difesa.it) e Reuters

 

 

E' uno dei maggiori esperti italiani di operazioni internazionali di stabilizzazione, peacebuilding, cooperazione e comunicazione nelle aree di crisi. Dagli anni 80 ha ricoperto incarichi di responsabilità crescenti per l’Onu, la UE e il Ministero degli Esteri in Africa (13 anni), Medio Oriente e Balcani. Specialista di negoziati complessi, è stato Sindaco Onu in Kosovo della città mista di Kosovo Polje dal 1999 al 2001, ha guidato, primo non americano, il PRT di Nassiriyah in Iraq nel 2006 ed è stato Portavoce e Capo della comunicazione della missione europea di assistenza antiterrorismo EUCAP Sahel Niger fino al 2016. Destinatario di un’alta onorificenza presidenziale Senegalese, per l’editore Fermento ha scritto "Alla periferia del Mondo". Scrive su riviste specializzate ed è un apprezzato commentatore per radio e tv.

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