I limiti di un possibile impiego delle armi chimiche in Ucraina

 

 

La possibilità che Mosca ricorra all’impiego di armi chimiche in Ucraina è stata recentemente annunciata da fonti d’intelligence statunitensi e il Segretario Generale della NATO ha colto l’occasione per ribadire la determinazione dell’Alleanza Atlantica nel fronteggiare una simile eventualità fornendo, tra l’altro, equipaggiamenti protettivi alle truppe di Kiev.

La notizia ha scatenato la fantasia di chi non ha perso tempo a definire questa terribile eventualità come l’evento in grado di cambiare le sorti della guerra a favore degli invasori perché infliggerebbe enormi perdite all’avversario al pari degli ordigni nucleari.

In realtà gli ordigni a caricamento chimico non sono affatto decisivi in un conflitto e vale quindi la pena effettuare qualche approfondimento del tema per capire la portata effettiva dell’impiego di queste armi non convenzionali, sia in contesti militari che non militari, riconducendo le analisi delle operazioni in corso in Ucraina in un contesto tecnico e professionale corretto.

 

Caratteristiche e precedenti

La guerra chimica, intesa quale sfruttamento a fini militari delle priorità tossiche di alcuni composti chimici impiegati contro le persone o l’ambiente, ha avuto ufficialmente inizio nel corso del Primo Conflitto Mondiale (aprile 1915) sul fronte occidentale. Fu infatti la Germania ad impiegare i gas allo scopo di ottenere successi decisivi su schieramenti difensivi resi impenetrabili ai ripetuti assalti della fanteria dalle trincee e dai fitti reticolati difesi dalle mitragliatrici.

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Si tratta del famoso episodio di Ypres (in Belgio) dove le truppe tedesche, accertatesi che il vento soffiasse nella direzione dell’avversario, aprirono dei contenitori a pressione di cloro provocando la morte di circa 5000 soldati francesi. Un anno dopo (giugno 1916) stessa sorte toccò ai soldati italiani attaccati con cloro e fosgene e che subirono circa 4000 perdite.

Da quel momento in poi, a fronte delle centinaia di conflitti di varia intensità che si sono combattuti nel corso del ventesimo secolo, le armi chimiche sono state in molti casi approntate dai vari belligeranti, ma impiegate solo in poche circostanze accertate. Questo soprattutto perché, contrariamente a quanto si possa credere, le armi chimiche sono ordigni particolari i cui effetti si manifestano solo a seguito del soddisfacimento di specifiche condizioni.

Prima di tutto il loro impiego offensivo richiede un’elevata disponibilità di conoscenze e di mezzi tecnici differenziati per la conservazione degli arsenali e il successivo rilascio delle sostanze. In secondo luogo, uno specifico addestramento delle unità nonché un peculiare sistema di comando e controllo. In ogni caso, per ottenere effetti militarmente significativi su un campo di battaglia l’impiego delle armi chimiche deve essere integrato e coordinato nell’ambito delle operazioni aeroterrestri di più ampia scala.

Inoltre, l’efficacia degli attacchi dipende in misura determinante da parametri che non sono direttamente controllabili dall’utilizzatore, primi fra tutti alcuni fattori ambientali (soprattutto intensità, direzione del vento e temperatura esterna) ed operativi, quali il tipo di protezione specifico in dotazione all’avversario. Infatti, gli agenti chimici tossici hanno effetti letali immediati e devastanti solo quando sono impiegati contro personale non adeguatamente protetto o del tutto sprovvisto della più semplice protezione (la maschera antigas), come la popolazione civile.

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Le perdite maggiori britanniche e statunitensi attribuibili ad attacchi non convenzionali durante la I Guerra mondiale furono causate da improprio uso della maschera di protezione (indossata male o rimossa prematuramente). La stessa cosa si può affermare anche nel contesto del conflitto tra Iran e Iraq (1980-1988) dove Baghdad fece uso estensivo di aggressivi chimici per tutta la durata del confronto bellico. Un completo protettivo come quello in dotazione agli eserciti della NATO costituisce uno scudo efficace contro tutti i composti chimici utilizzati a scopo bellico attualmente conosciuti.

Storicamente, l’impiego delle armi chimiche si è rivelato maggiormente efficace contro truppe in postazioni difensive fisse (come le trincee) o comunque poco mobili, dove la persistenza dell’aggressivo poteva manifestare i suoi effetti. Questi ultimi, invece, nelle operazioni molto dinamiche contraddistinte da ritmi della manovra molto elevati (come nel caso della blitz-kriege tedesca o la Guerra del Golfo), sono drasticamente ridotti.

Il gas, infatti, è sempre stato impiegato per ottenere effetti limitati (cioè tattici) disperdendo truppe, negando momentaneamente l’occupazione o la rioccupazione di parti di territorio significativi per le operazioni o, in extremis, quale ultima risorsa per sottrarre, sempre in porzioni molto limitate di un fronte, le proprie truppe al completo annientamento.

L’analisi del citato conflitto tra Iran e Iraq mostra che Baghdad intensificò l’impiego di ordigni a caricamento chimico a scopo soprattutto difensivo nei momenti più critici del combattimento, dove le forze iraniane stavano avendo il sopravvento su quelle irachene e non vi erano altri modi di impedire agli avversari la conquista delle posizioni presidiate.

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Quindi, per quanto possa sembrare paradossale, gli effetti delle armi chimiche sono, in un contesto operativo moderno e a fronte della logistica e delle capacità e delle specifiche capacità richieste per il loro impiego, scarsamente prevedibili, non risolutivi e neutralizzabili con tecniche di difesa semplici e relativamente poco costose. In sintesi, le armi chimiche sono militarmente poco significative, specialmente nei confronti di forze ben addestrate come quelle della NATO.

A ciò bisogna aggiungere i costi politici da affrontare a seguito dell’adozione dell’opzione chimica, da considerare quale misura escalatoria non convenzionale precedente all’opzione nucleare. Elemento, questo che dovrebbe già di per sé bastare per escludere categoricamente questa scellerata possibilità.

Di fatto, la marginalità dell’efficacia delle armi chimiche ha fatto maturare già da molto tempo la decisione da parte dei membri della NATO di distruggere completamente sia i propri arsenali che gli impianti dedicati alla loro produzione, impegnandosi allo stesso tempo nello sviluppo di importanti programmi di protezione e difesa, mettendo tra l’altro le proprie risorse specializzate a disposizione della comunità internazionale.

La maggior parte dei paesi dell’Alleanza Atlantica, compresa l’Italia, dispone infatti di unità specificamente configurate per la difesa da attacchi chimici, batteriologici e nucleari spesso integrate con le rispettive organizzazioni di protezione civile. Tutti i paesi dell’Alleanza, inoltre, sono firmatari della Convenzione per il Bando delle Armi Chimiche, siglata a Parigi il 13 gennaio 1993 ed entrata in vigore il 29 aprile del 1997.

 

Impiego indiscriminato contro i civili e redlines

Altro discorso, invece, è quello dell’uso di aggressivi chimici in azioni di terrorismo effettuato in ambienti dove è possibile impiegare limitate quantità di agenti chimici per raggiungere la concentrazione letale ed ottenere effetti sicuri nei confronti di personale non protetto ed ammassato in spazi ristretti, come avvenne nella metropolitana di Tokio nella primavera del 1995.

Oppure contro la popolazione civile siriana e curda ad opera delle forze di Assad, sostenute da Mosca, nel 2013 nelle vicinanze di Damasco nel 2014, 2015, 2017 e 2018 nella provincia di Idlib nel nord della Siria.

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La serie di attentati condotti in Giappone causò 12 vittime, circa 150 feriti, quasi 6000 casi d’intossicazione ma, soprattutto, la pressoché istantanea diffusione della consapevolezza del rischio rappresentato dal gas che può contaminare qualunque città e invadere qualunque strada di qualunque metropoli sovraffollata, in un qualunque momento.

Il primo attacco chimico in Siria del 2003 provocò la morte di circa 1400 persone inclusi 426 bambini e pochissime perdite nei ranghi dei ribelli ostili ad Assad, certamente non perché disponessero di sistemi di protezione ma, piuttosto, perché erano disperse sul terreno e mischiate con la popolazione che fu esposta agli effetti letali del gas.

Fu un fatto criminale deliberato, come gli altri che si sono succeduti nel tempo nonostante l’impegno assunto da Damasco di smantellare il proprio arsenale di armi chimiche. Assad aveva ammesso di possederle nel 2012 e il presidente Obama aveva promesso ritorsioni militari significative nel caso la redline del non impiego fosse stata oltrepassata.

Di fronte alle vittime dei gas tossici dei sobborghi di Damasco, Stati Uniti, Regno Unito e Francia pensarono di effettuare dei raid aerei punitivi ma il parlamento britannico bocciò la mozione del governo a sostegno di un intervento armato in Siria.

Obama era sicuro che anche il Congresso non avrebbe mai autorizzato interventi non risolutivi e si trovò nella difficile e imbarazzante situazione di aver promesso una risposta militare che avrebbe dovuto condurre senza il parere del Capitol Hill andando contro il volere dell’opinione pubblica americana, con tutte le conseguenze politiche del caso.

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A questo punto un vero e proprio colpo di scena offrì agli Stati Uniti una via d’uscita onorevole, anche se fu chiaro agli occhi del mondo che Washington aveva in qualche modo perso la faccia. La Federazione Russa presentò a Obama su un piatto d’argento la proposta di mettere sotto controllo internazionale gli arsenali chimici di Assad e di avviarne la distruzione sotto la garanzia congiunta di Mosca e Washington.

L’iniziativa sortì due effetti principali. Permise a Obama di chiedere il rinvio del voto del Congresso sfruttando una buona scusa per non intervenire militarmente in Siria ma, soprattutto, siglò definitivamente il ruolo di attore principale che la Russia avrebbe ricoperto da quel momento in Medio Oriente regione dalla quale gli Stati Uniti si erano da tempo disimpegnati.

Anche i francesi fecero quindi un passo indietro nonostante il presidente Hollande, a fronte di un buon 68% dell’opinione pubblica contraria all’intervento, avesse comunque deciso di seguire Washington nell’eventuale impresa militare.

Assad fu costretto a firmare la Convenzione per il Bando delle Armi Chimiche e ad accettare il regime ispettivo previsto dall’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) istituita per garantire il rispetto delle misure della convenzione. Stati Uniti e Russia siglarono un accordo di garanzia a Ginevra il 14 settembre del 2013.

La distruzione delle armi chimiche siriane si protrasse per tutto il 2014 ma dall’anno successivo gli stessi ispettori dell’OPAC riportarono le notizie e le prove di nuovi attacchi condotti dalle forze siriane nella provincia di Idlib. D’altronde dopo la firma della Convenzione di Parigi, Damasco non aveva ratificato gli accordi che erano rimasti quindi privi di validità giuridica.

Questa volta, la risposta statunitense fu unilaterale ma si manifestò solo a seguito degli attacchi del 2017 e 2018, a insediamento avvenuto della nuova amministrazione Trump. Il nuovo presidente lanciò decine di missili contro installazioni siriane con buona pace del Congresso che non fu mai interpellato.

 

Scenari siriani in Ucraina?

La Federazione Russa ha sottoscritto gli accordi di Parigi nel 1993 e li ha ratificati nel 1997 dichiarando, a suo tempo, un accumulo di circa 40.000 tonnellate di agenti chimici, quantità che non è mai stato possibile verificare e sicuramente sottostimata dal momento che analisi più accurate facevano ammontare le dotazioni russe a non meno di 100/200.000 tonnellate.

Mosca ha quindi intrapreso già nel 1996 un ambizioso programma di distruzione delle armi e di neutralizzazione degli aggressivi, finanziato in larga parte dagli Stati Uniti, che risulterebbe essere stato completato nel 2017

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Il condizionale è d’obbligo dal momento che non è possibile affermare che ciò che è stato dichiarato dalla Russia e verificato dall’OPAC corrisponda effettivamente al totale delle capacità russe e nessuno può garantire che in seguito non siano stati prodotti ulteriori quantitativi di aggressivi e ordigni utilizzando impianti di produzione e di stoccaggio tenuti lontano dagli occhi degli ispettori dell’OPAC.

Nella sciagurata ipotesi che la Russia decidesse di far uso di questo tipo di armi in Ucraina, Mosca violerebbe platealmente i dettami degli accordi di Parigi, per quello che possono valere di fronte alle già numerose violazioni del diritto internazionale e del diritto umanitario nei conflitti armati attuate dalla Federazione russa.

Lo vedremo tra qualche giorno nella dichiarata e attesa offensiva russa nel Donbass, poiché questo è forse il luogo dove i russi potrebbero aver pianificato l’impiego di ordigni non convenzionali, senza parlare della folle possibilità di colpire centri abitati di rilievo strategico come Mariupol per terrorizzare i difensori, militari o civili che siano.

Molto dipende dall’evoluzione della situazione sul terreno, come abbiamo visto, dalla concentrazione delle unità e dalla loro mobilità. Dalla percezione che i russi avranno della loro capacità di sostenere l’iniziativa e di non subire quella dell’avversario. Ma in ogni caso sarebbe l’arma dell’ultima risorsa di un esercito disperato, da impiegare soprattutto per gli effetti psicologici che potrebbero conseguire.

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Un ulteriore segno di debolezza delle capacità militari russe con il potenziale però di provocare risposte occidentali dagli esiti non prevedibili. Biden ha promesso reazioni da parte della NATO nel caso Mosca ricorra all’impiego di armi chimiche in Ucraina   esattamente come i suoi predecessori avevano tracciato le redlines in Siria. Ma con quali modalità e quali conseguenze?

La Siria era troppo lontana dall’Europa perché le vittime di Damasco e Idlib potessero suscitare più di uno sdegno temporaneo e distratto, ma in Ucraina è tutt’altra storia e dalle sorti di questo conflitto dipenderà il nuovo assetto della sicurezza europea e dell’ordine mondiale.

Un eventuale impiego di armi chimiche in Ucraina non solo non cambierebbe le sorti della guerra, in senso strettamente militare, ma aggiungerebbe solo orrore all’orrore e potrebbe provocare un’escalation difficilmente controllabile. Uno scenario che non vorremmo davvero prendere in considerazione.

Foto Fausto Biloslavo, Ministero Difesa Russo e Ministero Difesa Ucraino

 

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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