Marina e Guardia Costiera: una bandiera, due missioni
A conferma di un trend che vede la nostra Guardia Costiera in costante ascesa è giunta la notizia dell’affidamento a Fincantieri-Cantiere Navale Vittoria della commessa per la costruzione di un pattugliatore di circa 90 metri. destinato a “incrementare notevolmente le capacità operative della Guardia Costiera nelle missioni d’altura a lungo raggio» anche fuori degli stretti “comprese le zone tropicali incluse nel cosiddetto Mediterraneo allargato”.
Nel commentare l’iniziativa, Gianandrea Gaiani ha osservato su Analisi Difesa che «L’acquisizione di simili unità è quindi spiegabile solo ipotizzando future improbabili (?) missioni di ricerca e soccorso da effettuare lontano dalle acque di casa e persino fuori dal Mediterraneo in cooperazione con la Marina Militare…».
Il problema, che riguarda l’unitarietà dell’azione dello Stato sul mare, va esaminato alla luce dell’attuale quadro normativo, senza dimenticare alcune questioni postesi in passato.
Il Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera fa parte della Marina militare ma dipende dalla Forza Armata, ai sensi del Codice dell’Ordinamento Militare (COM, art. 132 e ss. ), solo per specifiche competenze, prima tra tutte il concorso militare alla «difesa marittima e costiera».
Lo stesso COM indica le altre missioni che il Corpo svolge per conto di ministeri “civili” come Trasporti (principale ministero di riferimento cui compete la sicurezza della navigazione), Politiche agricole, Transizione ecologica (ex Ambiente).
Tale assetto si è consolidato con gli anni anche a seguito di provvedimenti di riforma dell’amministrazione dello Stato e del recepimento di direttive comunitarie.
Se si va indietro nel tempo si comprende meglio la fase ora in fieri che, configurando un potenziale impegno nelle blue waters di teatri operativi propri della Marina, pone un problema di coordinamento. Quasi nessuno ricorda più il disegno di legge presentato nel 1996 dall’on. pino Arlacchi circa la “Istituzione della Guardia Costiera”.
La proposta parlamentare – che non ebbe alcun seguito – mirava a inglobare in una struttura unificata gli assetti navali di Capitanerie, Guardia di Finanza, Carabinieri e Polizia, rafforzando la struttura della Guardia Costiera già operante all’interno del Corpo dopo l’emanazione di un contestato DM del 1989.
Questo decreto, al tempo, aveva suscitato le reazioni della Guardia di Finanza che vedeva minacciate le sue attribuzioni in mare, poi sfociate in una sorta di conflitto istituzionale.
Per fare chiarezza, il Presidente Cossiga dovette affidare a Prodi la guida di una commissione di studio che indicò proprio nel coordinamento l’unica soluzione.
La Finanza aveva in precedenza espresso riserve anche verso la Legge per la Difesa del Mare (L. 979-1982) che, ignorando il suo comparto navale, aveva dato l’avvio ad un robusto programma di costruzioni, finanziato dall’allora ministero della Marina Mercantile, di nuovi mezzi aeronavali per le Capitanerie e di pattugliatori d’altura (i 4 “Cassiopea” più i 2 “Sirio”).
Questi ultimi furono assegnati alla Marina per il «servizio di vigilanza sulle attività marittime ed economiche, compresa quella di pesca, sottoposte alla giurisdizione nazionale nelle aree situate al di là del limite esterno del mare Territoriale», vale a dire in uno spazio delle green waters che ora costituisce le Zona economica esclusiva (Zee).
I Cassiopea furono dotati di capacità antinquinamento perché la Marina garantisse anche la protezione ambientale. La Legge per la Difesa del Mare, frutto di una visione lungimirante dell’Italia come Paese marittimo, può considerarsi il punto più alto ed il modello normativo della cooperazione/integrazione tra Marina e comparto navale delle Capitanerie nelle green waters sotto giurisdizione nazionale.
Non a caso, qualche anno dopo, la Difesa sostenne senza riserve il suindicato DM del 1989, nonostante non contenesse alcun riferimento ai rapporti in mare tra mezzi della Guardia Costiera ed unità della Marina, ma anzi prevedesse – e questo vale ancora oggi – che la Guardia Costiera fosse «articolazione del Corpo delle capitanerie di porto, alle dirette dipendenze organiche e operative dell’Ispettorato generale [ora Comando Generale] del Corpo stesso».
A quel tempo le competenze SAR (Ricerca e Soccorso) erano distribuite tra Capitanerie e Marina secondo limiti spaziali fissati nell’intesa tecnico-operativa del DM del 1° giugno 1978: oltre le 20 miglia la Marina era tenuta ad intervenire ed a questo fine manteneva nelle sue basi Unità pronte uscire H24 in SVH (acronimo telegrafico di sécurité de la vie humaine).
Con il DPR 662-1994 che regola l’attuale organizzazione SAR la Marina perse tale propria attribuzione ma acquisì una altrettanto gravosa responsabilità di intervenire su richiesta dell’Autorità nazionale SAA che è gestita, per conto dei Trasporti, dalle Capitanerie: il carattere impegnativo di questo non compito “ancillare” della Marina è attestato dagli innumerevoli soccorsi messi in atto in trent’anni di emergenze immigrazione.
Nello stesso anno 1994 l’art. 3 della Legge 84-1994 sui porti istituiva il Comando generale delle Capitanerie di porto lasciando aperta la porta, con una formulazione generica poi modificata, all’affidamento del vertice ad un comandante esterno proveniente dalla Forza armata, come al tempo avveniva per Carabinieri e Finanza.
La soluzione non fu tuttavia mai attuata per mancanza di intesa interministeriale, mentre si consolidò la nomina di un ammiraglio del Corpo.
Dopo questa mancata riforma, i rapporti tra la Marina ed il “suo” Corpo cementati da 150 anni di comune storia, status militare, uniforme, iter scolastico-formativo, oltre che da contiguità operativa e professionale, assunsero l’attuale configurazione. Il Corpo, per quanto funzionalmente dipendente da ministeri “non militari”, continua a destinare proprio personale presso comandi Marina ed interforze, svolgendo a terra ed in mare funzioni concorsuali militari e specialistiche. L’appartenenza del Corpo alle Forze armate spiega come sia rimasta in capo alla Difesa la funzione di valutare le carriere del suo personale nell’ambito delle Commissioni di avanzamento costituite al proprio interno.
L’immagine di questa complessa situazione ordinativa è riflessa nel Codice dell’Ordinamento Militare (COM, art. 132 e ss. ) che, nel suo attuale testo (modificato col D.Lgs. 94- 2017), così recita: «Il Comandante generale del Corpo delle capitanerie di porto, è nominato tra gli ufficiali in servizio permanente effettivo appartenenti al Corpo… con il grado di ammiraglio ispettore…su proposta del Ministro della difesa, sentito il Capo di stato maggiore della difesa, e del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti»
L’articolata governance del Corpo fa perno, come detto, sui Trasporti, erede di parte delle attribuzioni della Marina mercantile (ora disperse, in mancanza di un “Ministero del Mare“, per ora oggetto solo di iniziative parlamentari) che sostiene gli oneri finanziari del personale e di funzionamento/investimento ed è “proprietario” dei mezzi aeronavali della Guardia Costiera.
Tuttavia, gli stessi mezzi sono iscritti, al pari di quelli della Finanza, nel registro del naviglio militare tenuto dalla Difesa, ma, come detto, dipendono organicamente ed operativamente da comandi della Guardia costiera. Ad essi è concessa – al pari delle Unità della Finanza – la «bandiera navale militare» avente caratteristiche eguali a quella inalberata dalle Unità della Marina.
Nel 2015 vi fu, per il vero, un tentativo da parte della Difesa di modificare lo status quo Marina-Guardia Costiera nell’ambito dei provvedimenti adottabili con la “riforma Madia”.
In un articolo di Gianandrea Gaiani del tempo si annunciava che La Guardia Costiera sarebbe dipesa dalla Marina Militare.
Il Ddl di riforma della Pubblica Amministrazione fu però emendato, in materia, dalla commissione Affari Costituzionali della Camera. La legge previde soltanto l’emanazione di norme delegate del seguente tenore: «Con riferimento alle forze operanti in mare, fermi restando l’organizzazione, anche logistica, e lo svolgimento delle funzioni e dei compiti di polizia da parte delle Forze di polizia, eliminazione delle duplicazioni organizzative, logistiche e funzionali…con rafforzamento del coordinamento tra Corpo delle capitanerie di porto e Marina militare, nella prospettiva di un’eventuale maggiore integrazione ( Art. 8, 1. b) legge 124-2015).
Sulla base della norma si adottò il D.Lgs. 177-2016 con cui il ministero dell’Interno ha confermato l’affidamento alla Guardia di Finanza dell’ordine e della sicurezza pubblica in mare (funzione definita nel decreto come «sicurezza del mare») in spazi prioritariamente identificabili nelle brown waters. Niente del genere risulta invece sia stato fatto dai ministeri di Difesa e Trasporti.
Il punto centrale della questione sta, oltre che nell’ impiego ottimale delle risorse pubbliche, in quello che i Francesi chiamano l’ Action de l’État en mer (facente capo al Secrétariat général de la mer posto alle dipendenze del Primo ministro), missione che postula unitarietà di indirizzo e di esecuzione. Se si adotta un tale indirizzo centralizzato, non può accettarsi che lo Stato agisca e sia rappresentato in alto mare ed in acque straniere da Unità che dipendano da ministeri diversi e che operino indipendentemente tra loro. Il discorso sui modelli organizzativi adottati all’estero ci porterebbe comunque lontano.
Basti dire che la Francia non ha una Guardia Costiera al pari di Spagna e Gran Bretagna che accorpano molte di quelle funzioni nelle rispettive Marine.
Mentre la US Coast Guard, che opera anche all’estero ma ha rango di Forza Armata, dipende dalla Homeland Security (ministero equiparabile all’Interno per gli aspetti della Sicurezza), svolge nelle blue waters quelle funzioni di law enforcement che sono precluse alla US Navy e che invece la legge italiana attribuisce ai comandanti delle navi da guerra nazionali. Ciò è evidentemente legato ad una ben diversa dimensione degli interessi nazionali ed alle conseguenti ambizioni di potere navale.
Per ritornare sul problema sollevato dal direttore Gaiani, non pare dunque appropriato dire che la Guardia Costiera non dovrebbe operare fuori del Mediterraneo. Anche perché questo è già avvenuto (il pattugliatore Diciotti è stato ad esempio dislocato nel 2006 alle Canarie per cooperare con la Spagna a respingimenti verso il Senegal, nell’ambito di Frontex).
E’ vero invece che, ove le sia chiesto di esercitare funzioni di Guardia Costiera in contesti internazionali extra Ue, le attività dovrebbero essere coordinate dalla Marina che per istituto è destinata ad operare all’estero con assetti attagliati alle esigenze.
Alla Forza Armata, secondo l’art. 111, 1, a) del COM, compete infatti «la vigilanza a tutela degli interessi nazionali e delle vie di comunicazione marittime al di là del limite esterno del mare territoriale e l’esercizio delle funzioni di polizia dell’alto mare demandate alle navi da guerra negli spazi marittimi internazionali…, nonché di quelle relative alla salvaguardia dalle minacce agli spazi marittimi internazionali, ivi compreso il contrasto alla pirateria».
Se così è, deve riconoscersi che occorre rimediare alla mancata realizzazione di quella parte della “riforma Madia” che avrebbe dovuto tradursi nel «rafforzamento del coordinamento tra Corpo delle Capitanerie di Porto e Marina Militare, nella prospettiva di un’eventuale maggiore integrazione».
Foto Marina Militare e Guardia Costiera
Fabio CaffioVedi tutti gli articoli
Ammiraglio in congedo, docente a contratto di "Introduzione geopolitica e diritto internazionale del mare" presso l'Università di Bari. E' autore del "Glossario di Diritto del Mare", RM, 2020 disponibile in https://www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Documents/supplementi/Glossario_di_diritto_del_mare_2020.pdf