Binelli a Washington discute l'impegno italiano nella Coalizione
L’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di Stato maggiore della Difesa, è giunto a Washington per partecipare al summit dei 20 Paesi aderenti alla Coalizione che combatte lo Stato Islamico. O almeno così sembrerebbe dal momento che nei palazzi della Difesa nessuno commenta o conferma la notizia che è stata diffusa ieri dal magazine statunitense Foreign Policy (che ha riferito di un vertice dei “top military commanders”) poi ripresa da diverse testate internazionali
Ancora una volta risulta inspiegabile il basso profilo assunto dalla Difesa italiana circa una notizia che non aveva nessuna possibilità di restare segreta e per un summit che dovrebbe tenersi nella base aerea di Andrews (Maryland) a cui partecipano i capi di stato maggiore (appunto i ” top military commanders”) di tutti i Paesi che fanno parte della Coalizione.
L’Italia è stata tra i primi aderenti anche se ha finora limitato il suo impegno a poche forniture di armi ai curdi, comunque sufficienti a far rientrare Roma nella lista dei belligeranti e dei nemici del Califfato. L’obiettivo del vertice presieduto dal generale Martin Dempsey alla presenza del comandante del Central Command (CENTCOM) che guida le operazioni, il generale Lloyd Austin, pare sia quello di fare il punto su una campagna aerea che, dopo oltre 2 mesi e circa 350 incursioni aeree su Iraq e Siria, non sta dando i frutti sperati ed esaminare i contributi aggiuntivi che i partner sono disposti a offrire.
Da quanto si apprende da fonti qualificate il governo italiano sarebbe disposto a inviare velivoli di supporto nell’area delle operazioni ma non mezzi o reparti da combattimento. Si parla di alcuni aerei cisterna KC-767A o KC-130J, un paio di velivoli teleguidati Reaper e forse team di istruttori per addestrare i curdi ai quali potrebbero venire consegnate altre armi e munizioni provenienti dall’arsenale requisito nel 1994 sulla nave Jadran express che cercò di violare l’embargo internazionale alla ex Jugoslavia
L’Italia partecipa “con un impegno politicamente pieno” alla Coalizione contro lo Stato islamico in Iraq e Siria e “quindi parteciperà alle decisioni che verranno prese sull’eventuale intensificazione o riorganizzazione dell’intervento militare” ha detto ieri all’Adnkronos il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova aggiungendo che un intervento militare più diretto dell’Italia “dipenderà dalle circostanze”. Ne sapremo di più in tempi stretti non solo perché il vertice di Washington si conclude oggi e qualcosa circa le decisioni assunte verrà reso noto ma anche perché il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha chiesto la convocazione delle commissioni Difesa di Camera e Senato per giovedì probabilmente proprio per comunicare i termini della partecipazione militare nazionale allo sforzo bellico.
Sul campo di battaglia la situazione è difficile in più settori. A Kobane, nel Nord della Siria, la battaglia continua strada per strada, ma lo Stato islamico non riesce a sfondare ed è stato costretto a far affluire altri rinforzi da Raqqa. Dopo aver conquistato il quartier generale delle forze di autodifesa curde (Ypg), i jihadisti non sono riusciti a conquistare la piazza centrale della cittadina anche a causa dei raid aerei condotti dagli Usa e dai sauditi. Nel corso dell’ultima settimana, a Kobane e dintorni, ne sono stati effettuati una cinquantina ma è sempre più difficile colpire le forze del Califfato in città senza rischi di “danni collaterali” o “fuoco amico”.
Secondo quanto riferito dal Comando centrale americano, ieri quattro raid hanno colpito miliziani del Califfato a sud-ovest dell’enclave curda, distruggendo una postazione da cui sparava una mitragliatrice, mentre altri 3 attacchi aerei hanno danneggiato una postazione e diversi edifici. Un altro attacco della coalizione internazionale è stato invece lanciato contro un presidio dell’Isis a nord-ovest di Raqqa.
Jihadisti islamici e miliziani curdi si scontrano violentemente da ieri mattina in prossimità del valico di Mursitpinar, a ridosso del confine turco, appena a nord di Kobane. Sono scontri che rischiano di tagliare completamente le vie di accesso alla città curda e il valico attraverso il quale finora sono fuggiti in Turchia oltre 200mila sfollati. Gli scontri, con armi automatiche e colpi di mortaio, avvengono in un’area a meno di chilometro dal filo spinato che separa la frontiera tra Turchia e Siria.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha aggiunto che il gruppo jihadista sunnita ha anche lanciato due razzi contro la zona, senza che si registrassero vittime e che c’è stato un attentato-kamikaze: un’autobomba condotta da un terrorista dell’Isis e che era diretta al valico di frontiera è esplosa a nord di Kobane. Fonti ufficiali curde hanno avvertito che i miliziani dell’Isis hanno circondato l’enclave da tre lati: sud, est e ovest.
“Stiamo facendo quello che possiamo attraverso gli attacchi aerei per far arretrare l’IS”, ha detto il segretario alla Difesa Usa Chuck Hagel, e “in effetti ci sono stati alcuni progressi in questo campo”.
Situazione critica anche sul fronte dell’Iraq Occidentale dove l’esercito iracheno colleziona rovesci spalancando la strada per Baghdad al Califfato. I jihadisti hanno preso ieri il controllo di una base militare nella città di Hit, nella provincia di al-Anbar ormai quasi del tutto in mano agli uomini del Califfato che hanno già il controllo del confine saudita e giordano. Stando all’agenzia di stampa irachena al-Mada, la base è caduta sotto il controllo dei jihadisti dopo ore di combattimenti.
Che il tracollo dei governativi ad al-Anbar sia imminente sembra dimostrarlo anche la decisione di trasferire i detenuti (per lo più miliziani sunniti) delle prigioni nei dintorni del capoluogo Ramadi (dove ieri in un attentato è stato ucciso il capo della polizia provinciale) in altre strutture a Baghdad.
Secondo fonti locali citate dal Telegraph e da al-rabiya – l’IS avrebbe radunato “fino a 10mila combattenti” pronti a sferrare un attacco alla capitale. Nel mirino, secondo il generale Dempsey, ci potrebbe essere l’aeroporto della capitale irachena. Di recente, ha rivelato alla Abc, hanno tentato di conquistarlo e sono stati respinti dagli attacchi degli elicotteri americani Apache. “Erano a circa 20 o 25 chilometri” dallo scalo, ha raccontato Dempsey, aggiungendo che “se avessero avuto la meglio sul reparto dell’esercito iracheno che li fronteggiava sarebbero arrivati dritti all’aeroporto” e “non potevamo consentire che accadesse”.
Non è un caso che Dempsey continui a insistere sulla necessità di un ruolo “più attivo e diretto” delle forze speciali americane, evocando un coinvolgimento americano sul terreno che la Casa Bianca continua ad escludere.
Anche sul piano politico la Coalizione si sta rivelando ben poco efficace e soprattutto caratterizzata da interessi diversi e contrapposti. L’ultima imbarazzante questione riguarda la decisione turca di concedere agli Stati Uniti l’utilizzo della base di Incirlik (che è già una base statunitense) per colpire le forze del Califfato. Decisione annunciata lunedì mattina da Washington ma smentita poche ore dopo da Ankara.
Da New York anche il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha ribadito che “nessuna decisione è stata presa”. L’equivoco era nato dall’annuncio del Consigliere per la sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Susan Rice, secondo la quale “un nuovo accordo di cui ci rallegriamo molto” con la Turchia.
Ma un funzionario del governo ha chiarito che “non c’è alcun nuovo accordo con gli Usa per l’uso a scopi bellici della base aerea di) Incirlik”. Installazione che ospita 1.500 militari americani la US Air Force finora impiega per scopi logistici ed umanitari mentre i raid aerei su Siria e Iraq prendono il via da aeroporti in Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
La rivalità tra l’Arabia Saudita e il Qatar ha invece bloccato l’elezione del nuovo primo ministro del governo di opposizione in Siria, di fatto l’organo politico della cosiddetta “opposizione moderata” a Bashar Assad. “C’è stata forte tensione e i partecipanti” alla riunione di Istanbul “non sono riusciti a mettersi d’accordo sul nome del nuovo primo ministro” durante la 16esima Assemblea generale della Coalizione dell’opposizione siriana, ha affermato uno dei suoi membri. Sui 13 candidati, i due principali rivali sono Walid Zohbi, ministro dell’Agricoltura del gabinetto uscente e vicino all’Arabia Saudita, e Ahmad Tohmé, capo del governo provvisorio, sostenuto dal Qatar.
All’ultima Assemblea di luglio, Tohmé era stato sollevato dalle sue funzioni, dopo dieci mesi, con 70 voti favorevoli alla sua rimozione e 35 contrari. Tohmé è vicino ai Fratelli musulmani di Siria, gruppo inviso all’Arabia Saudita. Il suo rivale Walid Zohbi è sostenuto invece da Hadi al Bahra e Ahmad Jarba, attuale leader della Coalizione, molto vicino a Riad. “Il Qatar ha fatto sapere chiaramente all’Assemblea generale che se Tohmé non sarà eletto, fermerà il suo sostegno finanziario alla Coalizione” ha spiegato un altro dei partecipanti alla riunione di Istanbul.
Invece di preoccuparsi di sconfiggere l’IS il ministro degli Esteri saudita, il principe Saud al Faisal,ha espresso ieri all’omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier le critiche all’Iran che “In molti conflitti, è parte del problema, non la soluzione”. Il principe Saud ha accusato l’Iran- di avere forze in Siria che “combattono siriani” definendole “forze di occupazione” che aiutano il presidente Bashar al Assad, descritto come un leader “illegittimo”. Alla faccia della Coalizione di cui fanno ufficialmente parte i sauditi (e le altre monarchie sunnite del Golfo) si continuano a porre l’obiettivo di far cadere Bashar Assad e colpire l’Iran e i suoi interessi, non certo di fare per davvero la guerra all’IS le cui bandiere non sventolano oggi su Damasco e Baghdad grazie soprattutto all’intervento dei battaglioni di pasdaran iraniani.
Mentre si moltiplicano le accuse di eccidi e violenze sui civili da parte delle forze dell’IS, ieri Amnesty International ha messo sotto accusa le milizie sciite le cui barbare rappresaglie sui civili sunniti erano già state evidenziate da Analisi Difesa
Le milizie sciite, armate e sostenute dal governo iracheno, si sono macchiate di diversi crimini di guerra negli ultimi mesi, sequestrando e uccidendo numerosi civili sunniti nella totale impunità. L’accusa lanciata da Amnesty International nel rapporto “Impunità assoluta: il potere delle milizie in Iraq” contiene resoconti di attacchi settari compiuti dalle sempre più potenti milizie sciite a Baghdad, Samarra e Kirkuk, apparentemente per vendicare attacchi degli jihadisti dello Stato islamico .
“Dando il suo assenso alle milizie che continuano a commettere questi orribili abusi, il governo iracheno sta approvando crimini di guerra e alimentando un pericoloso ciclo di violenza settaria che sta spaccando il Paese”, ha commentato Donatella Rovera, alta consulente per la risposta alle crisi dell’organizzazione internazionale, “Il sostegno del governo al potere delle milizie deve finire immediatamente”, ha aggiunto.
Nel rapporto, Amnesty denuncia come siano stati rinvenuti decine di corpi non identificati, uccisi con un colpo alla nuca in stile esecuzione, di molti altri scomparsi non se ne sa più nulla mentre alcuni prigionieri sono stati ammazzati anche dopo il pagamento di ingenti riscatti da parte delle famiglie.
Il crescente potere delle milizie sciite – sottolinea l’organizzazione – ha contribuito al generale deterioramento della sicurezza e allo sviluppo di un clima di assenza di legge. Tra le milizie ritenute responsabili di rapimenti e uccisioni, ci sono ‘Asa’ib Alh al-Haq, le Brigade Badr, l’Esercito del Mahdi e Kata’ib Hizbullah. “Non chiamando le milizie a rispondere dei loro crimini di guerra e di altre gravi violazioni dei diritti umani, le autorità irachene hanno praticamente dato via libera alla loro violenza sfrenata contro i sunniti”, ha affermato la Rovera, esortando il nuovo governo del primo ministro Haider al-Abadi ad “agire subito per riprendere il controllo delle milizie e ristabilire la legge”.
“Le milizie sciite stanno prendendo selvaggiamente di mira i civili sunniti – ha sottolineato – ufficialmente con la scusa di combattere il terrorismo, ma con l’apparente obiettivo di punirli per l’ascesa dello Stato islamico e per i suoi orribili crimini”. Le rappresaglie in atto da parte delle milizie sciite lasciano intuire cosa accadrà alle popolazioni sunnite irachene se il Califfato dovesse venire sconfitto.
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.