Guerra in Ucraina e liste di proscrizione per giornalisti e intellettuali. La risposta di Gian Micalessin

 

 

La conferenza stampa di presentazione del report “Disinformazione sul conflitto russo-ucraino”, a cura delle Federazione Italiana Diritti Umani e Open Dialogue Foundation, avvenuta alla Camera il 28 giugno su iniziativa del PD si è trasformata nell’ennesima lista di proscrizione contenente i nomi di giornalisti, intellettuali e scrittori che hanno in diverse occasioni espresso valutazioni critiche o comunque “non allineate” circa la guerra in Ucraina.

Dopo quelle elaborate da servizi di sicurezza nazionale e da alcuni giornali ora anche ong e partiti politici si arrogano il diritto di stilare liste di proscrizione che elencano gli “amici di Putin”, definizione attribuita ormai a chiunque si macchi del reato d’opinione di non recepire e diffondere in modo acritico la narrazione imposta dalla propaganda anglo-NATO-ucraino-americana che domina media e dibattiti anche in Italia.

Come se fosse sufficiente porsi domande e valutare in modo critico il ruolo di USA, NATO e UE in questa crisi per essere arruolato d’ufficio tra i propagandisti putiniani.

Il report (a questo link in versione integrale) di fatto evidenzia opinioni difformi dal “mainstream”  censurandole e discriminandole in base alla loro supposta attendibilità, stabilita a quanto pare da un “Ministero della Verità” i cui “funzionari” sono al tempo stesso accusatori e giudici.

La migliore risposta a questa sempre più soffocante deriva autoritaria e intimidatoria, l’ha fornita a nostro avviso il reporter di guerra Gian Micalessin (nelle foto), inserito nella “lista di proscrizione” per il suo lavoro (Analisi Difesa pubblica in questi giorni in copertina un suo interessante reportage dal fronte del Donbass).

Risposta pubblicata ieri sul sito de “il Giornale” e che riproduciamo qui sotto.

@GianandreaGaian

 

Io, inserito nella lista nera da putiniano. Messo alla gogna da quei Dem filo Urss

30 Giugno 2022

All’indice per il deputato del Pd Romano per un documentario del 2017 e per l’ingresso in Ucraina dalla Crimea. Senza senso

Gian Micalessin 

Gian-Micalessin

Cari lettori, mi hanno scoperto, sono uno vergognoso putiniano e merito la gogna. O peggio. La gogna già c’è. L’ha allestita martedì in una sala del Parlamento il deputato dem Andrea Romano presentando con toni da Prefetto della Santa Inquisizione la ricerca Disinformazione sul conflitto russo ucraino preparato dalla Fondazione Diritti Umani e da una Fondazione Open, emanazione del filantropo George Soros.

La «ricerca» sarebbe irrilevante se non fosse lesiva dei più elementari principi sulla libertà d’espressione e d’opinione.

Le sue trenta paginette, degne più di un’aula delle elementari che non della Camera, si limitano ad elencare alcuni «virgolettati» sul conflitto in Ucraina attribuiti a una ventina fra giornalisti, commentatori e ricercatori protagonisti di cronache o programmi televisivi.

Tra questi spiccano non solo il nome del corrispondente Rai da Mosca Marc Innaro, dell’inviato Mediaset Toni Capuozzo e dell’abusato professor Alessandro Orsini, ma persino quello del regista Usa Oliver Stone colpevole di aver intervistato Vladimir Putin. Poi c’è il dossier a mio nome.

La mia prima macchia è un documentario, poco gradito a Kiev, messo in onda nel 2017 (qui la versione integrale NdR) dal programma di Nicola Porro Quarta Repubblica. In quel documentario alcuni militanti georgiani, mai pagati per i loro servizi criminali, mi confessano di essere i veri esecutori della strage di dimostranti del febbraio 2014 attribuita alla polizia di Viktor Janukovich. Una strage che portò alla cacciata del presidente filo-russo e all’instaurazione di un governo allineato con Usa e Ue.

Per gli autori della ricerca fanno testo solo le tesi ucraine che, guarda caso, liquidano come false le confessioni dei cecchini georgiani. Ovviamente il tutto omettendo la regola fondamentale dell’informazione che impone di sentire i diretti interessati, ovvero il sottoscritto. Se l’avessero fatto avrebbero scoperto che prima di trasformarmi in presunto putiniano ho iniziato la mia carriera seguendo, fin dal 1983, i mujaheddin afghani in lotta con i sovietici.

E che in Afghanistan sono tornato con i marines statunitensi e con i soldati italiani per raccontare la guerra della Nato ai talebani. E magari avrei potuto aggiungervi i reportage in Cecenia dove nel 1994 prima e nel 2000, quando a Mosca c’era già Putin, seguii le imprese dei ribelli anti russi.

Ma per la nuova Santa Inquisizione filo-Kiev questi trascorsi contano poco rispetto alle mie colpe attuali. Il 16 marzo scorso dopo aver realizzato uno dei primi servizi nelle zone occupate dai russi, ho venduto il servizio al Tg1 ignorando, a detta dei miei detrattori, che entrare in Ucraina dalla Crimea occupata «rappresenterebbe una violazione della legislazione ucraina».

Una logica assolutamente becera in base alla quale anche in Afghanistan e in Cecenia avrei dovuto tener conto dei divieti di Mosca ai giornalisti stranieri. E ancor più becero è il silenzio sui contenuti del servizio da Melitopol in cui davo voce agli abitanti pronti a condannare l’invasione russa.

Stessa logica strumentale utilizzata per mettere alla berlina la cronaca da Donetsk in cui, a maggio, ricordavo i sentimenti della popolazione delle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk decisi a pretendere l’esecuzione dei militanti del Reggimento Azov protagonisti, dal 2014 al 2022, di una dura repressione degli esponenti filorussi.

Ma non c’è da stupirsi. Come spiega l’«inquisitore» Andrea Romano: «Un conto è il pluralismo e la libera circolazione delle idee… un altro il trattamento paritario di ogni opinione». Come dire le tue idee valgono solo se identiche alle mie. Un pensiero non degno, forse, di Voltaire, ma ben in linea con le regole di un’Urss dove i dissidenti si curavano in manicomio. Un’Urss di cui molti compagni di quel Pd in cui milita Romano hanno negato per decenni i crimini.

 

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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